Racconti cinici di Cinema: Luci rosse del tempo, fenomeno “atmosferico” del litanico torpore esistenziale

Red Lights

 

di Stefano Falotico

Luci rosse del tempo, fenomeno “atmosferico” del litanico torpore esistenziale

Le Red Lights della reminiscenza, del passato che (non) torna, insiste, pervade l’anima e l’annienta o solo, solfeggiando rimembrante, scuoia la membrana della svelata essenza.

Nudo, dinanzi alla vita che per gli altri è sempre danzante, per te, pur nella rivelatoria, illuminante trasparenza, appare sempre più nera, macabra vacuità del tuo volto di cera, impallidito come Dracula, avvinghiato dalle notti senza sosta del renderti esausto di tutto.

Un vivente candelabro.

Ma non soffri questo lutto, questo tuo pieno lupo esulta, pregno di gioia, ed è il colmo più stronzo da rubacuori del tuo sangue impietrito davanti alla vita desta o sol più assopitasi nella fresca, imbattibile melanconia! Come l’iridescente bagliore intermittente eppur fosco, nebbioso, del focoso e languido plenilunio d’un viaggio tuo interminabile agli albori dello scoprirti uomo, dunque anima(le), forse qualcos’altro di non ben identificato. Un UFO in mezzo a tanti gelosi gufi, fra il trambusto dei (sos)petti arcigni. Tu, un cigno ancor bianco, puro o materia con un Dio al di sopra d’ogni (mis)credenza, che sia cattolica, cristiana, d’un Giuda ladro o d’un meschino inganno, ché sia un Dio delle carneficine scannanti alle vittime innocenti o un tuo parvente uomo di bell’aspetto all’esterno ma marcio dentro, forse più vivo degli altri, i morti viventi.

Che c’entra il film di Rodrigo Cortés con Robert De Niro? Cioè, con protagonista De Niro. Non c’entra con De Niro ma di questo De Niro son “accentrato” parimenti di soliloquio nella solitudine che tanto m’angoscia sin da quando nacqui, dopo, sì, vissi anche anni felici, protrattisi oltre l’infanzia ma, trascorso un frammento, un “firmamento”, anche quello onirico credo, della mia assaggiata, passeggiante adolescenza, scolorii non tanto variopinto in miei acu(i)ti voli pindarici.

Rifugiante, illusoria profilassi (anti)assolutoria dell’esser solo. Soffrendo le notti già affrante della condizione umana così stolta e frivola. Stanti(a).

Io, bislacco, menestrello, fantasma allegro agli occhi di chi, superficialmente vedendo di me soltanto appunt(it)o, e impuntandosi, l’apparenza, porgendomi schernenti, ilari, disgustose, volgarmente goliardiche smorfie blandenti, affettatamente la mia anima fece a fette. Gente che è come le feci. Che fa e disfa a “piacer” escrementizio della loro (s)porca ignoranza da (non) vissuti davvero… adulti boriosi, con alle (s)palle tante delusioni loro da scaricar addosso a te, dunque a me, io come alt(e)ri ché cerc(hiam)o persone affini alla nostra un(ic)ità. Ma non c’è pace per noi che, a una certa età, scopriamo l’insopprimibile, incancellabile verità. Che solidarizziamo a fare? Per essere dagli essi vivono (s)fatti? Ed è oramai inutile, futilissimo, poco “furbo” giocar a nascondino. Celarsi dietro una maschera sorridente che inver soffre e sta fingendo di non star per morire. Così, rido io e ridi tu, ché siamo noi in (pro)fondo uguali, figli delle stesse stelle.

Ma poi, quando soli stiamo, nella nostra intimità lacrimiamo.

Ascoltiamo della musica che ci distragga, “ce la spariamo” affinché dal dolor più viscerale, stordendoci, ci distragga in tanto (dis)illuderci di scor(d)arci.

Scora(ggia)ti, stanchi, viviamo, non so ancora per quanto. E non è patetico pianto, no, presa di coscienza che saremo eternamente inascoltati. Mal nati, non ammainatisi ma forse mai nati. Della solitudine, soltanto oscurati soldati.

È il nostro sentire che non cambia, abbaia, mentr’attorno impazzan le fiere… carnalità dell’adattamento brado. Loro, le latrine, latrano! Si svendono e barattano da miopi burattini!

Quasi tutti son mutati, oggi ridono e scherzano ma son sinceri o solo più bravi attori dell’osceno palcoscenico ove vige e (non) vince la migliore, peggiore recitazione del sé interiore? Quindi, l’esteriorità più falsa da “bella” esposizione? Il balletto di chi meglio, ah ah, s’imbelletta?

Allorché, De Niro è cieco o sta appunto fingendo? Nel suo covo, al buio, confessa che lui è come un lupo. Un uccello del malaugurio, un “corvo”. Ed è da una vita che “recita” per “vedere” qualcuno, un amico che gli sia s(i)mile, per forzatamente costringersi, quasi, a stringer la mano alla sua natura “restrittiva”.

Perché la gente sa che lui è un diverso e, se non lo schiva sfacciatamente, glielo fa capire, usando lo “sguardo”, le occhiate più maliziose.

Ed è gente superstiziosa che teme il suo “stregone”, i poteri “paranormali” della sua anormalità da veggente proprio a scrutar la gente. Il malocchio!

Lui è il non (pre)visto agente.

E il finale sbaglia tutto. Perché diventa un film in cui vengon scoperte le carte. Insomma, De Niro è stato solo un mentitore, un ciarlatano, un buffone, un imbroglione. Un truffatore.

Non è mai stato cieco, dunque non è mai stato un diverso, bensì solo uno che voleva sfruttare la dabbenaggine dei poveri (dis)illusi per vivere.

No, non va bene. Rovina l’assunto, l’assurdo che invece credo sia credibile.

De Niro giocò con la credulità per farsi passar per mago delle incredibilità.

E se invece non avesse ingannato nessuno, tantomeno sé stesso?

Il film avrebbe preso una piega spaventosa, un capolavoro vivente.

Ora, vi spiego…

Molta gente, “non vedente”, pensa che il passato non torni, che sia (tra)passato.

No, il passato torna con più ferocia, torna sempre, per sempre.

Stai viaggiando in macchina, è una strada che conosci, ti è familiare ma non riesci a “mettere a fuoco”. Al che, spegni il motore, chiudi piano gli occhi e pensi…

Compare uno squarcio nella memoria, rivedi un trauma.

Apri gli occhi e (ri)cogli tutto. Di nuovo…

Ora, di quella strada ricordi il nome, ricordi le persone che c’erano, ricordi la (s)cena ma non fa male. Si chiama catarsi.

Queste sono le luci rosse…

Ecco, l’altro pomeriggio son stato dal mio avvocato per sapere a che punto sono alcune indagini. Suono al campanello, il segretario mi fa accomodare e poi aspettare in sala d’aspetto. Il segretario continua a far le fotocopie. Dopo mezz’ora, arriva il mio avvocato e mi fa entrare nel suo studio.

– Come va, amico?

– Bene, insomma, è una giornata particolare.

– Ah, perché hai mai vissuto una giornata non particolare nella tua vita?

– Sì, ho molte giornate “normali” dietro di me, altre normalissime, purtroppo, mi aspetteranno.

– Capisco… è la vita, oggi particolare, domani meno. Sai, amico, io invece vivo sempre giornate particolari.

– Sempre?

– Sì, è dalla nascita che per me è così.

– Ed è per questo che fa l’avvocato?

– Che vorresti dire?

– Fa l’avvocato perché così prova a risolvere le vite criminosamente violate. Così facendo, cura anche sé stesso dall’essere sbagliato. Lei è un diverso che utilizza la legalità per nascondere la sua innata, incompresa tragicità. Trovando e punendo i colpevoli, lenisce il senso di colpa del suo saper di essere un diverso. La verità è da noi vissuta come un “Processo” alla Kafka. Si chiama complesso…

– Come hai fatto a capirlo?

– Sono il notaio, se vuole, mi chiami l’Illuminato.

– Ah, amico, io sono, è giusto che tu lo sappia, l’Innominato.

– Innominato, i nomi son saltati fuori dal registro degli indagati?

– I nomi li sappiamo già.

– Ah, sì. Li sappiamo noi ma non li sanno ufficialmente quelli della Giustizia.

– Presto, sapranno. È di mia competenza che sappiano.

– Sì, ma vorrei che non sapessero che io e lei siamo dei diversi.

– Non lo saprà nessuno, tranne io e te, diamoci del tu. Anzi, dammi tu del tu, io già il tu te lo do da una vita ma continui a darmi del lei.

– Se ci prendessimo un tè?

– Meglio un caffè.

 

Buonanotte.

 

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