Hell or High Water – Recensione

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Film “caso” dell’anno, presentato a Cannes alla sezione Un Certain Regard, film sul quale in pochi, anche dopo averlo visionato, avevano scommesso. Invece, il successo in patria è stato eclatante, portando la pellicola in vetta al gradimento della Critica, e posizionandolo nella categoria nominata di Miglior Film, appunto, ai prossimi Academy Award. Scrutiamo con “esattezza” e puntiglio questo film apparentemente passato “inosservato” che, nel giro di una manciata di mesi, da vero “sleeper”, è cresciuto enormemente negli apprezzamenti, spopolando coi premi e ambendo al massimo riconoscimento dell’Oscar. David Mackenzie, il regista, per di più, non è mai stato così tanto elogiato dalla Critica come in questa “circostanza”. Un western autunnale di lisergica forza magnetica, improntato su una trama ridotta all’osso. Due fratelli scalcagnati e “sfigati”, all’improvviso, come una detonazione “illuminante” nel lor cuore di losers, decidono di rapinare banche per estinguere il mutuo. Rapineranno filiali dello stesso istituto per singolari cifre pellicole che non interessano all’FBI. Inoltre, secondo i nuovi provvedimenti, le banche non son più dotate di efficienti sistemi di registrazione e quindi, in maniera “anonima” e aggiungo io anomala, “prelevano” a sbafo soldi e non mazzette contrassegnate, per un gioco “facile” da vecchi lupacchiotti del mar ch’è la giungla di questo Texas degradato, “messicaneggiante” come Donald Trump odierebbe. Alle loro calcagna però uno “spietato” sceriffo di contea, un grande come sempre Jeff Bridges, stanco, disilluso, con la pancia gonfia imbevuta di ettolitri infiniti di birra fresca come la sua bollente ira repressa. E le scene migliori appartengono ai vecchi diners nostalgici di un c’era una volta sull’orlo dell’implosione e dell’estinzione, seguiti “passo passo” dalle ballate di Nick Cave e da una fotografia virante a luci giallo-ocra come panorami desolanti di un film di Malick trattenuto da energie rocambolesche d’inseguimenti “grotteschi”. Il trio d’interpreti, col già (ec)citato Jeff Bridges, funziona a meraviglia, con un plauso particolare per la prova gaglioffa di un Ben Foster gigione e ubriacone di folle e scriteriata volgarità con “manie” suicide. Un film forse sopravvalutato dagli americani, ma di bella fattura, trama scarna ed essenziale ma di taglio espressionista come i Coen, un Fargo immerso nella natura crespa e arida di un mondo che punisce i suoi figli più puri, un film di slanci, di pigrizie, di sbagli esistenziali, di crepuscolari colpe che rimarranno nella segretezza ermetica della memoria “sbadigliante”.

di Stefano Falotico

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