THE END? L’INFERNO FUORI, recensione

the end misischia poster

Un pupillo dei Manetti Bros. gira un film a base di strabuzzate, oculari pupille. Cinema per gustative papille che conoscono il piacere al dente del Cinema zombesco più cannibalistico, succulento, violentemente ripieno di gente putrescente.

Ebbene oggi, liberi da vincoli editoriali, recensiamo The End? L’inferno fuori.

Pellicola da considerarsi opera prima in termini, anzi, nel pertinente significato di lungometraggio, firmata da Daniele Misischia.

In quanto, dopo numerosi cortometraggi e il mediometraggio Anna: The Movie, Misischia (classe ‘85 e natio di Roma con 42 credits all’attivo, stando a IMDb) si cimenta in questo caso con un film dal minutaggio superante l’ora di durata. Per l’esattezza, The End? L’inferno fuori dura 1h e 40 min. netti.

I titoli di coda sono peraltro cortissimi.

Atteso al varco con la sua seconda prova dietro la macchina da presa, ovvero il venturo Il mostro della cripta, Misischia presentò The End? alla Festa del Cinema di Roma nel 2017 e la sua opus, inizialmente intitolata In un giorno la fine, patrocinata dai Manetti Bros. (Antonio & Marco), realizzata in gran parte grazie ai finanziamenti della regione Lazio poiché ritenuta d’interesse culturale, dallo stesso Misischia scritta in collaborazione con Cristiano Ciccotti (soggetto e sceneggiatura quindi di entrambi, così come infatti vengono accreditati nei titoli di testa sovraimpressi al frenetico suo incipit ambientato in un taxi durante Un giorno di ordinaria follia à la Joel Schumacher oppure nel bel mezzo frastornante d’un qualsiasi normale giorno convulso di ordinaria amministrazione, potremmo dire, frenetico della solita capitale italiana assai caotica e nevrotica), si palesa fin da subito come una pellicola sperimentale e dichiaratamente memore dei grandi maestri del thriller, dei film “de paura” (tanto per usare un’espressione per l’appunto capitolina), del brivido e del terrore, dell’horror di ieri, oggi e del domani appartenente, chissà, perfino allo stesso Misischia?

Misischia infatti, senza nascondersi dietro un dito, ben conscio della sua cinefila cultura amante della Settima Arte più prelibata e succulenta di John Carpenter e George Romero, di Dario Argento e tanti affini altri enormi cineasti, diciamo, “seminali” nel loro genere, indiscutibilmente acclamati e oramai storicamente specializzatisi nella loro riconoscibile poetica assolutamente personale ed estremamente rilevante, saccheggia a piene mani atmosfere e situazioni derivat(iv)e dai e dei nomi appena citati.

Plasmando il suo film entro i parametri e le coordinate narrativo-visive d’un kammerspiel sui generis evidentemente ricalcato su capisaldi cinematografici consolidatisi in maniera inossidabile nel tempo e nell’immaginario mnemonico di ogni adoratore delle inquietanti, rabbrividenti, asfissianti suggestioni stilistico-claustrofobiche alla Distretto 13 – Le brigate della morteLa notte dei morti viventi in versione sorprendentemente mutuata e ribaltata (innocuo e leggerissimo spoiler) e il Cinema più perturbante di Lamberto Bava (con tanto di lunga sequenza mostrataci d’esplicitato riferimento voluto e ricercato, anche in senso lato, a Dèmoni 2… l’incubo ritorna).

In bui tempi odierni nei quali stiamo tuttora, ahinoi, vivendo la cataclismatica e strozzante, paralizzante e spossante situazione pandemica del COVID-19, The End compare sempre in streaming su Netflix Italia e, rivisto adesso, involontariamente pare che sia stato profetico di moniti purtroppo attualmente concretizzatisi che, a loro volta, rimandano perfino al capolavoro più sottovalutato di M. Night Shyamalan, ovvero E venne il giorno (The Happening).

Trama, ridotta all’osso, di questo zombie movie verace, sanguigno, violento e sanguinolento a mo’ di splatter e gore reminiscenti perfino fumettistici stilemi alla Dylan Dog bonelliano, cioè la trama scarna di un film pieno di gente scarnificata: un uomo d’affari cinico e bastardo di nome Claudio Verona (Alessandro Roja), una specie di fac-simile in miniatura e nostrano del Gordon Gekko/Michael Douglas di Wall Street stoniano, prende il tassì per recarsi, come ogni dì, alla sua azienda ove fa molti quattrini, fregandosene totalmente del tassista Riccardo (Roberto Scotto Pagliara), neo-laureato in Economia che gradirebbe cortesemente qualche dritta o qualche “spinta” dal suo passeggero cliente maleducato, irriguardoso e screanzato.

Riccardo giunge nel suo lavorativo palazzone di cristallo e s’imbatte nella stagista Silvia (la carina, in ogni senso, ragazzina interpretata da Benedetta Cimatti, una giovanissima donna sulla quale forse, data la sua dolce e sensuale avvenenza leggiadra da provocante Lolita ante litteram, il nostro stronzo affarista nutre delle particolari mire un po’ bavose da scafato marpione irredimibile e incorreggibile. Difatti, dopo aver conversato velocemente con lei, ammiccandole fortemente e furbescamente, non tanto segretamente, in modo poco velato e molto interessato a secondi fini di matrice fottutamente sessuale e marcatamente svergognata, decide di punto in bianco di annetterla al suo entourage per darle una sentita… mano che potrebbe non poco aiutarla, di compromesso alquanto facilmente intuibile, a fare carriera onestamente…

Quindi, scorge la sua sexy ex, la biondona di fuoco in minigonna nera attillata, la longilinea Marta (Euridice Axen). Entra con lei in ascensore e, malgrado Riccardo sia ora fedelmente sposato, per modo di dire, con un’altra donna, vi prova nuovamente e spudoratamente con la sua trascorsa fiamma giammai dimenticata, eternamente e voluttuosamente desiderata. Che lo ferma però subito, castrando ogni azzardata sua avance indelicata, moralmente lercia e schifosamente spudorata.

Dopo essere stato stoppato in modo imbarazzante dall’arrapane Marta durante il suo momentaneo, illusorio momento speranzosamente tendente a qualcosa di piccante, ficcante e godibilmente eccitante, Riccardo rimane bloccato in modo scioccante, sempre più crescentemente preoccupante, in ascensore.

Restando seppellito vivo e impalato come un coglione sesquipedale nell’antro soprattutto di una situazione tragica e grottesca figlia dei peggiori incubi kafkiani. Inizialmente, Riccardo pensa che si tratti di un normale guasto che presto verrà riparato da qualche manutentore… Sì, da qualche addetto della tecnica manutenzione. Poi, sbigottito e sgomento, si accorge di essere in modo allucinante precipitato all’interno dei materializzati suoi più raccapriccianti, inconsci pavori bestiali.

La gente muore, scoppia l’orrore, le persone si stanno trasformando in zombi mostruosi.

Un virus di origine ignota, forse artificialmente creato in laboratorio, è sfuggito di mano ai suoi creatori, ai suoi scellerati inventori. Tale morbo virale è probabilmente la causa principale d’una mefitica, oscura malattia invisibile che sta causando terribili infezioni corporali delle più atroci.

Un inizio teso e incalzante, dalle premesse avvincenti e spiazzanti, quello di The End? L’inferno fuori, lentamente viene un po’ sciupato da un minutaggio esagerato in cui, nel vano tentativo disperato di cercare espedienti interessanti per smorzare la schematica cadenza di ripetitive situazioni soporifere e noiose, Misischia smarrisce non poche volte il baricentro della storia e, a livello prettamente ritmico, fa un po’ cilecca e confusione.

Però, il finale indubbiamente stupisce e colpisce anche per via di una bellissima carrellata dall’alto panoramico di una città deserta popolata solamente da cadaveri e corpi in via di tremenda putrefazione stupefacente e al contempo orrenda.

Come esordio non è male, no, non è per niente malvagio.

Ma, come si suol dire, Daniele Misischia deve ancora mangiarne… di panini.

Il peso… e la stazza, anche la statura non solo registica, di certo non gli mancano.

Diverrà un pezzo grosso? Alla bilancia… del tempo lasceremo decidere.

Sfonderà? Chi lo sa…

Misischia ha coraggio, come si suol dire, vale a dire il pelo sullo stomaco. Forse veramente ce la farà.

Intanto, Misischia esibisce la sua ispida barba da lupo intellettuale, forse un po’ da brava volpe navigata, che sa il mento e la mente sua.

di Stefano Falotico

 

 

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