Racconti di Cinema – Non è un paese per vecchi di Joel ed Ethan Coen, con Javier Bardem, Tommy Lee Jones e Josh Brolin

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Ebbene, Non è un paese per vecchi (No Country for Old Men), scritto e diretto da Joel & Ethan Coen. Film vincitore di quattro Oscar pregiatissimi, Miglior Film, Miglior Regia, Miglior Sceneggiatura non Originale, Miglior Attore non Protagonista (Bardem). Della durata di due ore e due minuti, tratto dall’omonimo libro di Cormac McCarthy.

Davvero quindi il capolavoro che, forse, assieme a Il petroliere, è il più titanico film in assoluto del 2007?

È stato presentato in Concorso al Festival di Cannes, non vincendo niente. Crescendo immensamente nel tempo, sbancando appunto agli Academy Award. Esaltando la Critica mondiale, elevando in auge nuovamente i Coen dopo le controverse pause interlocutorie dei leggerissimi film immediatamente antecedenti che avevano parecchio scontentato e lasciato perplessi quasi tutti. Facendo impazzire gli spettatori. Assurgendo a cult inderogabile già alla prima visione, divenendo sin dapprincipio un classico intramontabile, pietra miliare coeniana per antonomasia e una delle pellicole più importanti degli anni duemila.

Siamo sicuri che sia realmente così o Non è un paese per vecchi, rivisto con maggiore lucidità e col senno di poi, è invece un’opera sopravvalutata a dismisura?

Paolo Mereghetti col suo biblico Dizionario dei film, ha rivalutato, ad esempio, appieno Non è un paese per vecchi, assegnandogli tre stellette e mezzo, ma nel suo editoriale del Corriere della Sera, in data 22 Febbraio 2008 (giorno della sua release italiana), fu assai più moderato nel giudizio, esprimendo non più di una sua riserva in merito all’effettiva nomea di capolavoro che la Critica, soprattutto statunitense, all’unanimità gli aveva secondo lui appioppato con troppa entusiastica superficialità…

Queste le sue testuali parole all’epoca: l’incontro tra i fratelli Coen e il romanzo di Cormac McCarthy Non è un paese per vecchi (pubblicato in Italia da Einaudi) non era così scontato come poteva sembrare. E non solo perché i due registi americani non erano mai partiti per i loro film da un adattamento letterario (con l’eccezione di To the White Sea di James Dickey, sceneggiato e però mai realizzato), ma perché il romanzo alterna capitoli «oggettivi», con lo svolgimento della storia, ad altri «soggettivi», con le riflessioni in prima persona dello sceriffo Bell, instaurando un doppio registro stilistico che se funziona sulla pagina non è detto che faccia altrettanto sullo schermoIl film che ne è uscito, presentato lo scorso maggio al Festival di Cannes dove non vinse nessun premio, rialza notevolmente il livello di una carriera che con gli ultimi due film (Prima ti sposo poi ti rovino e Ladykillers) era scivolata verso una routine piuttosto corriva ma non è quel capolavoro di cui molti hanno parlato…

Questa follia che si ribalta immediatamente nell’umorismo più assurdo per ridiventare immediatamente follia è sicuramente la cosa migliore del film, quella che i Coen padroneggiano con gusto più personale, e che è all’origine di alcuni «ritratti» indimenticabili, dall’ingenuo aiutante dello sceriffo (Garret Dillahunt) alla guardia di frontiera reduce dal Vietnam (Brandon Smith) al killer «educato» ed elegante (Woody Harrelson) e che aiutano a trasformare un film apparentemente di genere in una specie di moderno «romanzo americano» (la storia si svolge nel 1980), dove il crepuscolo dei miti fondanti del West dovrebbe trovare il suo definitivo e antieroico canto funebre.

Dico dovrebbe perché è proprio questa la parte che convince meno. Nel passaggio dalla casualità degli eventi al tentativo di leggervi una qualche lezione più generale, il film perde il suo andamento lineare, la metafora si appesantisce e la proverbiale leggerezza dei Coen, con il loro gusto ai limiti del cinismo capace di sorprendere lo spettatore e spiazzarne le aspettative, rischia di deragliare.

Si sente come una specie di «imperativo categorico» della morale a tutti i costi, l’obbligo didascalico di introdurre nel film discorsi che nel libro funzionano ma che sullo schermo finiscono per stonare, trasformando le riflessioni a voce alta dello sceriffo in una lezione di morale magari giustificata ma sicuramente intrusiva.

Ho estrapolato solo alcuni estratti esemplificativi non dico della sua parziale, sussiegosa stroncatura ma almeno della sua opinabile opinione abbastanza in disaccordo con l’intellighenzia di allora che lo definiva, senza batter ciglio, istantaneamente un film intoccabile. Un irrinunciabile capodopera, una basica tappa fondamentale e ineludibile della filmografia dei Coen.

Adesso invece, come detto, Mereghetti si è ampiamente ricreduto e, nell’ultima edizione del suo vademecum recensorio, indiscutibilmente elogia ed esalta addirittura l’opera dei Coen con esattissimi, inconfondibili termini magnificanti, chiedendo implicitamente scusa per il suo severo abbaglio e perfino sacramentando che a suo avviso è ovviamente il grande film che tanto impressionò, appunto, Critica e pubblico ai tempi della sua sfavillante uscita nei cinema. Ma non concedendogli le 4 stellette piene per puro fondamentalismo personalissimo e inserendo la sua consueta nota un po’ beffarda, tagliente e scettica riguardo all’affibbiatagli effettiva patente di masterpiece totale, chiosando infine con una sorta di postilla impudente secondo cui il film, a parer suo, ha qualche elemento moraleggiante di troppo che lo sciupa e altera  quel po’ bastante per deprivarlo e sminuirlo rispetto alla sua fama di pellicola apoditticamente perfetta e irrecusabilmente ineccepibile che gli altri critici, forse troppo cerimoniosi e timorosamente reverenziali, gli hanno universalmente, prematuramente conferito con esagerata, inviolabile grazia, inflessibile e forse irriflessiva.

Noi invece che ne pensiamo? Permettetemi questo plurale maiestatico. Perché so che empaticamente condividerete questa mia disamina.

Capolavoro è una parola della quale secondo me si abusa. Certamente, ciò è lapalissiano, si tratta di un filmone. E sarebbe scioccamente snobistico e stoltamente arrogante non considerarlo tale. Chi vuol smentire che sia un filmone, be’, chiaramente soffre d’incurabile alterigia alquanto insolente e imperdonabilmente screanzata. E dunque non va ascoltato. Ma con vigorosa forza rinnegato e respinto a iosa. Queste pose di siffatte grandigie son sempre disturbanti, inducono a un profondo malessere, pari quasi a quello che ne sortisce nell’assistere a Non è un paese per vecchi. Un film radicalmente pessimista, perfino scatologico nella sua poetica drasticamente secca e cosmicamente nichilistica, un film che fotografa la mortifera, illimitata aridità più barbaramente egoistica dell’uomo nel suo squallore nudo e crudo. Un’aridità non filmica, ovvio. Una superlativa, glaciale panoramica di paesaggi brulli e spogliamente infecondi, ove pullula ma soprattutto vegeta un’irrimediabile, costernante, desolante umanità allo sbando irreversibilmente malata, ove il male, sovranamente, regna indomabile e quasi innominabile perché, paiono dirci potentemente i Coen, il male non si può eludere sebbene lo si schivi, non lo si voglia vedere o pronunciarsene, è alla base irrevocabile della feroce società americana, a sua volta figlia di padri sterminatori che brutalizzarono d’eccidi abominevoli gli indiani, i pellerossa, ove i pionieri di questo brutale mondo sregolatamente perverso massacrarono l’innocenza ancor prima che potesse nascere, fiorire e fertilizzare le anime pure di chi, ingenuo e dunque innatamente sconfitto, s’era illuso che non fosse così. Di chi, stolto, aveva creduto che gli States fossero davvero l’indivisibile, invidiabile, unita e orgogliosamente libera patria del grande sogno americano. Smembrato invece nelle sue stesse radici da una mefitica natura umana predestinata alla perdizione, all’oscenità animalesca enucleatasi nella violenza più brada. Perché, per sopravvivere in questa terra di lupi affamati e di persone bestialmente contaminate, spregevolmente mannare, rovinate dall’avidità appunto licantropa, in questo mondo di cagnacci bavosi, ringhianti e sanguinosi, devi chiudere un occhio e lasciar che il panta rheî invincibile di tal abietta (r)esistenza virilmente e vilmente dannata venga estirpato dal tempo fatale che seppellirà le mostruosità in una coltre d’apparente, illusoria, consolatoria dimenticanza bugiarda ma inesorabile. Perché il male, volenti o nolenti, per quanto tenteremo di castigarlo, tentacolare tenterà altra gente, si rigenererà e si propagherà contagioso, a proliferazione nullistica di un morbo radicato eternamente nel depravato cuore di noi tutti uomini malvagi, creature orribili e insalvabili, dissolute, selvagge e fintamente addomesticate. Menzognere nel pensarsi savie e serenamente immuni al fascino imbattibile della nostra inevitabile natura cattiva, infida, infame e perfidissima.

Trama…

L’onesto cacciatore di cervi, Llewelyn Moss (Josh Brolin), rinviene una valigetta piena di dollaroni fruscianti, sotto un albero (forse l’albero della cuccagna di collodiana memoria), ai piedi di un uomo brutalmente ucciso. Dopo che, in uno spiazzo nel deserto, aveva già visto altri uomini morti ammazzati in seguito a uno scontro fra bande rivali per una partita di droga.

L’uomo non sa dove nascondere la preziosa refurtiva e scappa incoscientemente lontano dalla sua bella per celare la valigetta laddove nessuno potrà scovarla.

Ma, all’interno della valigetta, a sua insaputa (e lo scoprirà troppo tardi), v’è posizionato un congegno elettronico, una sorta di cercapersone con un led a intermittenza, attraverso il quale lo spietato killer sadico Anton Chigurh (Javier Bardem) può monitorarne gli spostamenti e individuarne la precisa ubicazione.

Anton capisce presto che la valigetta è ora nelle mani di Moss, e fra loro sarà una lotta senza esclusioni di colpi, fin all’ultima, terribile pallottola.

Intanto, il disincantato sceriffo della contea, Ed Tom Bell (Tommy Lee Jones), voce narrante del film e personificazione granitica e rugosa della vecchiaia più amaramente rassegnata all’immisericordiosa ineluttabilità della vita nel suo irrisolvibile putrefarsi e nella crudeltà infinita a sigillarsi e pietrificarsi, come un missionario cristiano s’insignisce dell’utopico compito di far giustizia fra i due inarrendevoli, efferati contendenti del malloppo… Forse fa ciò soltanto per far sì che, all’interno della sua anch’essa già inquinata e traviata coscienza, possa estemporaneamente brillar l’opaco, stupido alibi che la sua vita moralmente retta sia essere servita a qualcosa o a qualcuno, a dare una minima speranza alla generazione dei suoi e nostri figli, a emanazione di un fioco barlume d’illuminante salvazione in un luogo maledetto da dio. Ad abbagliare, per un infinitesimo attimo, il rapace, nero crepuscolo cupamente spettrale della notte più pallidamente funerea.

Non è un paese per vecchi, signore e signori. La summa dei Coen, una specie di Fargo in salsa ancor possibilmente più atroce e tetra. Lì vi era la neve colorata di sangue color porpora vivissimo, qui ci sono le praterie e i tramonti rosseggia(n)ti di millimetrica suspense e silenzioso, poi esplosivo terrore. L’altra faccia della medaglia de Il grande Lebowski. In fondo, Lebowski chi era se non un fancazzista sognatore talmente disilluso, immiserito e privo d’ogni ambizione, ossessionato e perseguitato da fascisti nichilisti che minacciavano di castrarlo? Uno che è divenuto, talmente deluso da tutto, paradossalmente un idealista romanticone con la testa fra le nuvole. Uno che, avendo enormemente sublimato ogni cattiveria, pettegolezzo e orrore fradicio del mondo lercio e sporco, vive idilliacamente ai confini della meravigliosa follia più limpida e colorata. Un tipo annullatosi per godere di ogni momento di felicità, disinteressandosi delle rivalità fratricide, del potere e delle macchinazioni infime di chi ti guarda dall’alto in basso.

Anton Chigurh, nell’interpretazione maestosa di un terrificante Javier Bardem, è l’evoluzione negativa di Lebowski. Un altro che si è elevato, però in peggio. Si è innalzato nell’abisso della psicopatia totalmente menefreghista e omicida nei confronti di chicchessia, uno che per noia ammazza anche gli animali senza provar alcun senso di colpa o compassione. Più che un mostro, un raccapricciante fantasma. Tant’è vero che, nella stupenda scena dell’inseguimento fuori dal motel ai danni di Moss, non si capisce da dove spunti e da dove spari. Anzi, i suoi spari paiono provenire dalla direzione opposta rispetto a dove dovrebbe trovarsi. Come fosse una velenosa ombra strisciante, una serpe malevolmente ubiqua. Un babau invulnerabile che appare quando meno te l’aspetti, quando pensavi di essergli scampato. Che invece continuerà testardamente a cacciarti per trafiggerti con furia freddissima nello spappolare, trivellare e uccidere in un batter d’occhio ogni tuo residuo sogno di vita.

Non è un paese per vecchi è insomma un western, con l’impressionante fotografia di Roger Deakins.

L’infernale Quinlan ha trovato finalmente il suo corrispettivo del nuovo millennio.

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di Stefano Falotico

 

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