Il nome della rosa con Sean Connery, recensione

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Ebbene, in concomitanza con la messa in onda della fiction RAI Il nome della rosa di Giacomo Battiato con John Turturro e Rupert Everett, quale occasione migliore, per tornare a parlarvi più approfonditamente della riduzione cinematografica del 1986 firmata dal regista Jean Jacques-Annaud e interpretata da Sean Connery?

Sì, ve ne avevamo già inevitabilmente, ampiamente accennato nelle recensioni dei singoli episodi della serie televisiva, attualmente in programmazione, con Turturro.

Abbiamo dunque rivisto, con maggiore oculatezza ed esegetica attenzione, appunto, Il nome della rosa di Annaud.

Il nome della rosa con Sean Connery, il cui titolo originale è Der Name der Rose (infatti trattasi di una produzione italo-franco tedesca finanziata fra gli altri dal compianto, lungimirante produttore Franco Cristaldi), è una pellicola della notevole durata di due ore e dieci minuti, uscita nei cinema italiani il 17 Ottobre, come detto, dell’86, sceneggiata da Andrew Birkin, Gérard Brach, Howard Franklin e Alain Godard che hanno, ça va sans dire, trasposto in parole il celeberrimo romanzo di Umberto Eco.

Attenzione, però. Eco aveva concesso i diritti della sua opera per questa versione allestita da Annaud ma il film, pur rispettando in gran parte, ovviamente, la trama del romanzo, è stata un’autonoma trasposizione del bestseller. Poiché, per ovvie esigenze logistiche di minutaggio, ha volutamente tralasciato, compresso e tagliato molti segmenti importanti del libro, appiattendo e sorvolando apposta su tutte le parti speculative del romanzo, lunghe ma necessarie, indispensabili per poter comprendere appieno il lavoro semantico di Eco. Il quale, pretestuosamente e con scaltrissima furbizia, aveva scritto una sorta di appassionante noir, gelido e tenebroso, ambientandolo nell’oscurantistico medioevo. Cioè, aveva orchestrato, con sapientissimo ingegno e finissima cultura enciclopedica e teoretica, un thriller a regola d’arte, congegnato e mascherato in forma di giallo alla Agatha Christie, palese scusante ed escamotage commerciale al fine d’intrattenere il lettore e avvinghiarlo magneticamente nella sua ordita trama avvincente, per sviluppare invero, parallelamente, un’analitica riflessione, dotta ed erudita, sul libero arbitrio e sui misteri arcani della condizione umana.

Cosicché gli sceneggiatori del film, estrapolando quasi esclusivamente soltanto la trama, pressoché fedele al testo, pur con le dovute differenze e quegli aggiustamenti occorrenti alla doverosa stringatezza adattiva dell’opera in ambito cinematografico, son stati costretti a omogeneizzare quasi tutti i sotto-testi filosofici e storici che erano e sono la colonna portante del capolavoro letterario di Eco.

Il nome della rosa, così facendo, se ne ha giovato in termini di entertainment e coinvolgimento emozionale, naturalmente ne ha risentito, non poco, in profondità introspettiva.

Detto ciò, è stato il film campione d’incassi in Italia della stagione. Piazzandosi al primo posto del box office. E tutt’ora, a distanza di più di trent’anni dalla sua release, ottiene sempre ottimi ascolti nei suoi passaggi televisivi.

A evidente dimostrazione che, malgrado non sia, come detto, una versione purista del testo di Eco (anzi, così come chiaramente recitato ed esplicitato nei titoli di testa, non si tratta di un adattamento, bensì di un “palinsesto”), è un film largamente apprezzato dagli spettatori di ogni generazione.

Un film di tale successo e potere, oserei dire, subliminale da aver indotto molti spettatori, profani dell’opera di Eco, a credere ingenuamente davvero che il protagonista principale del manoscritto stesso di Eco, cioè Guglielmo da Baskerville, fosse Sean Connery. Assurdo, vero? Dunque, allettati dalla sua iconica, magnetica performance carismatica, hanno soltanto successivamente comprato il libro e, leggendolo, hanno veramente creduto che il Guglielmo descritto da Eco altri non fosse che James Bond canuto in persona, sotto gli abiti d’una tonaca claustrale. Eh già.

Ah, la magia del Cinema cosa può fare…

La trama la conoscete tutti e non ci soffermeremo, più di tanto, a riferirvela minuziosamente se non riportandovene qui i suoi più incisivi e salienti tratti…

L’incipit, attraverso la matura voce narrante e penetrante dell’indimenticato Riccardo Cucciolla che incarna l’oramai vegliardo co-protagonista Adso da Melk (Christian Slater), introduce a mo’ di analessi i misteriosi e spaventevoli accadimenti occorsi in un’abbazia del nord dell’Italia nell’anno domini 1327.

Anno nel quale Adso era solamente un giovanissimo novizio ai servigi del suo maestro e mentore, il frate francescano Gugliemo da Baskerville (Sean Connery).

Adso e Guglielmo giungono a cavallo ai piedi di un monastero presso cui hanno chiesto ospitalità. Guglielmo è stato incaricato dall’abate Abbone (Michael Lonsdale) d’indagare in merito ad alcune morti assai sospette avvenute durante la notte nell’abbazia. Che vengono superstiziosamente addebitate al maligno.

I morti, fra pallide lune piene e voraginose, fra tetri scriptorium e ingannevoli amanuensi monaci benedettini, fra verità celate, oscuri presagi, complotti e furbi cellari spettrali, fra ciechi e gobbi eretici, fra discussioni teologiche sul riso e sulla poetica di Aristotele, nel frattempo aumentano orridamente.

Intanto, Adso s’innamora di una fanciulla senza nome (Valentina Vargas) con la quale ha consumato un amplesso selvaggio. E si aspetta l’arrivo della delegazione inquisitoria presieduta dal temibile e potente Bernardo Gui (F. Murray Abraham).

Come andrà a finire?

Ecco, dobbiamo essere sinceri. Il nome della rosa, pur riconoscendo che è indubbiamente la miglior pellicola di Annaud, cineasta di alterne fortune, nonostante la nomea di grande film che si porta dietro, rivalutato col senno di poi, no, grande film non lo è affatto. E appare oggigiorno un po’ datato.

Gran parte del successo del film, assai banale non poche volte, si deve in realtà all’efficace e suggestiva scenografia di Dante Ferretti, ai costumi curatissimi di Gabriella Pescuscci, alla fotografia chiaroscurale, a lume di candela, specie nelle scene notturne, di Tonino Delli Colli.

E regge parecchio sul fulgore e il carisma, come già scritto, d’uno Sean Connery d’annata che, sebbene fosse già pelato e con vistosissime rughe sulla fronte, era allo zenit del suo carisma e splendore attrattivo.

Erano anni mirabili per Sean. All’apice del suo fascinosissimo, elegante sex appeal virile e della sua totale maturità espressiva. L’anno dopo avrebbe infatti vinto l’Oscar per The Untouchables di Brian de Palma, poco dopo sarebbe stato il padre di Harrison Ford in Indiana Jones e l’ultima crociata e, nel 1990, avrebbe dato vinta a un’altra delle sue prove più magistrali, trascinanti ed epocali, quella del fiero capitano Marko Ramius in Caccia a Ottobre Rosso di John McTiernan.

Altresì va detto che noi spettatori italiani, probabilmente, siamo stati ammaliati da Connery ancor più del suo reale valore attoriale. Perché, almeno ne Il nome della rosa, riascoltato con la sua voce originale, paradossalmente perde parecchio senza il doppiaggio eccellente e storico di Pino Locchi.

Il nome della rosa con Sean Connery rimane, comunque, un bel film anche se sopravvalutato.

Dobbiamo inoltre essere onesti sin in fondo. Riguardato ora, se mettiamo a paragone l’interpretazione di Sean Connery con quella di John Turturro, a conti fatti, ammettiamo che quest’ultimo non sfigura affatto rispetto a Sean e ha saputo incarnare Guglielmo da Baskerville perfino con una più calibrata e fine sordina che era invece assente nella prova torreggiante e sin troppo imponente, quindi forse eccessivamente divistica, di Connery.

Fra le curiosità del film, certamente è da menzionare il fatto che, prima di Connery, per la parte di Guglielmo era stato preso in seria considerazione Robert De Niro.

E che la frase finale, pronunciata da Cucciolla, non rispecchia assolutamente il significato del libro.

Il nome della rosa, ovvero, non è il nome della fanciulla, così come in questa versione di Annaud ci viene fatto credere, bensì sottintende rimandi medievali ben più complessi e metaforici.

di Stefano Falotico

 

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