Mindhunter, siamo a metà del viaggio, recensione dei primi cinque episodi

mindhunter

Ebbene la serie Mindhunter, patrocinata da Netflix, appunto ivi disponibile in streaming, si è da subito imposta, solo dopo qualche giorno di programmazione, come lo show dell’anno. Sì, uno show, va ricordato, perché altrimenti confondiamo quelli che comunque nascono e rimangono come degli intenti di mero intrattenimento per qualcosa di più “elevato”, al di là dei possibili meriti “intellettualistici” o pregi maggiormente sofisticati che esulino appunto dall’essere semplicemente un grande spettacolo.

Ora, vorrei analizzare i primi cinque episodi, e se la pazienza e il tempo vorranno poi mi soffermerò conclusivamente sulla recensione finale, a visione completamente avvenuta.

Paragoni subito son stati fatti col Silenzio degli innocenti di Jonathan Demme perché Mindhunter di Fincher, come tutti i prodotti sui serial killer, oramai genere a sé, non più ascrivibile neppure sotto la facile etichettatura di thriller, pur ampiamente dilatando, essendo appunto una serie e non un film, alcuni aspetti dell’opera seminale, iniziatica di Demme, espande il cosiddetto “interrogatorio” a dieci episodi.

Un agente dell’FBI, Holden Ford (Jonathan Groff) vuole istituire un programma di scienza comportamentale per far chiarezza sugli omicidi seriali, per uno scopo prettamente educativo, nobile, idealista. E allora, assieme a un profiler, Bill Tench, impersonato da un carismatico e bravissimo Holt McCallany, interroga i criminali per studiare le origini nascoste del Male, per darne una sembianza, per razionalizzarlo, per carpire, semmai esistano, delle linee conduttrici comuni che possano dare ordine e senso all’apparentemente inspiegabile, agghiacciante natura di questi uomini. Uomini, sì, non più cavie da laboratorio, non più semplici mostri, ma persone dotate di una storia, di un vissuto, di ragioni, seppur assurde e orribili, che li hanno per come dire indotti a delinquere esecrabilmente, a macchiarsi dei più perversi reati. Come insegnava Lombroso, così come peraltro ci viene illustrato nel primo episodio, i “moventi” sono tanti e molteplici, diversificati, c’è chi nasce mostro e chi lo diventa, ma anche chi lo diventa e perpetua la sua mostruosità nella serialità.

Allora entra in scena una figura tanto straordinariamente repellente quanto, per i suoi insospettabili modi educati e gentili, affascinante e curiosa, il killer delle studentesse, ovvero il gigantesco Edmund Kemper. Quasi pare che sia un nostro amico, uno che potremmo invitare tranquillamente a cena e non certo temere per la nostra incolumità. E le sue scene sono fra le migliori, filmate con pudore e delicatezza.

Così, fra confidenze personali, dubbi e momenti angosciosi, Mindhunter scorre, mentre sfilano storie di “cannibali” e carnefici, tutti vivisezionati con discrezione, perfino sensibilità, non giudicati né freddamente analizzati ma addirittura, se possibile, compresi, a loro modo giustificati, probabilmente.

Va detto che ci troviamo di fronte a un prodotto senza dubbio intrigante, ben fatto, ma la sceneggiatura alle volte è pedissequa, traballa e non certamente brilla per assoluta originalità. Temi e argomenti già visti e trattati, qui semmai coesi in una struttura narrativa che ce li rende più compatti, unitari. E forse qui sta il suadente inganno di Fincher, non aver proposto in verità nulla di particolarmente nuovo ma averlo ricreato e filmato con un’asciuttezza e un’eleganza tali da farcelo sembrare avvincente.

Alla composta bellezza dell’insieme, almeno fino a questo punto, secondo me nuoce invece la figura di Wendy Carr, un’altezzosa, troppo sicura di sé Anna Torv, che spesso interviene con burbanza egocentrica e sentenzia in maniera massimalista, lapidariamente snob, con frasi ad effetto un po’ ridicole sul fatto, ad esempio, che due uomini di successo come Andy Warhol e Jim Morrison fossero anch’essi dei sociopatici, di come lo fu, a sua detta, il presidente Nixon e, anzi, di come essere sociopatico, asserisce con fierezza senza tentennamenti, sia stata la sua marcia vincente. Insomma, frasi messe lì per fare scalpore e non molto profonde, come quella secondo la quale chi non si adatta alla società è inevitabilmente un criminale. Mi sembrano “cose” obiettivamente molto superficiali e recitate peraltro con un’antipatica arroganza della posa, tanto per far scattare il facile applauso un po’ allocco.

Detto questo, Mindhunter promette comunque a pieno ciò che aveva promesso e, ribadiamo, non scambiamolo per un prodotto che vuole essere chissà quanto innovativo o splendere di chissà quale spessore, appunto, psicologico.

È un veicolo d’intrattenimento, spesso molto intelligente, altre volte invece prevedibile e banale, che si lascia guardare con ammirazione senza però neanche entusiasmare chissà a quali alt(r)i livelli.

Forse eccessive, dunque, le lodi della Critica statunitense ma, in un periodo di vacuità e frivolissime sciocchezze, avercene…

 

di Stefano Falotico

 

Lascia un commento

Home Mindhunter Mindhunter, siamo a metà del viaggio, recensione dei primi cinque episodi
credit