New York, New York, recensione

New York De Niro

di Stefano Falotico

Sempre più solidi, Scorsese e De Niro, dopo Mean Streets e Taxi Driver, collaborano ancora per questo insolito musical nostalgico… una sarabanda di colori saturi, un film (sovra)impresso nella malinconia purissima come le gambe sciolte d’una Liza Minnelli d’assoli indimenticabili, scoppiettante come la frenesia d’un De Niro, appunto, sorprendente, che ammicca di neo suo celeberrimo stuzzicando il sassofono nella smorfia travolgente dell’eterno corteggiatore un po’ imbranato e un po’ spaccone da gaglioffo irresistibile. Tutto ha inizio nella pirotecnia fluorescente e quasi psichedelica d’una enorme sala da ballo, d’una festa piena di dame un po’ tristi, un po’ puttane, un po’ “malelingue” di sex appeal fra gonne lunghe che sbuffano tra sigarette decadenti e la voglia impagabile di far l’amore col primo che a lor si presenterà originale. Perché da molto tempo non trombano e hanno le iridi degli occhi velate dal capriccio tipico d’una “mestruazione” durata troppo a lungo.

Si celebra la resa del Giappone in questa notte variopinta del 2 Settembre del 1945. E Jimmy Doyle (De Niro), arrapato come non mai, si guarda attorno e posa il suo sguardo sulla sola soletta Francine Evans (Minnelli). Lei è una cantante di gran risma, di voce unica e intonata già alle corde armoniose del sovrano amore librante nell’alto dei cieli, lui uno sfigato semi-spiantato che non la pianterà un istante.

Ci gira attorno… e pian piano l’adesca con far mandrillo di suo sorriso esuberante, sfacciato e di camicia sgargiante su strizzatine ero(t)iche da balordo bello e impossibile. Un po’ stronzetto, un po’ cafoncello, eppur molto bravo come sassofonista, oltre a suonarsela… e cantarsela, arrivando, dopo mille peripezie e sani schiaffi in faccia, a sposarla e regalarle un matrimonio da favola. Di loro, in giro per gli states, con la jazz band d’ordinanza e le melodie “corazón” di due oramai promessi sposi finché morte non li separi. Eppur la vita avanza, il sentimento “stona” e i cuori lentamente si sfibrano, come sovente accade. Lui le tenta tutte per riconquistarla ma sarà solo una notte di dolce addio, con una grandiosa, soffusa serenata vicino a un fievole lampione impregnato della luce scolorita del loro amore purtroppo svanito o forse talmente tougher than the rest da preferir il mai più… come un corvo alla Edgar Allan Poe, una finestra che profuma d’ultima tentazione…,del passo stanco, affranto di Jimmy che le concede il suo struggente ultimo valzer… e poi, forse piangendo, si congeda nel ricordo di quel che già fu, di un’altra era, di una Once Upon a Time in America prima del suo Noodles di Sergio Leone.

Gershwin fa capolino a monumentale capolavoro imperfetto, troppo lungo, troppo tagliato, di tante versioni restaurate, corrette, di Scorsese indeciso di vari director’s cut perché troppo, probabilmente, innamorato della sua Liza da poter troncare, spezzare il flusso anche esagerato, prolisso dei suoi primi piani adoranti, pedanti, eccessivi, retorici, oltre l’immaginazione dell’amore e del ventaglio alla pavonessa Liza.

Ma rimane un bel vedere e la fotografia del mitico  László Kovács fa il resto di brio lucente.

Come non magnificarlo, nonostante i grossi difetti.

New York New York

 

 

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