Tim Burton, lode a Dio!

Nella mia anime vigono e vivono dark shadows. E sono felice così, come deve ESSERE!

Nella mia anime vigono e vivono dark shadows. E sono felice così, come deve ESSERE!

 

di Stefano Falotico

Il Cinema di Tim Burton: ove c’è un freak (ci) sono io, e ne vado fiero, ove c’è un’alterità, vivrò di etereo splendore, ove c’è “normalità”, vi guarderò agghiacciato…

E, goticamente dark, osannerò Edward, regalandogli il mio sorriso a forma di “forbici”, carezzando Winona Ryder di mani affilate nel torbido incresparla di mio scremato uomo strano

Sì, ho usato con pertinenza l’espressione alterità e non diversità, perché c’è una profonda, (in)visibile, sottilissima differenza fra la stramberia, l’eccentricità dell’animo e la diversità, appunto, intesa spesso come una sorta, Dio che obbrobrio, di “handicap”.

Il termine diversità, infatti, vien tradotto dall’uomo “normale”, Gesù perdonalo, semplicemente come diversa “abilità”. Un (in)giusto eufemismo… come per dire quello è “scemo”.

E dei danni di tal bieca, stolta, miopissima borghese mentalità potrei narrarvi da Omero su un transatlantico battente bandiera della più (s)concia libertà delle variegate, sia lodato…, san(t)issime ed elett(iv)e bellezze onoranti l’aroma soffice, godente del vivandare proprio orgogliosamente l’esser sé stessi.

Se l’essere noi stessi coincide con saviezza a non leder il prossimo, non solo nella sua incolumità, bensì anche nel suo intimo amor proprio, allora ben venga esserlo… diversi.

Ché non vogliamo prima ingiallirci nella borghesia “metodica” d’abitudinaria “crescita”, propugnante solo mot(t)i vanagloriosi del danaro ad avvincer la carne umana a porcile “elevato” ad “amorevole”, “dolce”, calmo… sì, come no, navigar pasciuti e (in)felici in tal valle di pacatezza falsissima, poi al precipitar del tutto nell’atimia dei lor insensibili, stagnanti pozzi neri. Me ne scampi!

Meglio Burton e la sua “tetra” bellezza!

Giammai mi lederete di ricatti a vostro agognar invero, miei laidi maialini, soltanto la ricotta e il di lei “buchino”. Io son fresco, ardo di giovinezza e, per me, gioventù combacia anche con sana, splendida “buffoneria”.

Allorché, alle prime luci dell’alba, dopo aver stiracchiato il corpo mio indurito da un altro incubo soave di illuminante “nerezza”, faccio sì che il mio viso accolga la rugiada mattutina in tronfio affacciarmi al balcone, scandendo un gargarismo quasi ruttante la digestione pesante della sera prima, con la vicina dirimpettaia, assomigliante a Winona (sì, quasi, forse il mio balcone è troppo distante e non metto a fuoco di ottica oggettiva), anch’ella levatasi di buon ora, che mi saluta svel(a)ta di “ciao” tingente il mio capriccio di voler attardare al (ri)vestimento nel desiderar volare verso di lei nell’investirla di brulicante calor a pelle su nebbia “rifrangente” dell’atmosfera già d(i)ur(n)a su effetto gravitazionale del levarle le sol mutande che indossa e inserirmi da “produttivo lavoratore” nella sua avvolgente, aspirante, umida cavità…

Il (non) fare un cazzo, e rimandare, è amore!

Al che, innervosito da tal pensiero sognante, ché sia mai non tale, dimesso mi metto i pantaloni non prima d’aver emesso un peto sfrigolante su caffè addolcito con del latte.

Bagnando il “biscotto” nel rimembrare il film di Tim Burton, che vidi quando calò “colante” il tramonto del domani sperante, addosso, godo sbrodolandomi.

Così, questa ricordante fantasia mi sprona ad abbigliarmi senza giacca e cravatta ma, in “doppiopetto” da fottuto… arrogante del mio strano cervello, recarmi in bagno e lasciar che tutto vada il mio abbassar i calzoni del pigiama nello svuotante “principe” mio sul p(is)el(l)o.

Questo è il Cinema di Tim Burton, un Cinema che ha il coraggio di dir cose anche non tanto lecite con l’erezione malinconica del permearsi in premente urgenza d’esser sé stessi.

Da tuffarsene, amarlo, odorarlo, sentirlo tutto, entrarci in profondità, inondarsene. E (s)fregarselo di gusto unico.

E non da comuni uomini con una moglie che i panni stende e poi deve far la giornalista da quattro soldi, senza sottana col (di)retto(re) di “attributi”, nel darsi delle arie da “vuota”, nello stilar altre stesure.

Io, invece, (s)tirato, viaggio su nuvole a vapore dei miei abiti da (non) far il mon(a)co.

Se tale mio scritto non v’ha indotto alla risata, allor sì che siete dei “topi” seriosi e con me avrete poco da spartire la collezione in Dvd del Burton.

 

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