Mary Shelley’s Frankenstein by Kenneth Branagh

Branagh Frankenstein

di Stefano Falotico

Negli anni novanta, alla TriStar Pictures barcamena la folle, stupenda idea di riallacciarsi a un discorso modernista e filologico di “restaurare” i vecchi classici della Universal.

Così, rispuntano i “mostri” dal cilindro d’una casa di produzione rinomata, che decide d’affidare a quattro grandi registi l’eredità di “rifarli nuovi” o, meglio, d’eseguire personali parti(ture) nelle variazioni sul tema horror.

A Mike Nichols vien “consegnato” l’uomo lupo per Wolf – La belva è fuori, con Jack Nicholson nella parte di wolfman, film dalle spericolate ambizioni che parte a razzo, col “pelo sullo stomaco” da lupo malandrino e si perde a manierismo del “vizietto” (di Nichols, infatti, il rifacimento del film con Ugo TognazziPiume di struzzo) negli insopportabili eccessi d’un regista sempre troppo pieno di sé, sdilinquendo tristemente, man mano, in uno sconcertante trionfo del cattivo gusto. A Stephen Frears, invece, la Tristar dà dottor Jekyll e signor Hyde, con Malkovich nella doppia veste angelica-diabolica dalla personalità doppia. Ma, anche in questo caso, il film vien oppresso da troppa carne al fuoco.

Prima di questi controversi film, c’è però il “capostipite”. E chi se non Dracula il non morto per la regia d’un grandioso, redivivo, sanguinario e ritrovato Francis Ford Coppola, che eleva le strepitose virtù attoriali d’un Gary Oldman spaventoso in ogni sen(s)o, anche in quello delicato, ipnotico, dolcissimo e madornale dell’immensamente figa Winona Ryder?

E a Coppola, di affiliazione con la Tristar, salta alla mente di realizzare anche la versione di suo fratello “gemello”, Frankenstein, appunto, riservandosi però “soltanto” il compito di produttore e affidando la “creatura” al geniaccio “factotum” scespiriano che io venero e in gloria innalzo, il “pazzo”, imprevedibile metteur en scène Kenneth Branagh.

Che bizzarra scelta quella di Coppola… all’epoca, considerata enormemente sbagliata, così come i soliti frettolosi e stolti critici decretarono di ampie, sciagurate stroncature, decidendo che l’opera di Branagh fosse, sì, da “recider” con stilettate severissime nello svelto, lapidario giudicarla tronfia, ridondante, retorica, banale e sorprendentemente “superficiale”… di contraltare proprio nel dar contro al baronetto Branagh, linciato di netto per essersi cimentato da “inetto”, almeno secondo loro, con qualcosa che, sempre secondo tali “esimi”, non era a lui adatto. Consigliandogli di tornare a Shakespeare e di lasciar stare Mary Shelley…

Col sen(n)o di poi, qui non abbiamo Winona Ryder ma la ca(u)sa della separazione fra Branagh ed Emma Thompson, quella bona ineccepibile di Helena Bonham Carter (l’h, non di Helena, bensì di Bonham, va tutta, davvero tutta aspirata…). Sì, dopo le riprese, Branagh, dinanzi a cotanta di ben di Dio, non s’è mai più ripreso e, rimasto da Helena sorpreso, anche (stupe)fatto dirimpetto, e che “davanzale”, a tal altissima donna (sì, slanciata, longilinea e pur fine di recitazione sottile, in sordina…, sobria e luccicantissima, non magra eppur sia finissima che formosa), la sposò, parimenti a come accade ai lor ruoli in tal film da lui (di)retto d’assoluto protagonista titanico. Sì, nel film, Helena fa la parte di Elizabeth, la promessa sposa del folle dottorone, il matrimonio avrà da farsi ma il nostro Frankenstein non se la farà perché, dopo i festeggiamenti delle nozze, quando lei sta aspettando il suo uomo che la ami, non “viene” (da) scopata ma vien “scorata” da quel monster di De Niro che le strappa proprio il cuore, con Branagh che, impazzendo ancor di più, (s)tirato… d’ira da Dracula, appunto, e incagnito rabbioso da vendicatore coi suoi canini appuntiti, comprende finalmente l’orrore… dell’insanissimo suo gesto, sfidante scellerata-mente Dio, cioè l’aver violentato madre natura, forzando la “creazione”, (ri)voltante dagli effetti collaterali obbrobriosi, nati dai suoi scriteriati laboratori immolati alle (im)possibili clonazioni.

Nessuna vita, mai più… soltanto l’esecrabile immoralità dell’aver bestemmiato contro la div(in)a mor(t)alità.

Pioggia biblica di rabbie intrecciate grandinano dal cielo che grida addolorato, lampeggiante di tuoni elettrici e (alti)sonanti, fra un De Niro (ri)creato a immagine e somiglianza distorta d’un padre innaturale, orfano dagli awakenings inquietanti. Senz’arte né parte, ubicato nelbelmezzo della vita e di un gelido inverno ma sfigurato in viso. Dunque emarginato, nell’intima e preziosa dignità danneggiato, saccheggiato e costretto a dormir nei boschi di sacco a pelo e (ca)sacca da mon(a)co…

Che, così part(or)ito, in suo animo scheggiato e inaridito, si scaglierà contro suo “padre”, servendogli la vendetta più fredda in una notte di fulmini e saette nel fulminar Frankenstein di ringhiosa (im)potenza di fronte al mostro che lui, sì, incarnò quando volle far rivivere nuova carne…

Un film cronenberghiano, “chirurgico”, da bisturi a farci male perché osa, disossa, spacca il Cinema di gene(re) nella contaminazione geniale, malatissima e sporca da mentale igiene, fra l’essere-non essere un melodramma, uno Sturm und Drang, un’esplosione fastosa dalle impeccabili, lucidissime scenografie maestose, la classe non è acqua di due “mostri”, appunto, Branagh e De Niro, enorme anche sotto chili di trucco, (ir)riconoscibile soltanto dal movimento oculare delle sue iridi lupesche e di sempre (in)visibile neo nerissimo, una Carter bellissima, poi bruttissima perché mostrificata anch’ella, povera ancella, e l’agnello di Dio che toglie i peccati del mondo.

Capolavoro.

La forza dirompente di questo film magnifico sta nell’urlo devastante di Tom “Amadeus” Hulce. Quando vede Frankenstein impazzire da punto di non ritorno orrendo, inguardabile, e, immaginandolo nella stanza degli orrori a “ricucir” la sua sposa affinché “ritorni”, grida la tragedia irreversibile e per di più ingigantitasi d’onnipotenza terrificante.

Frankenstein De Niro

 

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