AMSTERDAM, recensione

Robbie Washington Bale Amsterdam

Ebbene, oggi recensiamo Amsterdam, nuovo opus dell’ambizioso, altalenante, forse non sempre convincente, eppur perennemente spiazzante, frizzante e creativo sorprendentemente, regista David O. Russell (The FighterIl lato positivoAmerican Hustle). Un director, autore di gioielli indiscutibili e indissolubili quali Three Kings, tanto acclamato e raffinato, da più parti stimato, in primis da Hollywood, quanto a molti inviso. Tale suo controverso Amsterdam è stato mal accolto dall’intellighenzia critica statunitense e, parimenti, subissato di fischi in quanto ha riscosso poco successo all’ultima edizione della Festa del Cinema di Roma, ove ha ottenuto, perlopiù, pareri quasi interamente poco lusinghieri. Cosicché, O. Russell, assente dal grande schermo dal 2015, anno in cui uscì con l’altrettanto ampiamente discusso Joy, stavolta dissociandosi professionalmente, diciamo, dall’attrice sua ex prediletta della pellicola appena dettavi e dei suoi ultimi film, vale a dire la splendida Jennifer Lawrence, dopo il pasticciaccio brutto del caso Weinstein per cui, giocoforza, fu obbligato a sospendere la serie televisiva, targata Amazon, che doveva avere come assoluti protagonisti Robert De Niro (presente, ovviamente, in tale suo bistrattato, mal visto, in ogni senso, Amsterdam e oramai presenza fissa quasi immancabile delle sue opere) e Julianne Moore, giustappunto prodotta principalmente dall’ex tycoon adesso in disgrazia che fu a capo della rinomata e rovinata Miramax, come suo solito, cioè come avviene quasi sempre per i suoi film, per Amsterdam ne scrive il soggetto e la sceneggiatura, dirigendo questo corposo pastiche della durata consistente di due ore e quattordici minuti precisi, una durata senza dubbio eccessiva e dispersiva, troppo frammentaria e spesso tediosa per un risultato finale forse pasticciato eppur non privo di fascino e perfino, in molti momenti, illuminato da un’incantevole, mirabile grazia e fine delicatezza cineastica indubbiamente magistrale, sebbene, ripetiamo, poco incisiva se inquadrata sotto l’ottica dell’amalgama confusa e  sbilanciata del suo lavoro valutato nella sua completa interezza disomogenea. Ma è poi davvero così? Senza perderci in descrizioni futili, soprattutto inutili, semplicemente trascrivendovi letteralmente la sinossi di Amsterdam da IMDb, eccone la trama ridotta all’osso: Negli anni ‘30, tre amici assistono a un omicidio, vengono incastrati per questo e scoprono una delle trame più oltraggiose della storia americana.

Lo strano e sfortunato terzetto è composto rispettivamente dall’eccentrico, simpatico e non poco strampalato medico stralunato Burt Berendsen (uno strepitoso Christian Bale nella sua ennesima, eccellente prova mimetica e genialmente pregna di fregolismo), dalla misteriosa e figa, ex infermiera Valerie Voze (Margot Robbie, spiacevolmente, invece, un po’ fuori ruolo, bella ma non carismatica) e dal bislacco Harold Woodman (un insignificante, lui sì, John David Washington).

Ora, più per dovere di giustezza che di cronaca, dobbiamo sinceramente affermare che Amsterdam, ancor evidenziamo, atteso come uno degli imprescindibili eventi cinematografici della stagione corrente, ha deluso molti e s’è rivelato, in modo deleteriamente imprevisto, un colossale flop al botteghino, tant’è vero che la 20th Century è andata notevolmente in passivo rispetto ai costi, al contempo, asseriamo che non è affatto insulso e così brutto come, ingiustamente e superficialmente se ne dice in giro, sovente a sproposito e a causa dell’oramai funesto, terribile, cattivamente imperante, alquanto disgustoso, spirito modaiolo più insostenibile. Per cui tutti s’accodano al pensiero comune che va tristemente per la maggiore. Perdendo di vista la materia in questione e oscenamente liquidandola con faciloneria disarmante. Infatti, in questa contorta vicenda di sordidi imbrogli e grottesche macchinazioni incredibili ove i confini morali sfumano in forma sottile e inquietante, in questa labirintica vicenda complottistica in cui aleggia tremendamente finanche il fantasma hitleriano e furoreggia, serpentesco e malignamente maliardo, lo spettro, ahinoi, giammai vinto, del più angosciante nazismo, in questa storia ove, a parte i tre nostri beniamini e forse solo qualchedun altro, nessuno è moralmente intonso così come inizialmente potrebbe apparire, O. Russell dimostra di essere, a prescindere dai molti difetti di Amsterdam, un signor regista d’alta scuola che non merita quindi le esagerate critiche assai impietose e ingrate piombategli addosso con troppa precipitosità, a nostro avviso, stolta e qualunquistica.

Russell non è uno qualunque, perdonateci per il voluto gioco di parole, è un regista ricercato e speciale, forse solamente, frequentemente mette troppa carne al fuoco, come si suol dire, affastella troppi temi importanti mal diluendoli e agganciandoli in modo scarsamente coeso e non ficcante, perdendosi in voli pindarici, persino estetizzanti e superflui, appesantendo il tutto per colpa della sua voglia incontenibile, eppur comprensibile, di strafare.

Amsterdam non è malvagio, anzi, niente male su molti versanti. Innanzitutto, rimarchiamo che la fotografia, firmata dall’inarrivabile e tre volte premio Oscar Emmanuel Lubezki, è magnifica e ipnotica (ciò, dato il nome di Lubezski, era comunque altamente ipotizzabile, anzi, totalmente dato per assodato), la nutrita compagine attoriale, fra cui un De Niro sibillino in una parte centrale e rilevante, un bravissimo Rami Malek e un pazzesco parterre d’interpreti, tutti perfetti, che spaziano da Anya Taylor-Joy (The Witch) a Michael Shannon, da Mike Myers ad Andrea Riseborough (Black Mirror), da Matthias Schoenaerts (Le Fidèle – Una vita al massimo) ad Alessandro Nivola (Face/OffWizard of Lies), dalle bellissime Zoe Saldana a Taylor Swift, è ineccepibile.

Amsterdam è visivamente meraviglioso, con una prima mezz’ora indiscutibilmente fascinosa. Trasuda di eccentricità sgangherata da pelle d’oca in senso positivo. Cioè non fa accapponare la pelle e non fa assolutamente ribrezzo, anzi, tutt’altro. Le rarefatte scene specialmente notturne, plumbee e giocosamente colorate, trasudano di madida atmosfera grandiosamente straniante tra il fumettistico più stimolante e l’insolito più visivamente eccitante.

Inevitabilmente, Amsterdam, sì, si perde in maniera confusionaria nelle sue verbosità, fra grossolane ingenuità e dialoghi artefatti e raramente ficcanti, indeciso continuamente se imboccare la strada del thriller vero e proprio o quella d’una pellicola dramedy a tutti gli effetti, disperdendo quindi il suo esplosivo, notevole potenziale in una stucchevole sarabanda di telefonati colpi di scena che perciò tali non sono e non stupiscono più di tanto, afflosciandosi inoltre in un finale buonista e dolciastro che, date le premesse inziali, maggiormente ciniche e graffianti, lascia con l’amaro in bocca inconsolabilmente.

Comunque, non lo bocciamo, anzi, contraddicendo quanto appena detto, rinnegando i periodi soprastanti, lo promuoviamo appieno e alla grande, è un colpo di genio che non tutti possono capire, un film per pochissimi eletti, un concentrato superbamente grottesco e visionario, un caleidoscopico e buffo, assai gustoso e leggerissimo viaggio nei meandri dell’O.Russell purissimo che non punta agli Oscar, bensì vuole esplorare i confini della sua immaginazione più fervida, dolce e poetica, fluttuandovi e tuffandosene di tutto cuore e senza alcuna presunzione. Russell continua a piacerci perché sperimenta a costo di sbagliare ed è imprevedibile. Dote rara, oggigiorno, in una Hollywood sempre più appiattita che copia sé stessa e rifà quasi solamente i film del passato, resuscitandoli soventemente in malo modo consequelreboot pedestri e superflui.

Amsterdam è un capolavoro, quasi totale. Che e ché crescerà nell’animo dei veri e sopraffini cultori della Settima Arte maiuscola, libera da compromessi, è un film ove O. Russell si getta a capofitto nei suoi ventricoli più sanguignamente creativi e dà immane, assai stimabile, sfogo ai suoi capricci, ai suoi più intimi desideri cineastici stupendamente reconditi. Ammalia, incanta, si balocca e gira un film di poco più di due ore che è un bijou da capogiro. Questo è il Cinema che voglio, un Cinema che non vuole insegnare nulla, non è didattico o arrogante, è il Cinema magico, “ingenuo” e follemente arlecchinesco, guascone, mattacchione. Che film, cazzo, sì, cazzoni!

di Stefano Falotico

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