Il FILO NASCOSTO, recensione

il filo nascosto

Inizio con battuta ficcante da uomo, come Daniel, assai ammiccante e provocante: IL FILO NASCOSTO è la storia del figo Day-Lewis che si strugge per la sua lei che poi sfilò e subito se lo (in)filò.

Ecco, detto ciò, cioè dopo la freddura alla Falò, andiamo avanti oppure indietro e/o didietro, ovvero nel popò, ah ah.

Ebbene, dopo aver assistito alla sacrosanta e meritata disfatta di Laura Pausini agli Oscar, giustamente sconfitta, dopo aver azzeccato profeticamente tutti i vincitori degli Academy Awards, per l’appunto, centrando le vittorie, insperate dai più, della McDormand e di Anthony Hopkins, prima di passare a Phantom Thread, ovvero al film più sopravvalutato degli ultimi trent’anni, film venerato alla follia dai vecchiardi oramai alla frutta, ammalati di cinefilia senile delle più deleterie e radicalchic, e idolatrato, spaventosamente magnificato grottescamente dagli amanti del regista più esaltato di sempre, da sé stesso e specialmente dai suoi stessi succitati aficionado sofistici, falsamente sofisticati e autisticamente incapaci di giudicarlo con obiettività, dunque incensatori di Anderson per puro partito preso morbosamente pendente dalle metaforiche labbra sue studiatamente, meticolosamente e insopportabilmente in grado soltanto di sobillare, no, sibilare scialbe imitazioni kubrickiane e altmaniane più algide e fredde del Polo Nord, accenniamo ancora alla Pausini.

Colei che incarna la tragedia vivente della parola pietà incastonata nel suo viso da bugiardissima Santa Maria Goretti che, ultimamente, vorrebbe anche essere eccitante come Dua Lipa, esibendosi infatti in videoclip ove mostra generosamente le tornite gambe sode su occhio ammiccante il ricercare, in tal caso, cedrate e Lemonsoda in senso lato forse anche suo b da popolana sui viali, per essere eufemistici e non prosaici, divenendo perciò codesta un raccapricciante ibrido fra Raffaella Carrà, ovvero colei che a sua volta simbolizzò l’apoteosi storica dei quadricipiti grassottelli eppur perversamente sexy alla Valeria Marini, da me fin dai suoi esordi ribattezzata il cotechino di San Silvestro, e la signorina Silvani ante litteram, vale a dire una bruttona “mostruosamente” affascinante, come no, del panorama musicale tristissimo, ahinoi, odierno.

Scusate, Dua Lipa è bona ed è pure brava. Stenderei invece un velo pietoso per filo, no, perfino su una che per anni mieté applausi a scena aperta, l’abominevole Giorgia. Una cantante o forse un’adolescente senz’età, una tipa poco topa ma molto problematica, una disadattata cronica e un’anoressica irreversibile, stimabile almeno perché urlò la sua sincera pazzia onestamente al motto di vivi, vivi davvero. Siamo sicuri che non sia seguita, a tutt’oggi, da qualche centro di salute mentale ove, fra un’hit e l’altra, le prescrivono del Topexan, soffrendo lei di acne tardo-adolescenziale inguaribile, e 100 milligrammi di dopamina?

Torniamo a Laura, Laura non c’è, è andata via…? Oddio, Nek. Ancora canta!? No, la solitudine sai cos’è? Per l’amor di dio! Laura Pausini, fortunatamente trombata agli Oscar. Ed è già un miracolo, veramente troppo che la sua melensa canzone Io sì, ricolma di motivetti più pletorici del peggior Cinema pomposo dell’altro campione di sovrabbondanze magniloquentemente insulse qual è quel cretino di Oliver Stone, abbia vinto il Golden Globe. Ora, se il fanatico medio di Fedez e di J-Ax è un disadattato coglionato da due ricconi, cioè quest’ultimi, che incassano i soldi di coloro, fra cui il poveretto loro ammiratore poc’anzi, per mia compassione, menzionatovi, il quale s’identifica nei gretti populismi di tali mentecatti che allestiscono scrofe, no, strofe a base di filastrocche meno fighe delle gnocche che parimenti ne sono, non solo sessualmente, parassite indecorose eppur perennemente, superbamente (s)vestite, rifilandoci fradicie e luride, ludre lyrics da quattro lire, orecchiabili per fessi depressi ignoranti in merito semmai alla Lirica, propinandoci canzonette enfaticamente oratorie ed elogiatrici delle sfighe clamorose delle irrecuperabili ruote del carrozzone rappresentate da questi miserabili cazzoni interminabilmente amareggiati, imperterriti però amanti soltanto di canzoni lodanti le loro disgrazie plateali da assistenza sociale ed elevate pateticamente in gloria dei/dai poveri cristi che non sono altro, ecco, Laura Pausini è l’emblema e il prototipo della nobildonna paracula che incassa monete dorate grazie alle sue lamentose, penose e patetiche song incoraggianti le femmine mai cresciute, probabilmente sciancate e disgraziate, da nessun maschio inculate e cagate, le quali dunque sperano di farseli, no, prima o poi di farcela e di rifarsi nella vita che a loro fu troia, vincendo solamente da totali vinte la loro deprimente, mi spiace per loro, incurabile incarnazione di Mariangela di Fantozzi da protezione animali del WWF delle racchie.

Che c’entra tutto ciò col Filo nascosto?

C’entra eccome.

Ora, se volete dire che Laura Pausini è una grande cantante e una grande donna perché vi piace per ignote ragioni irrazionali, forse però dovute al vostro plebeo fanatismo irriducibile o a qualche strana, mentale patologia difficilmente identificabile, fate(vela) voi. Non voglio starvi a sentire né ascoltarla.

Allo stesso modo, se volete affermare che Paul Thomas Anderson è un genio, più che amanti dei veri geni, siete tutt’al più similari agli ex di Pamela Anderson.

Non credo sinceramente che Tommy Lee o Stephen Dorff, difatti, farebbero attenta distinzione fra Arancia meccanica Barry Lindon.

Ora, prendiamo uno che odia Wes Anderson (e dire che l’inizio del Filo nascosto assomiglia parecchio a Castello Cavalcanti) e che confonde i primi piani in macchina di Malcolm McDowell di A Clockwork Orange, assieme ai suoi drughi e a non a Lebowski, copiati naturalmente da Paul Thomas Anderson nell’incipit del suo film osannato esageratamente in modo osceno, col bello stile non certo cinematografico né letterario della sua recensione manierata da fanatico cieco, per l’appunto, della Settima Arte furbona, fintamente raffinata e andersoniana, impersonalmente emulativa e derivativa di Kubrick. Robert Eggers sta già, al suo secondo film, facendo la stessa fine di Anderson, fra l’altro.

Ecco la classica review di chi scambia l’essere calligrafici ed estetizzanti con grandiosità impeccabile e magistrale! Ci salvi iddio da tale intellighenzia rimbambita sull’incartapecorito andante con piglio? No, con grigio:

«Immaginate tutto questo illustrato e narrato in termini cinematografici di stupefazione e incanto permanenti, in un bagno di immagini, colori, ambienti e coreografie cinetiche della macchina da presa (maneggiata dallo stesso regista, che ha preferito non accreditarsi come direttore della fotografia nei titoli) che irretisce e regala una costante sensazione di volo sospeso, con la complicità di un montaggio che scandisce a profusione dettagli di lusso, armonia e voluttà di ogni foggia e fattura, e di una colonna sonora curata da Jonny Greenwood che alterna le duttili sonorità tardo-novecentesche della propria partitura originale a brani e canzoni d’epoca e al geniale inserto del primo movimento del Trio op.100 di Schubert, in un gradito intreccio di omaggi cinefili (per Barry Lyndon, Kubrick ne aveva usato il movimento successivo, Andante con moto).

Opera-monumento di ricercata e personalissima autorialità, Phantom Thread, o Il filo nascosto (traduzione italiana letterale, ma piatta e poco evocativa, come il titolo di un romanzetto da vetusta biblioteca per fanciulle), conferma l’assoluta e preziosa rarità dell’occhio di un cineasta tra i maggiori viventi, espressione di una cultura occidentale che estrae da se stessa icone consolidate come ideali platonici da ri-conoscere (tra Rebecca e Vertigo, quanto Hitchcock si annida nella dorata magione di Woodcock…), ammantati di nuove e contemporanee inquietudini, nello splendore di un magistero formale che nasconde, tra le pieghe del dramma che mette in scena (come i messaggi segreti nascosti e cuciti negli abiti di Woodcock), la sua pelle, la sua carne, la sua stoffa, il suo dolore, e, forse, il segreto di una ritrovata felicità».

Tratta da Close-Up…

Trascurando altresì il boomer Paolo Mereghetti e le sue quattro stellette assegnate al Filo nascosto in quanto Paolo, essendo oramai sull… ettantina, non può certo passare i sabato sera con la Jennifer Lopez nostrana ma contemplare l’ermetica placidità del quieto vivere ammirante la noia spacciata per una bellezza come Lady Gaga, dimenticando persino i tromboni del sito spietati.it, personaggi che, allo stesso modo mereghettiano, credo che preferiscano la rossa timidina stronzetta e ambigua Vicky Kripes ai film con redhead come Ami Emerson, ora dico francamente la mia.

Il filo nascosto non è una cagata pazzesca ma non è neanche ‘sto capolavoro di cui tutti gli uomini colti, si fa per dire, si riempiono la bocca.

Trattasi di buon film, ripeto, scopiazzato a livello di stilemi visivo-narrativi da Robert Altman (e te pareva, dopo Boogie NightsMagnoliaInherent Vice e la prossima opus con Bradley Cooper, Anderson non perde proprio il suo Vizio di forma, ah ah) ove il protagonista è un incrocio fra Jack Torrance di Shining, Rodolfo Valentino e lo stilista omonimo, l’idiota Newland Archer de L’età dell’innocenza scorsesiano, un sociopatico ossessivo-compulsivo in cerca della perfezione alla pari del nevrotico regista di Ubriaco d’amore, un piacione maschione molto coglione e al contempo micione-bambinone-culone attempato con qualche smorfia da ricchione e slanci passionali e sanguigni da Nathaniel Occhio di Falco de L’ultimo dei Mohicani su pettinatura argentata-brizzolata che fa Jeremy Irons eternamente marpione nonostante sia adesso un vecchione. Mentre la co-protagonista, sua futura sposa, fu una cameriera da bar di via del Pratello a Bologna che possiede, però, uno sguardo malandrino da serva serve totoiana in grado di cucinare asparagi col burro leggermente piccanti e velenosi, capaci di movimentare un po’ la narrazione, ricevendo pene e donando pepe e prezzemolino, no, occhiolino figurato a un finale straniante e straziante, più che emozionante, in tutta sincerità, più incomprensibile di The Master.

La fotografia è inappuntabile come il miglior abito mai concepito e cucito dalle sartine di Sant’Agata Bolognese, no, di Giorgio Armani, la musica è suadente ma ripetitiva come le smorfie e i sorrisini sciocchini, peperini eppur dolcini di Alma, il character incarnato dalla sovreccitata, no, su citata Krieps, l’atmosfera è molto suggestiva ma indecisa se ricreare evocative sensazioni bergmaniane oppure semplicemente incorniciare la nostra rottura di palle allineata alla magrezza spettrale da fighetto sesquipedale del Day-Lewis più esteticamente dandy.

Ecco, se Il filo nascosto è un capolavoro, compratemi molto spazio d’archiviazione su Google Drive. Sì, non ho i soldi per acquistare, al momento, altra memoria. Mi basta un cellulare, però, della Samsung per girare meglio di Anderson.  Il problema è che il girato, appunto, peserà troppo e nell’hard disk mio non vi starà. Sì, non sto scherzando. Mi darete del megalomane. F. Frusciante mi disse che lo sono. Disse anche che chi non capisce Il filo nascosto… deve annà in pensione. In effetti, come dargli torto. Se si hanno circa cinquant’anni, a livello coniugale-emotivo si è apposto e l’unica preoccupazione nella vita è criticare i cinecomic, mi pare ovvio che, se Frusciante vede Il Filo nascosto, impazzisca, se invece guarda Tyler Rake, deve dire che è un film tamarro.

Ricordate: la cinefilia sbaglia. La psichiatria, no. Vi fornisco un esempio: a dieci anni eravate amanti dei film con Jean-Claude Van Damme. A sessanta li detestate perché siete cresciuti, anche cinematograficamente parlando? No, l’avete preso nel frattempo troppe volte in culo e dunque preferite un libro di Harold Pinter ad Alonna Shaw di Double Impact.  Sì, lo so, la mia non è una recensione, è una provocazione. Per questo, volete ammazzarmi come Wes Studi In The Last of the Mohicans? Non diciamo stronzate, suvvia. Sono molto più cattivo di lui, no? Sono Il petroliere. Be’, non esageriamo. Diciamo comunque che un certo fascino alla Day-Lewis di The Boxer ce l’ho. Sono molto più basso di Daniel. Ma, se mi tolgo non i boxer ma le mutande, Eddie Adams/Dirk Diggler mi fa un baffo da Bill Cutting di Gangs of New York.

Quindi, Il filo nascosto è un film da 7 e mezzo. Lasciamo stare i trenta centimetri… Film delicatissimo, film sensibilissimo, spesso pallosissimo e furbescamente preparato per il cinefilo che non ha più un cazzo da chiedere alla vita e alla figa, essendo vicino all’Alzheimer da Woody Allen contemporaneo.

Ricordate: contemplando la bellezza e basta, si rimane sul moscio malinconico abbastanza frustrato. Se volete ammazzarmi e farmi credere di essere finito e affogato, non sapete che uscirà Tyler Rake 2. E ho detto tutto…phantom thread

Fratellino, hai visto che cosce? Che caviglie? Che portamento?

Fratellino, hai visto che cosce? Che caviglie? Che portamento?

 

di Stefano Falotico

 

 

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