Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Recensione

Tre manifesti McDormand

Ebbene, oggi voglio parlarvi di uno dei film dell’anno, un film che ha fatto sfracelli quando è stato presentato in Concorso alla scorsa Mostra del Cinema di Venezia e i cui apprezzamenti sono ascesi così tanto da fargli guadagnare numerose nomination all’Oscar. Il pubblico n’è andato matto, la Critica, come detto, l’ha incensato di lodi, anche se a ben vedere, personalmente, sarei più moderato nel darne un giudizio troppo entusiastico.

Ennesimo spaccato della provincia americana, brutta, sporca, cattiva, omertosa, ipocrita e razzista, ove le verità vengono seppellite dai silenzi, dalla gente che sa, o forse vorrebbe sapere, ma sta zitta, mormora, e alla fine preferisce non pensarci.

Una ragazzina è stata stuprata nella zona ma il colpevole non è mai stato acciuffato, e la madre (una spigolosa, volitiva, “pazza” Frances McDormand) non si rassegna. Al che, per scuotere l’opinione pubblica, per far sì che la polizia locale, addormentata dalla routine monotona del suo bighellonare irresponsabile, la donna affitta tre cartelloni pubblicitari a un centinaio di metri da casa sua, affibbiandoci scritte forti, persino offensive nei confronti dello sceriffo, affinché appunto il caso della figlia scomparsa, violentata e barbaramente uccisa, venga da qualcuno ripreso in mano e si proceda seriamente alla caccia dell’assassino maniaco. Insomma, compie questo pittoresco gesto per sbloccare soprattutto l’inerzia allucinante di una polizia sonnolenta e pigra che, a quanto pare, invece che fare il suo dovere se n’è lavata esecrabilmente le mani, lasciano l’impunito a piede libero.

Ma Ebbing, questa cittadina rurale immaginaria, cullata nella sua noia e nelle sue banali ritualità quotidiane, forse non è il posto giusto per una come Mildred. Lei è una matta idealista mossa oramai soltanto da un desiderio profondissimo di giustizia. Ed è una donna che ha perso tutto. È divorziata, si arrangia come può a vendere oggettini preziosi in una piccola bottega di souvenir, ha un figlio adolescente che deve crescere da sola, perché il marito l’ha abbandonata per mettersi con una diciannovenne ignorantissima che pulisce lo sterco nello zoo. E agli occhi della comunità, per la sua rabbia irruenta e la sua personalità difficile, appare come una mezza invasata e una poveretta.

Lo sceriffo Willoughby (Woody Harrelson) è un tipo tosto, dai modi bruschi, caratterialmente irascibile, ma sta morendo di Cancro e sostiene testardamente che non ci siano elementi necessari per continuare le indagini e non si può incriminare nessuno. Il suo vice (Sam Rockwell) è un redneck, o se preferite un white trash, un coglioncello che usa il manganello contro i deboli e i neri per sfogare le sue ire represse, castrato e succube di una madre oppressiva da cui non riesce a sganciarsi per il suo atavico complesso di Edipo.

Il film diventa quindi la storia di un’ossessione, di rabbia che genera rabbia, in un’escalation macabra e spietata, nera ma anche buffa, ironica e assurda sul colorito, raccapricciante microcosmo di una città solo all’apparenza tranquilla.

McDonagh, che ha scritto al contagocce anche la sceneggiatura, fra trovate burrascosamente ilari e qualche caduta di tono nei dialoghi, non sempre ficcanti e del tutto calibrati, dirige con piglio, mantiene alto il coinvolgimento e il grottesco divertimento per le due ore di durata, senz’annoiare mai e trovando sempre snodi spassosi ma anche commoventi a una narrazione tanto bislacca quanto goduriosa, da leccarsi i baffi.

Il male aleggia indisturbato, la gente è falsa, incaponirsi alla ricerca di una catartica illusione di giustizia probabilmente servirà solo per disperarsi ancora di più, per tormentarsi nel dolore, nell’irreversibile tragedia disumana e terrificante. E, in cuor suo, forse Mildred sa che illudersi è forse l’unico modo per trovare un senso a una vita devastata.

Tutto scorre in maniera perfetta, tanto perfetta da non emozionare e stupire sempre come pretendiamo avvenisse, fra una torreggiante McDormand e la simpatica testa di cazzo di Rockwell (entrambi premiati con l’Oscar), ma il finale, sbracato, sbrigativo, morbidamente sospeso nel non essere trasgressivo, smentendo le origini invece sovversive di tutto l’eversivo sviluppo narrativo, potrebbe però scontentare parecchi. Se fosse stato cinico come ci saremmo aspettati visto il mood del film, l’avremmo accusato di eccessivo giustizialismo, allora McDonagh, che non è uno stupido e sa cosa piace per essere definito bello, è qui furbissimo e dunque delude, lasciandoci un sapore agrodolce negli occhi e nell’anima che andava, a mio avviso, radicalmente più scorticata, turbata, e non possiamo essere soddisfatti da questa calcolata strizzatina agli Academy…

E forse Tre manifesti… rimarrà solo un bel film, ma lontano dal capolavoro che si dice e si è detto.

 

 

di Stefano Falotico

 

 

 

Lascia un commento

Home Martin McDonagh Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Recensione
credit