L’ULTIMO SPETTACOLO, recensione

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Cosa si può dire di un film così? Non è un capolavoro? Come no. E non confondete Ben Johnson con Carl Lewis, ah ah.

Ebbene, in occasione della pregiata, imperdibile uscita per la prima volta in assoluto in Blu-ray 4K de L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show), cinematografica perla insuperata del compianto Peter Bogdanovich, vi parliamo, giustappunto di quest’opus mai dimenticata e forse mai davvero abbastanza, giustamente glorificata. Forse invero sopravvalutata e datata, insomma superata? Chissà. La buttiamo, come si suol dire, là…, anzi qui così. Siamo provocatori in maniera inappropriata o semplicemente, in tale sede, proveremo a esplicare brevemente le varie ragioni per cui questo film viene considerato un capolavoro. A ragion veduta? O, giustappunto, in maniera erronea?

Insomma, a distanza di oltre cinquant’anni dalla sua uscita ufficiale nelle sale, essendo L’ultimo spettacolo una pellicola del ‘71, dopo essere stata, fin dapprincipio, celebrata per l’appunto come una magnifica opera rivoluzionaria e d’avanguardia, tale effettivamente è indubitabilmente, oppure, nel corso del tempo, ha perso inevitabilmente molto del suo smalto, della sua vena corrosiva e della sua carica e forza ammalianti?

Secondo il discutibile, fazioso ma comunque valente dizionario dei film Mereghetti, estraendovi parzialmente quanto lui entusiasticamente ne scrisse in merito, gustiamoci le sue parole pertinenti per tale film da lui spese in modo forse troppo magnificante:

 «Nel 1951, ad Anarene, una cittadina texana ai confini del deserto, si intrecciano i sogni e le avventure sentimentali di Sonny (Timothy Bottoms) e Duane (Jeff Bridges), due giovani alle soglie della maturità: il primo avrà un’avventura con una moglie insoddisfatta (Cloris Leachman), il secondo non riuscirà a concretizzare la sua relazione con una giovane borghese (Cybill Shepherd) e alla fine Sonny deciderà di partire per la Corea il giorno successivo alla chiusura dell’unico cinema della città che ha proiettato come ultima pellicola Il fiume rosso di Hawks…

Lancia uno sguardo notevole e amaro su una provincia scomparsa e sulla perdita dell’innocenza di una generazione che non ha più nemmeno la possibilità di credere nei suoi pionieri…».

Mereghetti sbaglia clamorosamente, va detto. Non nella sua valutazione ma nel confondere Sonny con Duane. È Duane/Bridges, invero, che parte per la Corea. Film indubbiamente dai chiarissimi pregi, L’ultimo spettacolo, però, risente del trascorrere del tempo e, rivisto oggi, come sopra accennatovi, va ancora valutato come intoccabile capolavoro rinomato oppure è un po’, giustappunto, invecchiato? Dal romanzo di Larry McMurtry, sceneggiato da quest’ultimo assieme a Bogdanovich stesso, girato in B/N su consiglio del geniale Orson Welles, su fotografia magistrale e chiaroscurale, stupenda, onirica e molto d’atmosfera di Robert Surtees, L’ultimo spettacolo possiamo sicuramente annoverarlo come un esordio registico mastodontico e di rilevante importanza abissale (Bogdanovich, primo regista a provenire, fra l’altro, dalla Critica, dettaglio e curiosità non trascurabili), insomma, insindacabilmente ritenerlo opera capitale, incorniciata indelebilmente e in modo inscalfibile alla Settima Arte più eterna ed eterea? Fra le altre presenze notevoli del cast, Ellen Burstyn, Randy Quaid e Ben Johnson (eccezionale e premiato con l’Oscar). Sì, ci è piaciuto porvi interrogativi leggermente provocatori ma L’ultimo spettacolo è un capolavoro e, a distanza di tantissimi anni, mantiene intatta la sua encomiabile bellezza invariata. Esordio attoriale per la Shepherd, ancora acerba ed ex compagna di Bogdanovich. L’ultimo spettacolo è un film irripetibile, un ritratto generazionale improntato sull’amarezza, sul tempo perduto e la disillusione, una perlacea e indimenticabile radiografia di un’America scomparsa, estintasi o forse mai davvero esistita alla continua, utopica ricerca vana di sogni irrealizzabili, firmata da un Bogdanovich ispirato come non mai che, tre decadi dopo, ne avrebbe realizzato uno scialbo sequel forzato e manierato, vale a dire Texasville. Un Bogdanovich mai più ripetutosi a tali livelli.

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di Stefano Falotico

 

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