Highwaymen, recensione

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Ebbene, pochi giorni fa, cioè lo scorso 29 Marzo è sbarcato su Netflix, un po’ sotto silenzio, questo Highwaymen – L’ultima imboscata diretto da John Lee Hancock, regista di The Blind Side, di Saving Mr. Banks e del recente The Founder.

Sceneggiatore, non dimentichiamolo mai, di Un mondo perfetto e di Mezzanotte nel giardino del bene e del male di Clint Eastwood.

Un cineasta che però non riusciamo bene a identificare perché il suo percorso autoriale se da un lato omogeneamente persegue istanze e stilemi piuttosto coerenti, in quanto insistentemente e in modo puntuale il suo cinema s’inoltra, come una sorta di serpentesco, teoretico cantico filoamericano indissolubile, all’interno d’una fascinosa esplorazione svelatrice delle pieghe nascoste o epocali, pionieristiche oppure semplicemente storiche degli States, d’altro canto fatica a compattarsi e battezzarsi, potremmo dire, in modo marcatamente incisivo entro una poetica e uno sguardo che sinceramente c’appaiono sin troppo elegiacamente, morbidamente innocui e spesso soporiferi.

Tale da indurci a credere che Hancock non sappia bene ove instradare le sue prospettive visivo-diegetiche.

E, appunto, anche con quest’ultima sua pellicola, targata Netflix, interpretata dall’inedito duo dei veterani Kevin Costner e Woody Harrelson, non smentisce la sua ambigua nome di metteur en scène stilisticamente carente di nettezza, oserei dire, persino figurativa. Un regista del quale intravediamo molti pregi ma che pecca, possiamo dirlo, di distinta e lucida compiutezza.

Lee Hancock ha attinto da un film mai realizzatosi che sembrava morto e sepolto, riciclando una vecchia sceneggiatura di John Fusco dallo stesso Fusco riadattata a posteriori, uno script, per meglio dire, concepito per avere come protagonisti Robert Redford e Paul Newman, quindi rimaneggiato per colpa dei continui rimandi produttivi. Il cui inizio delle riprese si attardò infatti smisuratamente a concretizzarsi per colpa della sempre più incalzante vecchiaia galoppante dei due divi succitati e addirittura a causa della conseguente, inevitabile morte di Newman, fin a subire quella che pareva un’inesorabile battuta di arresto.

Di questo progetto, infatti, per molto tempo non si sentì più parlare. Poi fu opzionato dalla Universal che, successivamente, strinse un accordo con la major dello streaming per antonomasia, Netflix.

Che designò Costner e Harrelson come interpreti principali.

Rispettivamente scelti per incarnare i due realmente esistiti Texas Rangers ritiratisi a vita privata, Frank Hamer e Maney Gault. I quali, dietro l’insistenza degli agenti governativi alle dipendenze dell’intransigente donna di ferro Ma Ferguson (Kathy Bates), furono indotti piacevolmente, rispolverandolo le loro glorie arrugginite, a sgominare e catturare, probabilmente a uccidere (questo qui non lo riveleremo) i pericolosi, famigerati banditi Bonnie e Clyde. Che seminarono terrore in lungo e in largo, commettendo rapine, due inarrestabili malviventi che misero a soqquadro l’intero ordine costituito della Polizia di Stato. Passati tristemente alla Storia.

Highwaymen – L’ultima imboscata è un film forse troppo lungo. Con lentezze da sbadiglio facile ma è ben sostenuto dal solito ambiguo Harrelson e soprattutto da un ottimo Kevin Costner mai così però in sovrappeso.

Proprio lui, il liberale democratico per antonomasia, colui che ha sfoderato la sua migliore interpretazione attoriale di sempre, assieme al suo Balla coi lupi, proprio nei panni del mitico Butch di Un mondo perfetto (scritto, come detto, da Hancock).

Qui, appunto, esibisce un panzone da birra da lasciar stecchite, negativamente, le sue ancora numerosissime ammiratrici. E sinceramente, per quanto impeccabilmente, emani a tutt’oggi indubbio fascino, lanciando in sordina malandrine occhiate da ex piacione venerato dal gentil sesso, no, non riesce a profonderci sentita magia e a trasmetterci quei brividi empatici, oserei dire, epici che avevamo respirato per esempio col suo Ness di The Untouchables.

Nel succitato capolavoro di De Palma, come sapete benissimo, avevamo a che fare con un’altra leggendaria storia americana incentrata sulla coraggiosa cattura di Al Capone. Il re dei malviventi e il capo del banditismo. Eravamo nell’era del proibizionismo, su per giù la stessa narrataci in Highwaymen.

Parlavamo però, cinematograficamente, di più di trent’anni fa quando Costner era agli inizi del suo splendore carismatico.

Oggi invece, ahinoi, le rughe cominciano a essere vistose, la sua stanchezza la si avverte per tutte le due ore e passa del film. E Costner si trascina appesantito e stempiato tra highway desolate, caseggiati fatiscenti, locali malfamati, recitando battute che dovrebbero suonarci come memorabili e invece spesso vanno a vuoto.

Allora perché ho detto che Highwaymen si regge su Costner? Poiché, malgrado ciò o forse, paradossalmente, proprio in virtù della sua inesorabile, sopravvenuta canizie già ampiamente visibile, Kevin Costner è onestamente uno dei più grandi, fascinosi misteri del Cinema statunitense e mondiale.

È insomma un grandissimo, in un battibaleno ha avuto solamente la sfacciata fortuna di diventare, in quegli anni per lui prodigiosamente cruciali, un divo oscarizzato e amatissimo pressoché da tutti (tralasciamo gli invidiosi), oppure è un tipo che non ne ha più azzeccata davvero una da allora, un brocco belloccio che adesso imbrocca un film vincente dopo che ne ha sbagliati, nel frattempo, abbondantemente un casino?

Un attore e un regista, a suo modo, ritornato in sella. Che va avanti testardo per la sua strada, indovinando in verità anche roba decisamente interessante. Vedi il successo di Critica della serie Yellowstone.

Un torreggiante personaggio che arranca, sbadiglia, recita come un rottame e poi, sotto i baffi, anche quando è sbarbatissimo come in questo Highwaymen, ridacchia furbescamente, sapendo in cuor suo che di Kevin Costner, nel bene o nel male, ne nascono pochissimi. Sapendo che, al di là del suo immortale capolavoro già menzionato, Dances wit Wolves, è stato lui a firmare uno dei pochi, stupendi western degli anni duemila, il superbo Terra di confine – Open Range.

Highwaymen, spiace dirlo, non è niente di che. Anche se qualche volta, nel suo interminabile minutaggio, ci ha illuso che potesse essere un film indimenticabile come il penniano Gangster Story.

Sì, perché ci sono degli sprazzi perfino di grande Cinema in Highwaymen, addirittura attimi bellissimi in questa pellicola anacronistica, dalla fotografia piattissima eppur al contempo ammaliante, dai colori pastello, fluida e liquida coi suoi cieli nitidi, i suoi tramonti purpurei e vivissimi.

Ma è poco, davvero troppo poco per quello che poteva essere uno dei must di quest’inizio primavera e di questa stagione.

di Stefano Falotico

 

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