Storia di un matrimonio (Marriage Story), recensione

marriage story poster

Come sapete, dalla scorsa settimana, è disponibile su Netflix uno dei film più celebrati dell’anno dalla Critica statunitense, vale a dire Storia di un matrimonio (Marriage Story).

Una delle pellicole che certamente gareggerà in prima linea ai prossimi Oscar, già menzionata in tutte le categorie principali dai maggiori premi, appunto, pre-Academy Awards. Avendo già ricevuto ben 6 nomination ai Golden Globe e tre candidature ai prestigiosissimi Screen Actors Guild Awards.

Scritto e diretto da Noah Baumbach e interpretato da due attori in forma, Adam Driver e Scarlett Johansson.

In Concorso alla 76.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ove, dobbiamo ammetterlo, non si pensò che avrebbe ricevuto susseguentemente i plausi adesso riconosciutigli pressoché unanimemente, venendo infatti snobbato da qualsiasi premio, Storia di un matrimonio, chiariamolo subito, è un bel film, certamente, ma è stato ampiamente sopravvalutato.

Almeno questa è l’impressione suscitatami dopo averlo visto.

Storia di un matrimonio ricalca, in forma aggiornata ai tempi attuali, una vicenda sentimentale e intimistica, invero un po’ dolciastra e buonista, à la Kramer vs. Kramer, di una coppia divorzianda titubante se separarsi o no poiché v’è di mezzo il figlio piccolo. Una coppia forse ancora innamorata che comunque si troverà a battagliare legalmente.

Lui, Charlie (Driver), è un regista teatrale assai stimato nel suo ambiente intellettuale, lei, Nicole (Johansson), è un’attrice, spesso sua musa ispiratrice, logorata dallo stress e dall’impietosa, severa freddezza, in campo professionale e non, che suo marito, poco magnanimo recentemente nei suoi riguardi, le riserba con duro, puntuale, insopportabile e distaccato cinismo.

Questa coppia, angustamente soffocata dai loro esistenziali patemi e forse oramai prosciugata passionalmente, saprà riconciliarsi, nonostante tutto, dimenticando le reciproche acredini e stemperandole in un caldo, romantico e al contempo miracolistico ritorno di fiamma insperato e soprattutto disperato?

Non ve lo sveleremo, ovviamente.

Noah Baumbach, come sempre, piace molto al pubblico radicalchic. Così si diceva sino a un paio d’anni fa ma anche quest’espressione è divenuta velocemente desueta.

Baumbach allestisce un’altra pellicola robustamente influenzata da Bergman e debitrice degli psicodrammi newyorkesi di Woody Allen.

Ma Baumbach, a mio avviso, non possiede però il liturgico, straniante senso della metafisica tragicità di Bergman, tantomeno, per quanto i suoi dialoghi siano formalmente, egregiamente scritti e recitati con dovizia, non è e non sarà mai Allen. Cioè, è forse troppo autocompiaciuto nell’essere conscio di avere un discreto, appezzabile talento ma è privo di quella verve e di quell’innata, non calcolata, bensì spontanea, adorabile, delicata vena poetica squisitamente autentica e appassionatamente esilarante, surreale e magica di Allen. La presenza, nel cast, di Alan Alda non basta.

I suoi film sono deliziosi, sì, ma si dimenticano anche facilmente in fretta. In poche parole, si lasciano vedere con godibilità e scorrono, nonostante le loro lunghette durate spesso al di sopra della media, con estremo piacere. Ma non entrano nell’anima davvero né perturbano o divertono sin in fondo.

Malgrado l’impegno, la sofisticatezza delle loro agre e tenere sceneggiature eleganti, a dispetto della loro grazia stilistica, danno sempre l’impressione di essere troppo studiate e scialbamente riciclate da precedenti illustri già sopra citativi. Loro, sì, personalissimi, eccentrici e semplicemente superiori.

Storia di un matrimonio è allora un film drammatico dal passo lieve con molti momenti da commedia leggera, con numerosi passaggi umoristici e perfino gustosamente divertenti, che pare in molti punti addirittura una rilettura dei film morbidamente contemplativi di Sofia Coppola. Infatti, la Nicole impersonata, non senza qualche sbavatura, da Scarlett Johansson, sembra una Liv Ullmann rigeneratasi in una donna più giovane e bionda-castana, ovvero la stessa Johnasson (re)incarnatasi a sua volta nella versione matura della sua celeberrima Charlotte di Lost in Translation.

Adam Driver è bravo, molto bravo ma, se dovesse vincere l’Oscar, rubandolo a Joaquin Phoenix di Joker, rimarremmo assai perplessi.

La sua presenza scenica è imponente e Driver dimostra di sapersi destreggiare, con lodabile istrionismo e buona duttilità, fra toni puramente solenni, riflessivi, ponderosamente mesti e attimi scanzonati o solo più leggiadri, se non perfino soavi, commoventi o scherzosi.

Ma la sua performance, per quanto ottima, non vale comunque la potenza dell’interpretazione di Phoenix.

Per quanto riguarda i non protagonisti, invece, Laura Dern gigioneggia ma forse non giganteggia come s’è detto, Ray Liotta è simpatico e vive del suo fascinoso, strambo carisma.

Dunque, Storia di un matrimonio è un film da vedere, senz’ombra di dubbio.

Ma siamo lontani veramente dalla frettolosa nomea di capolavoro che la Critica gli sta esageratamente appioppando.

I capolavoro sono altri.

E, come già sopra dettovi, i migliori film di Allen sull’argomento, come per esempio Mariti e mogli, sono di un’altra categoria.

di Stefano Falotico

 

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