LA FIERA DELLE ILLUSIONI – NIGHTMARE ALLEY, recensione

Nightmare Alley Poster

Ebbene, oggi recensiamo la nuova opus di Guillermo del Toro (Il labirinto del faunoLa forma dell’acqua). Ovvero La fiera delle illusioni – Nightmare Alley, pellicola pregevole dalla durata indubbiamente spropositata, cioè due ore e trenta minuti onestamente eccessive data la particolarità d’un film che, per tematiche e sviluppi piuttosto precisi, sarebbe potuto essere sintetizzato e messo in immagini con più sbrigativa secchezza concisa e non, invece come accade, attraverso una narrazione leggermente macchinosa, frammentaria e dispersiva, dilatata a dismisura in modo superfluamente spesso inutile.

Premesso ciò, con doverosità personalissima e dunque per voi discutibile, per il sottoscritto invece, naturalmente, sana e giusta, altrimenti non avrebbe scritto quanto poc’anzi, nelle righe immediatamente soprastanti, avete letto chiaramente, La fiera delle illusioni, tra i film più attesi di tale stagione in corso, è stato, comunque sia, acclamato dalla Critica mondiale. Tanto da ricevere un lusinghiero 70% netto di medie recensorie assai positive sul sito aggregatore metacritic. Ora, una votazione e una media valutativa di certo abbastanza elevate eppur contemporaneamente non eccellenti e appieno soddisfacenti. In quanto, in effetti, La fiera delle illusioni, pur avendo ricevuto quattro pregiate nomination all’Oscar, fra cui quella importantissima e primaria come Miglior Film (Best Picture of the Year), escluso però per la regia, non ha ottenuto unanimemente i favori che, originariamente, era lecito aspettarsi, scontentando di conseguenza le ben più alte e rosee aspettative a riguardo.

Il pubblico, soprattutto europeo, in gran parte lo sta lodando e largamente apprezzando notevolmente ma, ribadisco, tale film di del Toro m’ha invece deluso parzialmente, suscitandomi molti dubbi e lecite perplessità riguardo la presunta maestria mirabile, sempre giudicata impeccabile, insindacabile e fantasiosamente poetica, mirabolante dell’autore di precedenti opere sicuramente superiori, più diegeticamente compatte, più magicamente incantate e, a mio avviso, semplicemente meglio dirette e congegnate.

La fiera delle illusioni, in ordine cronologico, rappresenta il secondo adattamento cinematografico dell’omonima novella rinomata di William Lindsay Gresham, già trasposta e portata al Cinema nel lontano 1947. Sceneggiata, per l’occasione, dallo stesso del Toro e da Kim Morgan.

Senza sottilizzare troppo sulla trama e per non sciuparvi le molte sorprese in cui v’imbatterete in tale caleidoscopico viaggio scintillante d’imbrogli, intimi segreti occultati, freaks e nani, uomini bestia e avidi direttori da circo delle meraviglie e degli orrori, ci limiteremo a tracciarvi la trama in poche righe sintetiche, speriamo esaustive e lapidarie:

Nell’America del 1939, un giovane di nome Stanton Carlisle, detto Stan (Bradley Cooper), dà fuoco a un rudere isolato in aperta campagna. Dunque, tra le fiamme ancora brucianti, a lenti passi s’allontana con aria misteriosa dalla fatiscente abitazione appena da lui incendiata. Approdando presto ai piedi d’un colorato luna park situato nel nulla. Nel bel mezzo d’una incantata serata lunare.

Qui, accetta un modesto lavoro da giostraio, propostogli dal sadico affarista che lucra sui fenomeni da baraccone, ridendosela con l’inconfondibile ghigno luciferino d’un Willem Dafoe nuovamente villain nei panni del losco e laido Clem Hoatley. Stan trova ospitalità presso la casupola di Zeena (Toni Collette). La quale, immediatamente attratta dalla sensuale bellezza gagliarda di Stan, lo accalora non poco nella sua accogliente… vasca da bagno schiumante di peccaminosità ardente. Bellamente fottendosene… dell’anziano marito Pete (David Strathairn) che tradisce volentieri con tanto di suo tacito e complice consenso rassegnato, quasi da scambista oramai menefreghista delle corna trasparenti della moglie maliziosa e fattucchiera dalle caviglie morbidamente sinuose, leggiadre e metaforicamente assai allusive e intriganti, irresistibili più d’un pasto caldo durante una turgida notte di pioggia scosciante. No, scusate, scrosciante. Malgrado Zeena, Stan è un volpone e non si accontenta dei piatti non solo di minestrone cucinatigli bollenti dalla donna avvenente di Pete.

Cosicché, immantinente, s’innamora di Molly (Rooney Mara), angelo fatato che non solo a Stan dà la scossa, ragazza elettricamente stimolante in modo godibilmente, romanticamente puro come la timidezza innocente d’una beltà chimicamente brillante.

Nonostante la gelosia irosa dell’irsuto energumeno Bruno (Ron Perlman), Stan e Molly fuggono via dal circo, involandosi in macchina alla volta d’un futuro migliore e convolando a felici nozze. Eterne?

Stan, memore dei trucchi da imbattibile ciarlatano furbo di Pete, tragicamente nel frattempo deceduto, assieme a Molly inscena spettacoli teatrali per ricche persone dell’alta società abbiente che lui abbindola col suo charme seducente e con l’arte ingannevole del prestigiatore di bugie genialmente stronzette.

Al che, spunta la torbida psichiatra ammaliatrice di nome Lilith (Cate Blanchett) e Stan entra in contatto, forse anche in modo capziosamente telepatico da medium cialtrone di classe, con un uomo vecchio e potente, Ezra Grinde (Richard Jenkins). Quest’ultimo segnato indelebilmente nell’animo da un lutto incolmabile dei più deprimenti.

In un cast eterogeneamente sorprendente in cui compaiono perfino i nomi di Holt McCallany (Mindhunter) e, nel finale rabbrividente e scioccante, di Tim Blake Nelson (La ballata di Buster Scruggs), il film regge ovviamente e quasi esclusivamente soprattutto sull’interpretazione di Cooper.

Produttore lungimirante, performer però, a mio modesto parere, carente sotto vari aspetti, perennemente un’incognita attoriale delle più grandi e indecifrabili.

Infatti, sebbene sia bravo oggettivamente, secondo me manca di quel qualcosa in più, puntualmente fornendo una prova recitativa robusta eppur al contempo non carismatica sufficientemente. Così come sempre con lui, ahinoi, avviene.

Per cui, francamente, mi viene da pensare che non sia affatto quell’interprete così talentuoso che invece a molti appare incontestabilmente.

Scenografia di finissima fattura e coi fiocchi di Dan Laustsen, una Blanchett strepitosa da far paura, una soave musica incalzante e pertinente di Nathan Johnson per un film che poteva e doveva essere molto di più di quel che è.

Cioè, un’ottima orchestrazione fotografica da mettere i brividi per potenza visionaria scevra però di vero cuore passionale d’una storia sentita veramente.

Ché, alla fin fine, risulta intrisa di moralismo consolatorio fintamente corrosivo e vuoto.

No, del Toro, non mi hai convinto. Tutto, come si suol dire, molto bello e perfettino, tutto stupendo da vedersi ma poche autentiche emozioni cristalline davvero coinvolgenti.

Un film che non è struggente, non è neppure sognante, non è quasi niente.

A parte il sex appeal “malato” dell’atipica Toni Collette, donna oggettivamente bruttina ma con un qualcosa di eroticamente maliardo che sa la donna sua in modo inspiegabilmente fottuto.
Diciamoci la verità. Quasi tutti voi, maschietti, affermano che la Collette sia racchia. Se dinanzi a voi si spogliasse integralmente, lo andate a dire a vostra sorella che non ve la scopereste a tamburo battente.

Sì, siete nati per questo, cioè per essere l’uomo bestia. E Stan/Cooper lo sa nel finale, prendendosi da solo per il culo in modo agghiacciante.

In conclusione:

Ne avevo letto benissimo. Me lo sono sparato alla grandissima ma non mi è piaciuto tantissimo. Lo spettacolo vale il prezzo del biglietto per le immagini e per Toni Collette, al solito nel ruolo della zoccola distinta. Ho detto distinta, non di carnale istinto. Ma se è una zoccola? Ah ah.

di Stefano Falotico

Bradley Cooper and Toni Collette in the film NIGHTMARE ALLEY. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2021 20th Century Studios All Rights Reserved

Bradley Cooper and Toni Collette in the film NIGHTMARE ALLEY. Courtesy of Searchlight Pictures. © 2021 20th Century Studios All Rights Reserved

 

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