Café Society, recensione

café society storaroEbbene, finalmente lo scorso 6 maggio è uscita, nei cinema italiani, l’ultima opus di Woody Allen. Ovvero Rifkin’s Festival. Ora, stando a IMDb, l’immarcescibile monsieur Woody Allen (newyorchese ebreo nato all’anagrafe come Allan Stewart Konigsberg, classe ‘35), può vantare, nel suo carnet e nel suo impressionante, perlaceo excursus cineastico, cinquantuno pellicole da regista.

Mentre per Paolo Mereghetti, Rifkin’s Festival segnerebbe la sua quarantottesima prova dietro la macchina da presa, tralasciando forse l’episodio di New York Stories e un paio di regie per la tv…

Ebbene, tornando indietro leggermente con la memoria, andiamo a ripescare il sottovalutato e magnifico Café Society del 2016. Opera invero alquanto apprezzata, ai tempi della sua uscita, dalla Critica cinematografica statunitense, invece piuttosto snobbata da noi. Ed erroneamente reputata minore, forse perfino dallo stesso Mereghetti, il quale l’apprezzò moderatamente, assegnandole due stellette e mezzo lusinghiere ma probabilmente sminuenti il suo pieno valore ben più stimabile. In tal caso, infatti e a nostro parere personalissimo, Mereghetti recensì la bellissima opera di Allen in modo troppo moderato, poco avveduto e dunque anche lui un po’ la sottostimò in maniera sbadata, peranco sbagliata.

Café Society è un film straordinario, privo delle benché minime sbavature.

Sennonché noi invece qui la rivaluteremo ampiamente come giustamente merita. Poiché Café Society è certamente il film più altamente incompreso, seducente e qualitativamente raffinato, ammaliante e addirittura maggiormente commovente e sincero dell’ultima decade alleniana.

Una dolcissima silloge poetica espressa elegantissimamente in celluloide profumata di magici effluvi toccanti, una perfetta e linda materia cinematografica purissima, un gioiello illuminato da una turgida e suggestiva fotografia d’atmosfera firmata da un ritrovato Vittorio Storaro (qui alla sua prima collaborazione storica con Allen) assai ispirato e precisamente intonato a un Allen ipnotico.

Uno Storaro prodigioso che, pur avvalendosi d’una color correction continua, non eccede in pigmentazioni esagerate a mo’ de La ruota delle meraviglie, cioè non sovrabbonda, a dispetto del film appena citatovi con Kate Winslet, di trucchi ed espedienti tecnici in sede post-produttiva, forgiando invece con levità delicatissima le sue pittoriche e pittoresche immagini fantasmagoriche, impregnandole di sobria, liquida beltà fiammeggiante di monumentale scuola magistrale e inondandole con gusto sopraffino senza mai essere ridondante, giocando in maniera sublime con sottili, abbacinanti scale cromatiche davvero inarrivabili ed encomiabili.

Trama: siamo nella rutilante e multietnica New York degli anni trenta. Anche se l’anno esatto non viene specificato ma lo deduciamo facilmente e inquadriamo non approssimativamente poiché, durante il film, i due protagonisti della storia si recano al cinema a vedere, per la prima volta proiettato sui grandi schermi, l’epocale The Woman in Red con la gloriosa e leggendaria Barbara Stanwyck.

Il giovane, ambizioso e intraprendente tuttofare Bobby Dorfman (un bravissimo Jesse Eisenberg, perfetto alter ego in miniatura, come sovente accade nei film di Allen, di Allen stesso) abbandona la sua città natia e s’invola alla volta della Mecca, fabbrica dei sogni, di nome Hollywood in quel di Los Angeles.

Poiché, attanagliato da una famiglia in cui si sente stretto e soffocato, vuole fare carriera nel mondo dello spettacolo e delle grandi star della settima arte più altisonante, chiedendo aiuto al suo potente zio Phil Stern (Steve Carell), stimato produttore sempre indaffarato, affinché quest’ultimo possa in qualche modo istradarlo al succitato mondo dorato. Presto, Bobby s’innamora della segretaria di suo zio, l’incantevole sognatrice Vonnie (Kristen Stewart), ragazza semplice che a sua volta viene folgorata, di classico colpo di fulmine impetuosamente romantico, dal tenero Bobby.

Ma forse Vonnie ha un altro uomo, forse costui è uno di famiglia?

Poi arriverà, nella vita di Bobby, un’altra donna di nome Veronica. Anche lei detta Vonnie, interpretata da Blake Lively.

Cammeo di Laura Palmer/Sheryl Lee, Parker Posey, Ken Stott e Corey Stoll nella parte del fratello di Bobby, di professione gangster. Ah ah. Senza dimenticare la bellissima ed esilarante particina di Anna Camp/Candy.

Ma un nome, oltre a quello di Eisenberg, della Stewart e di Carell, spicca come sempre di classe recitativa immensa, ovvero quello della veterana, esteticamente orrenda ma carismaticamente gigantesca, Jeannie Berlin.

Vale a dire colei che interpretò la tostissima e cattivissima, intransigente avvocatessa penalista Helen Wiess nella serie HBO capolavoro The Night Of.

Peccato che, contro di lei, donna leguleia mostruosamente rapace e capace, stronza come poche, vi fosse il mitico John Stone, alias John Turturro (inizialmente la parte, pensata per James Gandolfini, morto però infartuato, fu accettata da De Niro che poi declinò per sopravvenuti impegni inconciliabili)

Un personaggio inarrendevole questo cazzo di Stone.

Un personaggio alla Falotico.

Uno che vuole vederci sempre chiaro e non si attiene alle cazzate di Anna Camp, no, di Bill camp.

Bill Camp, colui che dà la caccia a Joker, cioè Joaquin Phoenix di Vizio di forma con la Berlin?

Ah ah, ma sono veramente un geniuspop cinefilo, autodidatta in psichiatria e in Legge come Travis Bickle e Rupert Pupkin, rispettivamente di Taxi Driver & Re per una notte?

Macché, Falotico è il Max Cady/De Niro di Cape Fear – Il promontorio della paura?

Colui che non abbisognò di laurearsi a qualche Alma Mater Studiorum ma partì da Le avventure di Max il leprotto per costruirsi, da solo, un curriculum vitae degno di Sutter Cane de Il seme della follia?

Sì, ne sono la versione buona e filantropica, pedagoga e lontana da ogni religione pendente dalle labbra di sinagoghe o affini stronzate varie.

Qui sotto è tutto editorialmente attestato, scrivo peraltro per due riviste di Cinema online, vere giornalistiche testate del mio prendere tutti i testardi, i quali si credono sani adulti sapientoni, in quanto malati di resipiscenza e cronico solipsismo assai limitato, al fine finissimo di educarli intellettualmente e lietamente condurli al teatro Testoni di Bologna e pure all’Arena del Sole.

Fra l’altro, non vorrei imbrodarmi, ma sono più bravo di De Niro.

O no?

Su questa freddura finale alla Falò, vi auguro buona domenica e statem’ bon’.

Ah ah. Comunque, ricordate: la voce narrante nel film di Allen è del grande Leo Gullotta! Ah ah.

E Joe Pesci di The Irishman e di Mio cugino Vincenzo lo sa. Ah ah

https://www.ibs.it/libri/autori/stefano-falotico

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di Stefano Falotico

 

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