“Red Lights”, recensione

Note discor-d-anti

Luci della mesmeria, fascino simbiotico con lunari risorgimenti fluidi di scolpite nerità or rilucidate d’abrasioni e turbinio ipnotico. Come lievitazione che scardina il dogmatismo di scienze fasulle, di psichiatrie mortifere a eclissare la misterica Notte accesa dell’ergersene nei mantelli di porpora.
“Incuneato” d’inquadrature rosseggianti, (anti)gravitazionali, spasmi cerulei e levigati, ossidati nel traslucido ossigeno “claustrofobico”, vigorie tese, “pericolanti” e tremebonde della pietra corrosa alla sua stessa “fonte” radicata e illusoriamente non scalfibile, abbacinate da occhi luminescenti e veggenti, increspati nell’eremitica pietra adamantina d’una mente infrangibile, vinta sacralità ai giochi “folgoranti” delle traiettorie “accertate” o d’acclarare ancora per dipanare e oscurare l’enigma, obnubilandolo d’aloni “ciarlatani”. Con le ciarliere, “dotte” e scaramantiche “grandi menti”, sì, “cartelle cliniche” della superstizione più inquisitoria, il “diritto alla ragione” che (s’)autoinganna, scheggiata dai dubbi latenti d’apparizioni inspiegabili, di folgorazioni che annusan e sospirano, “docili”, l’equilibrio oscillante del sonno tranquillo, lì a vacillare, graffiato nei polmoni, sfiorato dal cape fear d’un fantasma ricomparso a cospargerti di “smorfia” delicata e indecifrabili rebus a manipolare solo l’ottusità che t’ha avvinto a combatter le impreviste incognite, le tue notti meno fulgide, schiarito proprio dai tetri “corridoi” sinaptici dell’anfratto e dei labirinti, serpeggianti nella profondità meandrica, “ossidrica”, virgulta e propulsiva d’un pozzo buio “invisibile”, che asfittico or, felpatamente, t’avvinghia nel precipizio vulcanico e radente dei suoi crateri più imperscrutabili. Più “scricchiolanti”, indomabile potenza dei fuochi onirici.

Un’indagine “allarmantissima” a sfidare l’attività paranormale “tellurica”, la magnitudo d’un magma magniloquentissimo, “sepolto vivo” a respirar fra le anime, che giaceva “infernale” ove tacque, dunque “tacciabile”, ascrivibile alla sferica presunzione adesso (p)unta di “punte di piedi” che si sollevan da terra, navigan di libertà nella cerebrale piattezza che sbanda e sobbalza, atterrita, allucinante, lacerantissimo timore che sovrumane energie imbattibil sian riscoccate a intorbidire il fuoco “corvino” della tua, sì, demoniaca torpidezza. “Leggerissime” brezze a scotere la lenta aderenza, la veste che si scuce, che si strugge sconfitta nel suo banale, bugiardo pregiudizio.

Titani e giganti, un impercettibile “squittio” che ti fischietta nelle orecchie, abbranca il tuo “brancolar”, di “branchi” e apnea irrespirabile dell’esser-ten(u)e ammorbato e invischiato, forza su, sei vicino all’insostenibile “verità” tanto da bruciarti perché “sorretto” sommerso solo (te)nagli(e) abissi della stolta lentezza.

A tesser teorie, la pratica si rivela surreale e grottesca, un arabesco urlo che ti morsica e mozza la coda.
Singhiozzi, “sgozzato”.

Catapultato nel peggior incubo della tua fantasia ribaltata.
Purpureo boato!
Rosso ora tenero, color “Tenebra”.
Ora Luce.
Ora vita!

Una presenza amletica, un De Niro argentato di statura leviatana, riemerso sì da un’isola sua perduta, l’ululato com’Egli recita nel monologo spettrale “a tendina” di penombre vibranti di red, nel “candelabro” della sua essenza evanescente. Lì a “godersi” la solitudine, le intuizioni generate dall’animale, grande Uomo al buio ch’è arrabbiato perché derubato proprio della sua anima, la rubina vitalità al Mondo e alla Luce. Che vuol riscoccare ardimentoso, bruciando l’ignoto dell’ottusità.
Sta lì, triste, e “sonnecchia” le imperiose ma soffici battute d’una sceneggiatura che le scandisce proprio come una seduta spiritica, ove nasce e zampilla grande Cinema quando meno te l’aspetti, nell’imprevedibilità che sembrava solo un effettistico gioco di maniera come tanti thriller.
Invece no, dietro il banale “giochetto” degli specchi, Cortés ribalta le carte con un’accortezza, un sottilissimo acume che si taglierà, laceratissimo e quindi davvero illuminante, proprio nell’eccellente, “eccessivo”, grottesco e malinconico finale che ha spiazzato molti spettatori e critici, che l’han reputato “distonico” rispetto alla messa in scena di tre quarti della pellicola (s)collegata. Dunque “sconnesso”.
La sua “follia” esagitata vige e svetta invece proprio nel proclama di Simon Silver (De Niro), ectoplasma focoso e “sfocato” di zoom, che osserva beffardo la platea e provocatoriamente la irride, turb(in)ando in gloria di sé, “accecato” fra le luci rosse, quei miracoli (in)decifrabili che nessuna Scienza può razionalmente “obliterare” e sigillare nel “vitro” delle spiegazioni logiche.

Un film straordinario, che apparirebbe solo a uno spettatore comune (altro “ammiccamento” non furbo di speculare sofisticatezza) solo un vezzo dell’intrattenimento più previsto.

Una Sigourney Weaver che, dopo tanti ruoli inutili, anonimi e assolutamente non necessari, trova in questo fenomenale regista spagnolo la “verve” intellettuale del suo fascino più carismatico. La Weaver mette soggezione, ecco, l’aggettivo più appropriato quando una Donna e un’attrice così compare sullo schermo è proprio “Soggezione”.
E il ruolo della dottoressa Margaret Matheson, colei che non si lascia “impressionare”, ma “arresta” gli “imbonitori” e i falsi maghi, calza a pennello perfettamente attorno all’allure della Sigourney in quanto femminilità elegante da mettere i brividi.

Rodrigo Cortés sa che il Cinema è spesso una fitta rete “neuronale” di connessioni sinaptiche, anche involontarie o rimosse, col suo fitto dedalo d’immagini (in)visibili, al sembiante comunemente inteso, intessuto o frainteso, i “malintesi” del ricordo di ciò che ci costruimmo “hitchcockianamente” di un’icona, all’idea che abbiam maturato, anche inconsapevolmente, sugli attori. E il suo casting azzecca tutte le mosse della nostra “finta amnesia”. La Weaver ma anche un bravissimo Cillian Murphy, inception fuggevole, e poi Lui, Robert De Niro, a cui cuce di “smoking“, e di “smog” ipnotico delle nebbie risorgimentali dal buio, l’enigmatica anima di Silver. Un “buffone” tanto serio da far(ci) credere che non stia scherzando. Ché, dietro la “montatura” degli occhiali da veggente “cieco”, potrebbe nascondere davvero il lupo ibernato che sbrana l’imperante ottusità miope della società. Quindi, Cortés regala a De Niro la monumentalità della sua magnetica potenza sco(r)data ma indimenticabile.

Cortés scardina anche le attese medie e imbastisce di “crespi”, “lacrimogeni” e fumosi frame, sincopate e tese battaglie mentali di “ferite “visive, un finale in cui il sensitivo è proprio colui che ha voluto sempre offuscare l’evidenza della sua (para)normalità.

Margaret Matheson, quasi nell’Incipit, fissa gli occhi di Tom Buckley (Murphy) e gli rivela forse già la verità di chi sta celando di essere e (non) sembrare?:

Esistono due tipi di persone con un dono speciale, quelli che credono davvero di possedere un certo potere e gli altri, quelli convinti che noi non riusciremo a scoprirli. Sbagliano entrambi…

Un ambiguo monito a divorarlo dentro di coscienza?

Perché Tom Buckley, sotto la rain della (sua) rivelazione, è l’ego in-conscio che “narra(nte)” la sua voce del Cuore innalzata del non puoi negare te stesso per sempre…

Come tutti (non) scopriranno di (non) viver(si).

(Stefano Falotico)

 

   Stefano Falotico, traspirando in Cillian Murphy, d’elevazione intessuta nella coscienza eccelsa, recensisce e osserva “foscamente” il fascino d’un film per pochi eletti, addivenendo alle sue ragioni ermetiche, “squagliate” nel mesmerico grido dell’ignoto, della Notte, dell’abrasione sensitiva alla poderosa, “infuriata” energia che scaturì da forze incontrollabili, a divellere la Luce di rosso!

 

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