Roma di Alfonso Cuarón, recensione

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Ebbene, vincitore del Leone d’oro alla 75.ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, da venerdì scorso, 14 Dicembre 2018, è disponibile, dopo il suo brevissimo passaggio anche nelle sale, il tanto incensato e magnificato Roma di Alfonso Cuarón.

Quasi unanimemente definito il film più bello dell’anno, un capolavoro irrinunciabile.

Ecco, non voglio certo essere io a smentire l’intellighenzia della Critica che così bello l’ha giudicato in modo assolutamente, uniformemente concorde.

Secondo me, Roma non è affatto un capolavoro. Un ottimo film, ovviamente, ma non vi ho visto nulla che mi abbia fatto gridare al capodopera imbattibile di cui, in questi giorni, chiunque si riempie la bocca.

Roma è un perpetuo, insistito, ammirevole fellinismo (e ogni riferimento all’omonimo film di Federico Fellini, appunto, non è affatto casuale) privo di vero pathos, un egregio, finissimo lavoro del factotum Alfonso Cuarón, per l’occasione anche direttore della fotografia e montatore oltre che produttore, sceneggiatore e via dicendo, a mio avviso però sterile e anemico dal punto di vista visceralmente emozionale.

No, non è blasfemia la mia, affatto, è pura, personale, disinteressata obiettività.

Roma mi ha visivamente contagiato e ammaliato, son rimasto estaticamente ipnotizzato nel guardarlo, contemplandone la sua perfezione stilistica, l’uso spericolato, fluido, leggiadro, morbidissimo della lieve macchina da presa nel suo scroscio danzante fra lucidissimi, quasi patinati fotogrammi cesellati con sontuosa, avvolgente cura seducente per ogni dettaglio incantevole.

Ma ripeto, a livello prettamente emotivo, l’ho trovata una pellicola invero assai povera d’idee, noiosa, soporifera, congestionata dal limite, abbastanza evidente e innegabile, che il buon, scaltro Cuarón abbia voluto, programmaticamente, ideare e confezionare Roma al solo fine, lodevole quanto al contempo desolante ed egomaniaco, di realizzare un film da premi e riconoscimenti.

La classica opera, apparentemente intoccabile, inattaccabile, talmente intrappolata dalla rilucenza della sua potenza incantatrice, da lasciarmi inappagato.

Roma è il tipico esempio di film immediatamente sopravvalutato dai falsi intenditori di Cinema. Che, fatalmente sedotti, appunto, dal suo involucro tanto maliardo e cupidamente accattivante, hanno perso poi di vista l’essenza stessa del concetto profondo di Arte.

Perché Roma non è un film artisticamente elevato. È semmai, e non è mai un complimento, un film altamente arty. È cioè un film tanto esteticamente raffinato che potrebbe indurre molte persone, com’è infatti puntualmente avvenuto, a scambiarlo per qualcosa di più di ciò che invero è.

Roma non è un grande film. È un film malato di piacevole estetismo. Non è estetizzante alla maniera, alle volte insopportabile, che ne so di un Sorrentino, ma per certi versi, in questo grondante, suo sfacciato ed esibito, luccicante flusso d’immagini formalmente impeccabili, lindamente nitidissime, rimane purtroppo un evanescente, infecondo film che nasconde, dietro l’adescante stratagemma dl porsi come un adorabile oggetto ludicamente meraviglioso a vedersi, un’inconsistenza pressoché lampante.

La storia è semplicissima…

Siamo nel quartiere Roma di Città del Messico. Quindi, niente a che vedere con la nostra capitale e neppure, almeno dal punto di vista dell’ambientazione, col film di Fellini. Per quanto concerne invece, come già espresso, gli stilemi e le atmosfere à la Amarcord, è felliniano in tutto.

E seguiamo (assistiti in ciò, ribadiamolo, dalla mobilissima cinepresa svolazzante ed energicamente ondeggiante di Alfonso Cuarón) la vita di tutti i giorni di una famiglia borghese ma, in particolar modo, il nostro regista si addentra nel punto di vista, quasi lo spia ed enuclea, della loro domestica, la mixteca Cleo (Yalitza Aparicio).

La quale, durante la proiezione al cinema di Tre uomini in fuga (La grande vadrouille) con Louis de Funès, confida al suo fidanzato di avere il timore di esserne rimasta incinta. Il ragazzo, un po’ scosso dall’allarmante, inaspettata notizia, si allontana, va in bagno e lascia Cleo tutta sola…

Scopriamo poi che Cleo non si sbagliava. Dopo un’accurata visita medica, sì, le viene detto che, in effetti, non ha più da tempo il ciclo perché sta aspettando una bambina.

A quel punto Cleo ha paura di venir licenziata dalla sua padrona.

E fra haciende, riunioni familiari, incendi notturni nel bosco, un Capodanno di pasciuti uomini e donne annoiati che ballano sfrenatamente per dimenticare le loro frustrazioni, e l’attesa per il Corpus ChristiRoma scorre piattamente, incollandosi al volto malinconico e perduto della povera Cleo.

Con alcune reminiscenze perfino de L’infernale Quinlan.

No, Roma non è un capolavoro. E nemmeno gli si avvicina.

Non basta la classe, il fascino ammaliatore d’immagini stupende a far sì che possa essersi meritato di vincere il Leone d’oro e, con molta probabilità, ahinoi, anche il possibile Oscar.

No, avete preso un grosso abbaglio.

E dunque, ancora una volta, nonostante le sue spropositate ambizioni, Alfonso Cuarón, personalmente, è da me considerato nuovamente il regista più sovrastimato del mondo.

Sì, il suo Paradiso perduto fu davvero roba inguardabile. E parlo da fan sfegatato di De Niro. Dopo vent’anni, non cambio, mi spiace, il mio giudizio su Alfonso Cuarón. Che, dunque, reputo già come a quel tempo, al di là di ogni ragionevole dubbio e ripensamento, tuttora un regista mediocre. Forse leggermente migliore rispetto a due decadi or sono. Ma non di molto.

E che non posso annoverare, a differenza di voi, fra i maestri. Per niente.

Roma. Un bel film.

Sarebbe stato, forse, un capolavoro se avesse sin dall’inizio osato come nella magnifica, questa sì, tragica scena del parto e in quella prefinale, con la tragedia sventata dall’incolpevole, commovente Cleo.

Qui il film realmente si alza in cielo e poeticamente prodigioso sfiora la vetta di opera dal valore supremo, assoluto. Ma non basta la mezz’ora finale, potente, per riscattare un film sostanzialmente inerme.

Sono stato troppo lapidario? Questo sono io.

 

 

di Stefano Falotico

 

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