Nosferatu, il principe della notte

 

Nosferatu

di Stefano Falotico


Un cannibale che viaggia fra generose, sfoglianti follie. E piange le sue mestizie nell’imbrunire della strada. Come la vendetta nel mio nero mantello!
Irsuto, in tendini nervosi, si squamano le agonie, squalo in questa città che poltrisce. Decadentista in un mio apparire-sparire, fantasma e spettro, canzoniere di cicatrici “pittate” a viso semp’affamato, scarno, scavato, zigomo affilato, mai flebile, colpente le rabbie impetuose, forte, “incastrato” nel sempre mai dissuadermi da quel che sono, esperii, rinnegai e potente (ri)spu(n)tai! Da quel che capto d’istinto, gabbia mia voracissima rapita di scherno dolente in questa società “scherzosa” e schermante, propensa atavicamente alla derisione e ai giochi più schernitori, a umiliare il prossimo sinché par debole e dunque percepito come vigliacco su cui accanirsi da “sani”.
In una sera d’avanzato Settembre, mia amata mi domandasti perché, “affranto”, stavo affacciato al balcone a osservare il passeggiar stanco d’uomini indaffarati, chi con la prole “addosso”, chi ridacchiando nell’indistinto, confuso chiacchiericcio. Mi voltai, tranquillamente ti risposi che io non mi riposo neppure quando contemplo, o fingo, sospirando di guardare il tramonto sbuffante, quando plasmo le mie iridi, d’apparenza “distratta”, nel vedere oltre la superficie dei mari calmi, delle coscienze addormentate. Mi baciasti, soffiasti sul mio collo e premesti alla base del mio cazzo, che schizzò naufrago di tanta “moderata pigrizia”. Con flemma “acustica”, addolcisti l’esorbitare frenetico del mio voluttuoso volerti già volteggiante e nuda, “dirimpetto” a tutti che, da sotto, potevan adocchiarci per additarci come maniaci dell’oscenità impudica. T’afferrai, sollevando la gonna in veloce, punitor strappo, e tu me lo “stappasti”. E, nell’infilarlo dolce, allev(i)asti il dur Cuore mio triste, mordesti la mia spina dorsale e indossasti la ferocia di tal nostro (s)fregiarci. In un lasso “fregante” di Tempo “impertinente”, superbo di dinamicità d’acciuffar giusto l’istante d’una temperatura già vittoriosa dal turbinio giammai frenante, ferino inalai la tua figa nei sapori salivari dei canini e tu incalzasti a sbavarci… attorno, modellazione plastica di due cere astratte, remote d’eternità ineludibile da quest’umanità già, da come nacque, annuente al voler del conformismo arido e stanco.
Ti dimenasti a letto, furibonda di tanto mio buono-cattivo Dracula. E, non mor(d)endoci più, travolti dall’impeto dei gioiosi sensi, accasciai il pene nella vagina tua levigante, leccando poi l’agone dell’avermi martirizzato in tanto nostro ossessivo martellarci pulsante.
Mi domandasti, quindi abbandonata al godimento forse ancor maggiormente disinibito…, sai quando le carni s’ammorbano nel sudato rilassarle appena “espi(r)ate” nell’alto del poco trascorso innalzarci scevri d’ogni inibizione, se mai io fossi stato in carcere.
Perché, nello scoparmi come Cristo di Dio e Madonna tua di nuovo sverginata nella totale grazia da puledra ars amandi tanto disarmante, avvertisti attimi inequivocabili in cui, macellato dalla tua bontà serena e anche da osannata mia troia serva e severa, ebbi l’indeciso (s)concerto corporeo d’incorporare bestemmie al creatore.
Non solo della tua figa estasiante, io gemetti lagrimante. Sì!
Leccai il capezzolo tuo più irto, quello più tutt’ora da lubrificare nonostante il furioso prima suggerlo in carnivora tua irrefrenabile e lussuriosa, ridonata e ridondante verginità, porgendoti la carezza d’una risposta (in)discreta, ambigua come il dipinto dinanzi al nostro letto. Elegante e non volgare, forse provocante.
Un dipinto che ritraeva Satana accerchiato dagli angeli nel farsi il Cristo d’altro bugiardo schiacciato dalle ipocrisie di chi, da lassù e dalle origini imprigionanti, mentitore “comanda”… perfino le sacre ostie e come si doman le orge.
No, sì, forse può essere, potrei aver visto le sbarre e l’Inferno a torchiarmi così come poco fa, infiammati dalla Passione, esasperammo la vita vera, amplesso dopo amplessi, flessioni “tortuose” da imbizzarriti tori in fila rubina del cremisi scioglierci. E, in tal purpureo accecare le virtù false, scopai me stesso nel vederla nuda e celestiale, da Illuminato. Perché solo chi ha sconfitto le tetre, crespe onde del Sole bastardo e illusorio, può risalire alle pure ragioni dell’amore notturno.
Quindi è, eternamente e dal terrestre stronzo, alienata, eterea felicità che durerà sempre diurna!
Sai, ci fu un Tempo nel quale vissi nascosto, come un cerbiatto “matto” che, scalciando fanciullesco, cacciò proprio le “solarità” dei “vivi”, adempienti al tragitto “obbligato” e comunemente, secondo… così come avrei scoperto da intristito (dis)illuso, avviati invero e invece alla morte “tronfia”, che eppur si crede allegra e da “trionfi”.
Fu questo mio “tonfo”, nell’ero in un ieri forse ieratico e quindi già oltre, da cui rinvenni il riesumare la luminescente verità del Mondo. Già allora “fui”… sempre fum(m)o anche quando siamo, ricordatelo, … noi originari d’altre sponde da “diversi” del sentire e dunque amarci, commuoverci ed emozionarci…, già fui (nonmorto. Più vivo degli altri nel mio sembiante da “sepolto”.
Ma la cattiveria della gente fu ancor più profonda. Superficiali, disprezzanti e partorenti il peggior, torturante (i)odio. Loro che “vivono colorati” di tanto c(l)oro, son proprio loro i mostri dei nostri “minori” cuori. Pusillanimi senza vergogna e privi di scrupoli morali, cesellatori testardi ché, secondo queste teste, la vita non può essere nulla se non la si vive come appunt(it)o a lor pare.
E fui lestamente “forzato” dalle violenze di tali bestie, dentro lo sgretolar delle sanguinarie pareti, con un vile arresto. Nella psiche ché al vociferar maggiore s’adattasse di tutto mio “fiore”. Forarono nel cambiarmi, “solleticarono” zone mie genetiche nel “naturalizzarmi” a quel che invece è mio naturale, immodificabile essere. Dunque a loro ridente proprio perché desiderarono che piangessi per plagiarmi al volere di “tutti”, della gente “comune” e avara. Ché avessi quel che loro adesso vogliono, han sempre ottusamente voluto sol avere. E non sono! Mai lo furono!
Lì, allora, ho visto. Ho visto le mille brame degli orizzonti, l’ampiezza della Bellezza rubata dalla cupidigia, dalla stupidità della loro mai placante, inetta, non essente bramosia.
Nell’horror vidi e (ri)vivrò. Nella virtuosità della mia fortezza. Ché attentarono ma nessuno, implorassero e basta, nessuno scalfirà.
Io scalpito di più rabbia e m’han solo che rafforzato.
Perché innocenti divelsero con pregiudizi svelti, a mortificarli perché “vivessero”. Noi…
Prima di giacere, qui nudi a letto, stavo assaggiando l’asprezza romantica del mio Nosferatu.
Del mio diverso. Anche del tuo. Ed è per questo che io e te ci siamo scelti, (ci) siamo accoppiati, abbiamo copulato.

Tu sei come me, il Nosferatu. Sfiorati…

 

 

 

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