DJANGO UNCHAINED, recensione


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Ebbene oggi, per il nostro consueto e periodico appuntamento coi Racconti di Cinema, vi proponiamo la recensione di un film dalla rilevante, assoluta importanza insindacabile, comunque sia e a prescindere dai vostri gusti, a loro volta opinabili o meno, ovvero Django Unchained. Django Unchained, pur essendo uscito in tempi piuttosto recenti, cioè nell’ultima decade ed esattamente nell’anno 2012, è entrato subitaneamente nell’immaginario collettivo dei fan tarantiniani e non, altresì assurgendo immediatamente a vetta totemica, a ragione per i suoi grandi estimatori, a torto ovviamente per la sua compagine di detrattori accaniti e cinefili eternamente perplessi riguardo le capacità, da loro smentite e confutate, di Quentin Tarantino stesso, della nuova cinematografia mondiale di matrice dichiaratamente citazionistica e postmodernista. Django Unchained, distribuito in Italia dalla Warner Bros. Pictures a partire dal giorno 17 gennaio dell’anno suddetto, fu finanziato, così come regolarmente avvenuto per tutte le opere di Tarantino precedenti la sua ultima opus, cioè C’era una volta… a Hollywood, dall’ex Miramax e a sua volta ex Weinstein Company. Non saremo pleonastici, dunque ci pare superfluo specificare perché tale appena nominatavi casa di produzione non esista più. Accolto assai benevolmente, anzi, lodato entusiasticamente dalla Critica planetaria, raccogliendo infatti l’alta media recensoria lusinghiera, equivalente all’87% di valutazioni positive sul sito aggregatore Rotten Tomatoes, Django Unchained fu un campione d’incassi al botteghino, malgrado la sua notevolissima, per taluni spettatori molto ostica, durata considerevole di due ore e quarantacinque minuti. Parimenti a tutte le pellicole di Tarantino, Django Unchained si avvale d’una sceneggiatura totalmente originale, generata dalla fervida e illimitata penna fantasiosa di Quentin stesso. Con la sola eccezione che conferma la regola, come si suol dire e ça va sans dire, naturalmente di Jackie Brown. Film, quest’ultimo, sempre scritto da Tarantino ma adattato da una famosa novella di Elmore Leonard.

Remake decisamente sui generis, anzi, potpourri di sapida, mai insipida, genialmente folle reinvenzione omaggiante il nostro celeberrimo Django di Sergio Corbucci con Franco Nero, il quale compare qui in un delizioso e geniale cameo, Django Unchained rappresenta, a modesto avviso di chi scrive quest’articolo, il film migliore di Tarantino di sempre dopo l’insuperabile trilogia degli esordi, constante del superbo Le iene, del rivoluzionario ed epocale Pulp Fiction e dello stesso poc’anzi accennatovi Jackie Brown. Ho scritto migliore. Però, attenzione. Non ho detto affatto capolavoro. Più avanti ve ne esplicherò brevemente le ragioni secondo le quali Django Unchained, sì, è un film saliente nell’excursus cineastico di Tarantino, primeggiando ai primi posti fra le sue opere più considerevoli e meritevoli, altresì è pieno di grossolanità imperdonabili e macroscopici difetti che analizzeremo nel corso di questa recensione. Ricordo inoltre che il sottoscritto, pur apprezzando (però con le dovute riserve) Bastardi senza gloria, pur ammirando A prova di morte, non è invece mai, anche dopo innumerevoli visioni, rimasto pienamente convinto del suo dittico Kill Bill (da considerarsi comunque come un unicum in tutti i sensi), tantomeno del sopravvalutato C’era una volta… che reputa invece, a esservi assai onesto, la sua opera peggiore senz’ombra di dubbio personalissimo. Essendo Django Unchianed un vero e proprio “joint” tarantiniano al mille per mille, trattasi di film enormemente stratificato, la cui trama contorta e ricolma di risvolti spiazzanti e sorprendenti, arabeschi e labirintici, non è racchiudibile in un’esaustiva descrizione adeguata, dettagliatamente accurata. E non ce ne voglia Wikipedia… Perciò ci limiteremo semplicemente a tracciarvela, diciamo, in un paio di righe. Anche per non rovinarvi le molteplici sorprese…  Ricavandovene una testuale traduzione, da IMDb, della sua sintetica sinossi opportunamente da noi tradotta in italiano con l’aggiunta del nome dei suoi personaggi principali e dei rispettivi attori a interpretarne le relative parti: con l’aiuto di un cacciatore di taglie tedesco, il Dr. King Schultz (Christoph Waltz), uno schiavo liberato ribattezzato Django (Jamie Foxx) si propone di salvare sua moglie (Broomhilda von Shaft/Kerry Washington) da un brutale proprietario di schiavi, residente in una fastosa piantagione nel Mississippi, cioè il terribile, sadico e sanguinario Calvin J. Candie (Leonardo DiCaprio).

Ne succederanno delle belle, delle spericolate e delle cruente fra colpi di scena perfino demenziali, ricordanti la comicità slapstick addirittura di Mel Brooks o Chaplin, mixati e scanditi puntualmente con timing filmico-recitativo da applausi a scena aperta, il tutto condensato di sapiente mistura appassionante, shakerato con grintoso, picaresco mordente avvincente diluito nel proverbiale, caustico black humor tipico del Tarantino style per l’appunto goliardico e corrosivo.

Cosicché, fra le cinefile apparizioni di Tarantino stesso (non vi riveliamo quando), di James Remar (I guerrieri della notte, Cruising), Tom Savini (Dal tramonto all’alba), Robert Carradine, James Russo, Walton Goggins & Bruce Dern pre-The Hateful Eight, fra un redivivo Big Daddy/Don Johnson quasi irriconoscibile in quanto qui bravissimo, un Jonah Hill (non accreditato) in mezzo a esilaranti corsiere del Ku Klux Klan e uno splendido, volutamente patetico Samuel L. Jackson irresistibile, Django Unchained intrattiene con gusto, illuminato dalla morbida e chiaroscurale, perennemente fascinosa fotografia del mago Robert Richardson.

Però nell’ultima ora, dopo un primo tempo scintillante e profumato di Tarantino vividissimo, luccicante e incantevole in virtù delle sue spassose, spiazzanti trovate esuberanti e ipnotiche, Django Unchained perde leggermente e gravemente quota, avvitandosi in un intreccio soporifero e scarsamente interessante. Tale inizio di forte caduta di tono e ritmo, purtroppo, coincide forse casualmente con l’entrata in scena del character incarnato da DiCaprio. Qui per la prima volta villain.

Non è stata colpa di DiCaprio. Perlomeno non del tutto. Il suo personaggio è bidimensionale, poco per l’appunto psicologicamente caratterizzato, tagliato esageratamente con l’accetta. E non gli giova la recitazione d’uno stesso DiCaprio spesso insopportabilmente gigionesco e di maniera a cui Tarantino ha chiesto espressamente di recitare così, sfoderando cioè smorfie e risate granguignolesche di natura compiaciuta, dunque artefatte e impostate registicamente in modo fine a sé stesse. Grazie soltanto al carisma di DiCaprio, il suo insostenibile Candie regge e illumina.

Dunque, Django Unchained, sebbene sia un’opera di classe invidiabile, stenta parecchio verso la fine, anzi sbanda e rischia di sbriciolarsi, smantellato e spogliato della sua iniziale, granitica interezza, adagiandosi diegeticamente in un plot conclusivo abbastanza pacchiano, risaputo, mal calibrato e quindi arricciato. Sanguinolento in maniera immoderata, in tal caso non necessaria, e improntato alla spettacolarizzazione più truculenta e volgarmente splatter. Afflosciandosi e franando in un the end dolciastro e poco verosimigliante. Poco peraltro emozionante e, paradossalmente, a livello di pathos, stilisticamente anodino, ruffiano e anemico.

Peccato davvero. Non ci aspettiamo che Tarantino sia cinico a tutti i costi, nemmeno però così retorico e buonista.

Nonostante ciò, Django Unchained rimane un ottimo film. Ripetiamo, il quarto miglior film di Tarantino su una scala da 1 a 9, fino a questo punto.

Ecco, colui che è l’autore di tale recensione, dicendovi quanto appena dettovi, vi ha paurosamente freddato?

Poiché s’evince che, sebbene qualche volta ami alla follia Tarantino, allo stesso modo non riesce sino in fondo ad amarlo appieno quando lo stesso Tarantino si ama troppo e smarrisce, così facendo, anzi a causa del suo strafare, il suo grandioso talento in giocattoloni puerili, inutili ed esacerbati.

Come si suol dire, in Django… vi è troppa carne al fuoco. Non solo quella delle sue carneficine efferate a cui assistiamo e delle esplosive sparatorie interminabilmente noiose e telefonate.

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di Stefano Falotico

 

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