Racconti di Cinema – Premonitions con Anthony Hopkins e Colin Farrell

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Ecco, oggi voglio parlarvi di un film di qualche anno fa, Premonitions, uscito nei nostri cinema con un po’ di ritardo, nel 2015, distribuito dalla Lucky Red, mentre per il mercato nordamericano la suddetta pellicola è stata distribuita dalla valente Lionsgate.

Il titolo originale è Solace::

noun

Consolation in a time of sorrow, distress or sadness

verb

To give alleviation, comfort, relief

Queste diciture compaiono prima dei titoli di testa, quindi solace è il conforto, la consolazione in un periodo di stress negativo, è uno stato d’animo quasi purificativo, una catarsi.

E questo termine sintetizza il “significato” del film meglio del titolo “italiano”, peraltro stupidamente inglesizzato. E non comprendiamo ancora una volta perché inspiegabilmente gli imbecilli distributori italiani continuino ad accanirsi non solo a non tradurre letteralmente i titoli appunto originali ma addirittura se n’inventino, in becera sostituzione, altri sempre “esterofili”. Distorcendo già dapprincipio il senso del film, che è molto di più che un campionario di premonizioni.

Sì, il paranormale e le facoltà precognitive c’entrano con la storia narrata, ma presto il film assume una piega, potrei dire, bioetica.

Ma andiamo con calma. Uno psychic cioè un sensitivo (John Clancy, interpretato da Anthony Hopkins), ma anche psicanalista, ritiratosi nei boschi dopo la prematura morte della figlia e la conseguente separazione dalla moglie, viene contattato da un suo amico, agente dell’FBI (un carismatico Jeffrey Dean Morgan) per indagare su una serie di omicidi apparentemente scollegati tra loro, che però paiono essere riconducibili a un ipotetico serial killer da identificare e catturare prima che commetta altre barbariche uccisioni. La sua modalità assassina è la stessa, spezza e frantuma la parte posteriore del collo delle sue vittime attraverso un letale ferro appuntito, ammazzandole all’istante.

Clancy, dapprima recalcitrante, accetterà poi di occuparsi del caso, attratto magneticamente dal suo sesto senso infallibile che gli prefigura qualcosa di estremamente fascinoso e irresistibilmente attrattivo verso il “mostro” da incastrare.

In queste indagini, nei quali userà liberamente i suoi poteri da sofisticato veggente, sarà affiancato da una giovane donna, una profiler, Katherine Cowles (incarnata dalla bellissima Abbie Cornish), e rivedrà subito in lei la stessa purezza e fragile fragranza umanissima della figlia, uccisa all’apice della sua floridezza vitale dalla leucemia.

Ben presto, Clancy si accorgerà che quest’assassino seriale a cui stanno stando inesorabilmente la caccia non è un uomo comune. Anzi, scoprirà ben di più. Capirà che anche lui ha la capacità di leggere nel futuro, e che uccide secondo un meticoloso criterio. Tutte le sue vittime sono malate terminali o, perlomeno, persone che soffrono di qualche invalidante patologia. Nel suo “carnet” di morti da lui ammazzati, ci sono infatti un bambino affetto da un tumore irreversibile al cervelletto e una donna malata di gravissima depressione con tendenze suicide.

A compiere gli assassinii è Charles Ambrose, questo è il nome del killer spietato, che ha le fattezze di un fantasmatico e lugubre Colin Farrell. Un uomo che non solo ha la stessa veggenza di Clancy ma è persino più bravo di lui in “materia”.

Quindi, la sfida sarà estremamente difficile, perché Ambrose è sempre un passo avanti a Clancy, anzi, è lui a depistarlo e a prevedere ogni mossa, come in un gioco a scacchi sottilmente occulto e cupamente, ombrosamente ipnotico, giocato sulla telepatia.

Ambrose si è “divinizzato”, sì, gioca a fare Dio e la sua altri non è che una forma raffinata, gentilissima di eutanasia da salvatore…

Ecco allora che questo thriller di genere, apparentemente di serie B, seppur poco sorretto da una coerente, congruente plausibilità narrativa (ma è inutile pretenderla da un film che non ambisce a essere altro che intelligente intrattenimento di veloce consumo), in solo 1h e 41 min fa confluire nella sua trama elementi tanto eterogenei ma sapientemente amalgamati: il paranormale, appunto, una storia e atmosfere torbide alla Se7en, e molteplici, stratificati concetti filosofico-esistenziali.

Non ha né la voglia di approfondirli né di perderci troppo tempo il regista della pellicola, il brasiliano Afonso (sì, non Alfonso) Poyart, ma gli servono per imbastire una vicenda a suo modo coinvolgente, forse un po’ superficiale ma di prammatica ed efficace per un film, come si diceva un tempo, fatto di suspense e brividi in poltrona.

I conti non tornano, alle volte Poyart si fa prendere la mano ed esagera in immagini videoclippate e incedendo in pacchiane leziosità registiche assolutamente non necessarie e fastidiose, ma Hopkins è decisamente convincente e molto ispirato in questa personale ennesima variazione sul tema attoriale del suo famigerato, immortale Hannibal Lecter, la Cornish è una gioia per gli occhi, Dean Morgan fa il suo dovere con charme, e Farrell, nonostante appaia soltanto verso la fine, tratteggia una figura di psicopatico affascinante e prometeica, sovrumanamente perfida e cinica.

E il duello finale in metropolitana è ottimamente congegnato, girato con classe e ritmo, scandito da ammalianti, fosforescenti frame diluiti con stile adrenalinico ed emozionante.

Certo, molte cose non vanno in questo film, a partire dalle oramai troppo abusate panoramiche in ralenti delle pallottole alla Matrix, ma è un film comunque da rivalutare.

E la Critica americana e anche nostrana è stata troppo ingenerosa. Sono inoltre stufo e nauseato quando leggo recensioni fatte con lo stampino, in cui si abusa sbrigativamente di espressioni e modi di dire, questi sì, stereotipati come… un tempo Hopkins e Farrell erano una garanzia, invece hanno girato un filmetto alimentare, Hopkins è annoiato e distratto, oppure lasciate perdere…

I film vanno visti con più oculatezza e questo Premonitions non è certo un capolavoro, neppure un grande film, certamente, è sin troppo magniloquentemente appariscente, grossolano e tronfio, ma il colpo di scena finale vale il prezzo del biglietto e, come si suol dire, per due ore circa saprà avvincervi senza mai annoiarvi.

Per un film di genere, soprattutto di questi tempi, è già molto. Fidatevi.

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di Stefano Falotico

 

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