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Auguri di compleanno a Johnny Depp, che varca l’incredibile soglia dei 51 anni (?)

di Stefano Falotico

Rifletto che voi invecchiate e io no, cari animali impagliati

Rifletto che voi invecchiate e io no, cari animali impagliati

 

Sì, costui credo sia l’incarnazione del Faust di Goethe.

Balza all’occhio l’impossibilità della sua età anagrafica. Cinquantuno anni così “indossati”, be’, posso firmare per ottenere la sua “pelle?”.

Com’è possibile? Dio mio, che razza di perfetto Peter Pan ha creato sua madre (natura).

Tutti invecchiano, chi più chi meno. Una sorte ingrata che “sfigura” lentamente il viso, appaiono così inevitabilmente le rughe, il corpo imbolsisce, la stanchezza crepita nelle iridi d’occhi appisolati nel mesto ma inesorabile trascorrere pigro e triste del tempo purtroppo invincibile.

Invece, Depp, nato nel Kentucky il 9 Giugno del 1963, con all’attivo una pluripremiata e trentennale carriera alle spalle, sembra un mio coetaneo. E qui c’è d’aver piacevole, impressionante paura. Sobbalzo!

Un ritratto vivo e vegeto, prolifico di celluloide, alla Dorian Gray, senza cellulite, ancor magrissimo, con due peli di barba appena, a renderlo virilmente riconoscibile. Altrimenti, avremmo il sospetto di trovarci dinanzi a un imbroglione della sua carta d’identità.

Sì, con il pizzo alla Dean Corso de La Nona porta, Depp vagamente ci ricorda la sua effettiva età. Ma, sbarbato, urliamo di “terrore”.

No, siamo di fronte a un uomo che ha pattuito un contratto inestimabile per preservare la sua intatta giovinezza. Un uomo che sa abbinare, fra l’altro, al carisma sensuale… una classe eccezionale, una bravura da farci impallidire molto più della sua carnagione ceruleissima da La fabbrica di cioccolato.

Sì, resto basito, quasi perplesso. Un uomo che si fa il mazzo sul set e quindi qualche colpo alla sua bellezza dovrebbe accusare e invece, oltre che rimanere immutabile, sempre più elegantemente recita d’asciutto sguardo penetrante, ammaliandoci nel gioco delle sue palpebre dall’accigliato suo ammiccare vanesio ma con perfetto, armonioso bilanciamento del concupente malandrino che sa esser “effeminato”, mantenendosi maschio puro. Però! Capperi! Che figo/a!

Che levigatezza, che occhi, che splendida lor nerezza. Che romantico da gran tenerezze eppur bastardello in tanti ruoli da “gaglioffo”, da saltimbanco, da freak burtoniano, da gangster (in)verosimile.

Sono etero, credo anche tutto inte(g)ro. Eppur stringo la mano ad Amber Heard e le sussurro “Che culo che hai”.

Inteso in senso “doppio” come Depp, bello e impossibile, e come il suo didietro sfacciato.

Ah ah!

 

Sono Depp, detto Peter Pan

Sono Depp, detto Peter Pan

 

Ah, beata gioventù.

Ah, beata gioventù.

 

 

Lo stato anomalo di Travis Bickle

di Stefano Falotico

Taxi Driver

 

Molta gente, dopo aver visto Taxi Driver, credo sia rifuggita dal senso intimo del film. Il significato di tal capodopera, che io serbo nella mia anima di tutta gloria, risiede negli occhi di Bob De Niro. Occhi lancinanti che il sol volervi addentrare… tremar d’angoscia vi farà. Un “reietto” che s’auto… esilia, navigando un po’ fra lo smargiasso e il cinico romantico nelle notti calde d’una violenta, tumefacente New York notturna. Egli scruta gli animali strani, ne soffre a pelle l’ingordigia, ode il lamento dell’umanità, raggrumandolo nei suoi lineamenti sempre più smagrenti. S’allupa per labili, velleitari moti impulsivi di sua irascibile indole tanto propulsiva di scatti quanto invero negligente a qualsiasi principio di realtà “tranquilla”. Anela la bionda che lui idealizza, la sogna ma forse solo la trasfigura di effimero neanche volerla toccare, forgiandola a un’immagine (in)violabile tutta sua di purezza e perfezione. Similmente, come molti vedono in Nicole Kidman un angelo e io invece vedo una donna nella sua nudità raccapricciante, una donna perlacea, la quale a voi appare tale, che superficialmente ne ammirate le gambe slanciate, avvoltolate in vertiginosi tacchi di strascico su espressione “dolce” da docilissima femminilità di porcellana, una donna viziata, capricciosa, che io relegherei all’ufficio degl’imborghesiti Barry Primus a corteggiarla di “buffetti” e carinerie dall’insopportabile, rivoltante smanceria. Travis è un folle lucido che scorrazza fuggiascamente. Addolorandosi a letto, (s)tirando muscoli in allenamenti “orgasmizzanti” senz’alcun senso. Sì, il suo mettersi in forma non è indirizzato a niente. Tanto che alcuni spettatori credono si tratti d’un demente, d’uno che non capisce niente e fa sempre la mossa sbagliata per far la fig(ur)a da fesso. E qui cascano gli asini. Travis sa ponderare invece, è un temporeggiatore, scandisce da metronotte la melanconia dell’ineludibile assurdità del mondo, si fracassa il cranio d’incognite che agli altri appariranno farneticanti idiozie, rinsecchisce a vista d’occhio e monologa col suo fantasma allo specchio. S’illude di “raddrizzarsi” in quella rituale pratica quotidiana in cui fa i piegamenti nel suo ment(i)re di (ri)flessioni per altra sospensione a tutto. Non è un culturista e non lo fa per apparir bello, i suoi esercizi ginnici assomigliano soltanto a un onanismo senza capo né coda. Tanto che si stremerà, logorato dal non aver scansato la sua “erronea” natura, una natura primordiale da diverso, da silente osservatore, da taciturno saggio, da “spione” delle vite altrui perché della totalità del vivere è scontento, sconcertato, incarna la tetraggine della bellezza nel suo scheletrico sterno. Uno sterno a imbuto, voragine di ogni peccato(re). Della società nelle sue iridi (non) vedenti, da veggente, quasi un vampiro profetico. Un prefiguratore dell’orrore… una maschera di sangue e lacrime capitata per maledetta sciagura nel caos d’un mondo già distrutt(iv)o.

Questo è Taxi Driver. L’apice dell’aver visto cos’è la condizione umana. Che (vi) piaccia o meno.

 

Robert De Niro, L’intoccabile

di Stefano Falotico

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica...

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica…

Ebbene sì, c’era da aspettarselo, miei aficionados fratelli della congrega o meglio di tal community. Lo so, lo so, dopo tanti miei libri strambi, alcuni esoterici, altri che si “perderan per strada”, dopo anche tanto mio pavoneggiarmi da autarchico, semmai a tarda notte da solo in auto, sostando in un caffè che sfavilla tra rifrangenze lunari d’un plenilunio denso come un caffè pregno di nostalgico amore, ops, scusate aroma, tra sbandare, rifugiarmi “nudo” in solitarie riflessioni, poi semmai, con un colpo di culo (s)bottante con una donna da veri amanti, con lei che mi spaccò il vetro del finestrino perché voleva la mancia, dopo favell(ar)e e nel torbido rimestare, fra il menestrello, la riscaldata minestra, i luoghi comuni da me abbattuti, tra fratture e cittadini frazioni, fra sinistr(oid)i e (ambi)destr(ors)i nel dar la precedenza a un ignorante con “patente” da “figo”, dopo Clint Eastwood e di come m’immalinconì granitico, dopo Cage Nic e la sua recitazione da “passaggio a livello”, ché è ticchettante fra un espress(iv)o e un farti aspettar il treno con faccia annoiata da pesce lesso, tra il perplesso e un clacson, come non potevo parare su Bob De Niro?

Io e costui, da tempo (im)memorabile siam fratelli di sangue. Di come, precocemente già “straniero” di questo mondo, idolatrai immedesimandomi il suo Travis Bickle da scorsesiano colpo geniale su Schrader ispirato al massimo, non solo da Albert Camus. E abbandonai le frivolezze di quell’età acerba per accelerare nella mia indolenza da mohicano, fra il ribelle, lo “schizofrenico” suadente quanto ai papponi nel suonarle, le notti grondanti sangue, dolore a pelle, smagrimenti, pochi rancori, molte altrui apprensioni perché davvero ‘sti stolti credettero che io mi credessi un ne(r)o e invece amo anche la montagna, specie se col Bob dribblo le valanghe degli ottusi e scalo le vette. Non ho ambizioni da imbonitore letterario, lascio ai buonisti coccolar le ragazze al cioccolato coi loro aforismi “dolci” quanto a me disgustanti, bensì al solito privilegio me stesso, imperterrito anche se patirò le pene dell’inferno come un raging bull o, da king of comedy, solleticherò il mio once upon a time da Leone e non da pecorone.

Ed ecco qua il mio “biopic” su Robert.

Son tanto folle da partir proprio in medias res, da Ronin. Procedendo di narrazione avanti e indietro, basta che ci do dentro.

E a voi mostro tutto il primo capito(mbo)lo. Che piaccia o meno, io piaccio. Nessuno è perfetto, tranne io e De Niro. Mi dispiace per gli altri ché sono tristi e non sanno ancora cos’è Casinò. Anche perché la scena nel deserto, fra Bob e Pesci vale tutta una vita. Il resto è un gioco a dadi, io preferisco le dame agli scacchi.

 

 

Robert De Niro,L’intoccabile

 

Negli anni settanta, Hollywood si rinnovò e spuntò, dalle nebbie d’un Cinema retrogrado e oramai consunto, sull’orlo del collasso perché incapace di ammodernarsi, dalle opacità appassenti d’un nitrato d’argento troppo arrugginitosi, sì, spuntò Bob De Niro.

Così, Bob, l’apostrofiamo di primo nome simpatizzante d’empatia nostra amicale.

Bob De Niro e il suo neo distintivo, marchiato a volto inconfondibile che subito s’impresse nella memoria, radendo al suolo i visi impostati d’attori del passato già sorpassati. Li surclassò, beffandoli con la sua risata ambigua, fra l’ammiccante pensieroso a (non) discernersi ma (s)mascherarsi nudamente traspirando una smorfia enigmatica, dallo stupefacente chiaror lunatico nell’arsione levigata di labbra “argute”, peccatrici dell’unica colpa d’esser un Dio della recitazione, erede già designato di Marlon Brando. D’altronde, il destino è firmato di Oscar per lo stesso personaggio che interpretarono, appunto, in epoche diverse, cioè Vito Corleone, ma collocato d’egual carisma altisonante, magnetico, impossibile da scordare.

A scorticarci dentro nei fiammeggianti, sfumati colori d’una sottigliezza altissima d’attori nati divini.

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica. Anche solo “masticando” la pelle del suo volto in abrasione nostra a congiungerci amanti dei suoi sospiri di diaframma denso, sanguigno, iroso o arrossendoci di tale forza penetrante d’ardore camaleontico da raschiarci e scuoiar le nostre pulsanti vibrazioni interiori.

L’emozionalità della grandezza empatica, il flusso caloroso del transfert attore-spettatore.

 

“Non devi avere affetti o fare entrare nella tua vita niente da cui non possa sganciarti in trenta secondi netti”

(Heat – La sfida, Neil McCauley/De Niro)

 

In adorazione, lo celebrerò…

Perché, dopo averlo visto per la prima volta, ipnotizzato dalla sua portentosa forza ammaliante, irriducibilmente ne son invece perpetuamente invaghito, anzi, che dico, ferocemente, indubitabilmente scalfito nel cuore a lui più permanentemente an(s)imato e avviluppato in bramoso, turgido struggimento, a estatico rapimento rinvigorito sempre più di sua incandescenza carismatica di me inchinato nell’adorazione più soave e ascendente di maggior amarlo imperituramente, di sua aura plasmante il mio passionale, avvinto, posseduto incendiarmene d’iridi sue nere, increspate da sentimenti penetranti, da contrasti poderosi e persino contraddittori d’una sua stessa anima burrascosa, vivida e sanguigna, di suo ne(r)o cangiante e volto espressivamente esplosivo a far sì che me ne deflagri prostrato d’infinita, eterna venerazione giammai lesa, da strenuo fan che, anche dai suoi sbagli, mai infranto rammaricherà d’esserne stato, d’essenza mia intima così fragorosamente toccata d’ebbrezza come un delicatissimo, violento, turbinoso colpo di fulmine a ciel sereno lustrato di luce intensa e fiammeggiante, esserne tuttora e per sempre imprigionato d’occhi squartati in delizia, di suo inarrivabile talento, gioiosamente immerso d’amore immenso.

 

1.

Ronin

De Niro e il noir, o meglio il polar, e voglio iniziare questo lungo excursus, partendo “in medias res”, dal capolavoro di John Frankenheimer, Ronin, appunto.

Ma prima, spero perdonerete questa mia digressione favolistica, voglio narrarvi di un mio sogno. Di come oggi, dopo tanto trambusto, inerpicandomi lungo la via esistenziale dei ricordi, a lor volta riscaturitisi da stagioni mie enigmatiche d’una craterica, ansiogena vitalità congenita, mi trovo qui nel bel mezzo del cammino a rielaborare tanti lutti, le penombre fosche in cui m’adombrai e, da tale stato mentale tetramente assorto nel languido torpore della mia stramba vita navigante nel profondo del magma arcano e mesmerico, o se preferite marasma oscuro eppur rifulgente, asfaltandomi di lustrato crepuscolo argenteo, a libagione d’un rinato, risorgimentale cuore, passeggiando a ritroso di memorie, che credetti per sempre perdute, agganciandole come s’afferrerebbe un toro per le corna, scuoiandolo perché sanguigno, anziché ucciderlo, proprio nel far sì che dall’arpionato morente si ridesti arrabbiato e vigoroso, lo sp(e)roni di rabbiosa ferocia più vivida ed energica affinché urli di possanza guerriera, eccomi a sbranare il mio passato perché m’infonda non tristezza melanconica, giacente nella mesta e sfinente rassegnazione, bensì gioia malinconica risvegliatasi grandiosa.

 

Ed è una sottile, quasi impercettibile sfumatura magnifica qual è, questa sì, la vita nella sua essenza vorace e fervida, euforica e ribalda di rivolersi ancora.

Scalciante e maestosa, come un impero di travolgenti sensi a sbraitar furiosi, dopo tanto averli troppo accuditi di quietezza e morigerate, però ingannevoli saggezze… la vita qui, ribaciante le gioie che mi parsero smarrite, si rianima e sogna ancora, gemente i lamenti e i lividi superati e risorti d’acuminato, rinnovato, stupendo candore strepitoso.

Ed eccomi allora senza un soldo a (re)immaginare la mia vita e a pensare all’ancor incerto destino. C’è da scommetterci che verrà tante volte di nuovo infranto e poi si spaccherà in mille pezzi, così come è l’evoluzione pura, ma non più di nulla impaurita, del perder la strada e imboccar poi la via non più rotta ma respiratoria dell’immenso gaudio respirante aperti, dardeggianti orizzonti.

Perché evolvere significa anche soffrire, il cambiamento costringe a guardarsi dentro. Ad affondar nel buio che ti linciò, in cui guaisti inascoltato, deriso ma, dal ferimento brado, anziché dissanguato morir spellato d’anima, invece più forte come un’armatura qui adesso invincibile che si stritolò di pianti sommessi, anche urlanti nei tuoi agghiaccianti silenzi, quindi guarire di bacio in pace col mondo.

 

Indago fra i miei desideri spentisi e di nuovo riaccesisi furentemente, e lucente scorgo me a gestire una libreria nel quartiere parigino degli artisti, la culla per antonomasia d’ogni (in)nato artista, Mont-Martre. Sì, sono il proprietario di questi sogni racchiusi in pagine di levigati intarsi svenevoli di bellezza, tanto quanto meraviglioso fu l’antico samurai senza padrone di nome Sam, un ipnotico De Niro battagliero, apparentemente morto dentro, invece più vivo e splendente che mai.

 

La magnifica Parigi fredda dell’ultima perla polar di John Frankenheimer

 

Cinque mercenari, appartenenti ognuno ad un’agenzia segreta di spie, che non ci viene rivelata così come rimarranno nascoste le identità dei loro membri.

Tali membri chiamati semplicemente per nome “anonimo”, oggi oseremmo dire nick, vengono convocati in un luogo misterioso ubicato alla periferia di Parigi. Sono stati assoldati per una missione: riunire le forze e la loro esperienza in tecniche di guerriglia urbana per venire in possesso di una misteriosa valigetta, il cui contenuto, però, rimarrà a noi ignoto sino alla fine.

Insomma, il perno dinamico attorno a cui, è proprio il caso di dirlo, convergerà l’action nevralgica della struttura del film è il classico “colpo” da MacGuffin, quello stratagemma narrativo, diciamo espediente “depistante”, coniato da Alfred Hitchcock per il perseguimento del quale si concentra l’intera vicenda ma che, per gli occhi di chi guarda, non ha alcuna rilevanza proprio perché la sua importanza ci viene tenuta nascosta.

A capo dell’organizzazione, l’algida Deirdre (Natasha McElhone), che spiega alle spie, tutte specializzate in uno specifico campo (ad esempio nell’elettronica o nella guida delle auto), come portare a termine la missione attraverso le loro uniche abilità. Una prova d’addestramento, diciamo, con tanto d’ingegnoso piano studiato nei minimi dettagli, per riuscire ad estorcere dalle mani di un boss della mafia la valigetta tanto ambita.

 

Come si suol dire in questi casi, è naturale che qualcuno tradisca, forse perché infiltrato. E l’intreccio si complica. Chi fa il gioco sporco? Chi è il “consigliere fraudolento”?

Il film è come un caffè amaro bevuto in un bistrot raffinato. Diluito nella pregiata miscela d’un Frankenheimer nel suo nostalgico, svettante canto del cigno. Un Frankenheimer che torna alla grande dopo anni di appannamento, ambientando il suo ultimo capolavoro in Francia, fra le viuzze crepuscolari di Nizza, i tramonti languidi di pregna malinconia, inseguimenti automobilistici mozzafiato e “d’antan”, cioè ricreati in modo “artigianale” e “in diretta”, senz’uso della computer graphic o effetti speciali posticci.

Un film antico, quindi, memore di un’altissima scuola cinematografica oramai sbiadita dalla convulsa frenesia del finto luccichio dell’odierna, indigesta Hollywood tutta botti e spari ma, a differenza del grande nostro John, priva di anima.

 

Secondo gli stilemi propri d’un classicismo da far rabbrividire per maestosa maestria registica, puntiglio tecnico, calibrata dosatura delle inquadrature, “ciniche”, secche e veloci come un’appuntita, ficcante, glaciale lama di rasoio, dopo tante peripezie, inganni e robusta adrenalina sontuosa, la missione viene portata a termine.

La valigetta finisce nelle mani dei buoni. Ma sono davvero buoni? Su questa domanda, senza risposta, Frankenheimer ci stordisce d’altro impagabile retrogusto ambiguo da applausi. Un film perfetto, che cresce col tempo. Sottovalutato quando fu presentato fuori concorso al Festival di Venezia, è invece, ribadiamolo, un raro esempio d’impeccabile stile, rinvigorito da un parterre di volti d’attori straordinari, sui quali spiccano un grandioso De Niro “melvilliano” e il bessoniano Jean Reno, fenomenale accoppiata di recitazione sobria, giocata sugli sguardi, i furbi ammiccamenti complici, le “freddure” delle battute scritte dai due sceneggiatori, J.D. Zeik e soprattutto il solito beffardo, inarrivabile David Mamet, qui accreditato sotto il nome di Richard Weisz.

La fotografia nitida e acquosa, “allineata” alle rigide atmosfere decadentiste del film, a firma di Robert Fraisse, e le “sottili” location indimenticabili, contribuiscono a quel tocco di magia nostalgica ed emozionale, da lacrime agli occhi, tanto quanto la romanticissima colonna sonora di Ella Cmiral, ispirata, mesta, “dolorosa” e innervata dentro le coordinate d’una superba vetta melanconica dal profumo grande Cinema.

 

 

Taxi Driver, secondo me, rimane il più grande film del mondo, a prescindere da Sorrentino e Pasolini, Scorsese è più pazzo, dunque più genio assoluto!

Beccatevi queste!

Beccatevi queste!

di Stefano Falotico

L’Italia e la nostra retorica nazional popolare. Il nostro qualunquismo, i sindacalisti a destra e a manca, poco di sinistra ma che s’infervorano fintamente per le ingiustizie quando sono i primi a commetterle e poi il crimine bianco, omettendolo di striscioni da salvatori della patria, forse solo per un paio di pantaloni, eh sì, van sempre sul velluto e la gente li applaude, tanto è un popolo che magna e gli spaghetti attorciglian le budella loro di solite salse, vai col liscio, un po’ di vinello e chi tromba, all’osteria numero uno, la figona più (l)ambita di lambade, forse quella più lampadata, fra torte in faccia, sfottò, prese in giro, barzellette sui carabinieri, superficialità a iosa ma basta finger eleganza e le donne non si toccan neanche con un fiore, se son rose fioriranno ma tutti si danno al “foro”, tutti professori, oratori, in realtà penso solo paraculi.

E io, invece, Rambo adoro. Quando, preso di mira da sciacalli della sua anima, dopo esser già stato ferito a morte, penzola dallo strapiombo e si lancia nel vuoto, scorticandosi, ricucendo il braccio tagliato per poi iniziare una guerra tutta sua, l’unica che vale la pena per la propria sopravvivenza, per un’integrità morale che gli immorali già immemorabilmente strapparon dalla terra, e getta nello scompiglio tutti, vivaddio bestemmino e s’accaniscano. Che lo copran d’ingiurie, che gli sparino “freddure” per metterlo a tacere, per soffocarlo, di castighi e umiliazioni, credendo di massacrarlo. Poveri idioti! Non faranno altro che renderlo più forte! Scuoiato, sarà ancor più corazzato, denudato, disgustato a prelibate degustazioni delle palle gustative degli stronzi totali. Nessun’assoluzione, solo Dio perdona. E fortunatamente sono ateo.

Popolo di “scienziati”, di tuttologi del cazzo, minchioni leccati da quattro troie da prender solo a calci. Operai che prima fan le crociate e poi divarican quelle delle “sfruttate”, che sfruttatori, che poveri papponi. E non si lamentassero delle pappine. Sempre poi a chiamar la mammina. Le dottoresse. Di che? Dell’aver effeminato a “figo” ogni “meravigliosa” puttan(at)a.

Hanno tutti ragione… sostiene Sorrentino. Ed evviva il mar a Sorrento.


Tutto quello che non sopporto ha un nome. Non sopporto i vecchi. La loro bava. Le loro lamentele. La loro inutilità. Peggio ancora quando cercano di rendersi utili. La loro dipendenza. I loro rumori. Numerosi e ripetitivi. La loro aneddottica esasperata. La centralità dei loro racconti. Il loro disprezzo verso le generazioni successive. Ma non sopporto neanche le generazioni successive. Non sopporto i vecchi quando sbraitano e pretendono il posto a sedere in autobus. Non sopporto i giovani. La loro arroganza. La loro ostentazione di forza e gioventù. La prosopopea dell’invincibilità eroica dei giovani è patetica. Non sopporto i giovani impertinenti che non cedono il posto ai vecchi in autobus. Non sopporto i teppisti. Le loro risate improvvise, scosciate ed inutili. Il loro disprezzo verso il prossimo diverso. Ancor più insopportabili i giovani buoni, responsabili e generosi. Tutto volontariato e preghiera. Tanta educazione e tanta morte. Nei loro cuori e nelle loro teste. Non sopporto i bambini capricciosi e autoreferenziali e i loro genitori ossessivi e referenziali solo verso i bambini. Non sopporto i bambini che urlano e che piangono. E quelli silenziosi mi inquietano, dunque non li sopporto. Non sopporto i lavoratori e i disoccupati e l’ostentazione melliflua e spregiudicata della loro sfortuna divina. Che divina non è. Solo mancanza di impegno. Ma come sopportare quelli tutti dediti alla lotta, alla rivendicazione, al comizio facile e al sudore diffuso sotto l’ascella? Impossibile sopportarli. Non sopporto i manager. E non c’è bisogno nemmeno di spiegare il perché. Non sopporto i piccolo borghesi, chiusi a guscio nel loro mondo stronzo. Alla guida della loro vita, la paura. La paura di tutto ciò che non rientra in quel piccolo guscio. E quindi snob, senza conoscere neanche il significato della parola. Non sopporto i fidanzati, poiché ingombrano. Non sopporto le fidanzate, poiché intervengono. Non sopporto quelli di ampie vedute, tolleranti e spregiudicati. Sempre corretti. Sempre perfetti. Sempre ineccepibili. Tutto consentito, tranne l’omicidio. Li critichi e loro ti ringraziano della critica. Li disprezzi e loro ti ringraziano bonariamente. Insomma mettono in difficoltà. Perché boicottano la cattiveria. Quindi sono insopportabili. Ti chiedono: “Come stai?” e vogliono saperlo veramente. Uno choc. Ma sotto l’interesse disinteressato, da qualche parte, covano coltellate. Ma non sopporto neanche quelli che non ti mettono mai in difficoltà. Sempre ubbidienti e rassicuranti. Fedeli e ruffiani. Non sopporto i giocatori di biliardo, i soprannomi, gli indecisi, i non fumatori, lo smog e l’aria buona, i rappresentanti di commercio, la pizza al taglio, i convenevoli, i cornetti con la cioccolata, i falò, gli agenti di cambio, i parati a fiori, il commercio equo e solidale, il disordine, gli ambientalisti, il senso civico, i gatti, i topi, le bevande analcoliche, le citofonate inaspettate, le telefonate lunghe, coloro che dicono che un bicchiere di vino al giorno fa bene, coloro che fingono di dimenticare il tuo nome, colore che per difendersi dicono di essere dei professionisti, i compagni di scuola che dopo trent’anni ti incontrano e ti chiamano per cognome, gli anziani che non perdono mai occasione di ricordarti che loro hanno fatto la Resistenza, i figli sprovvisti che non hanno nulla da fare e decidono di aprire una galleria d’arte, gli ex-comunisti che perdono la testa per la musica brasiliana, gli svampiti che dicono “intrigante”, i modaioli che dicono “figata” e derivati, gli sdolcinati che dicono bellino carino stupendo, gli ecumenici che chiamano tutti “amore”, certe bellezze che ti dicono “ti adoro”, i fortunati che suonano ad orecchio, i finti disattenti che quando parli non ti ascoltano, i superiori che giudicano, le femministe, i pendolari, i dolcificanti, gli stilisti, i registi, le autoradio, i ballerini, i politici, gli scarponi da sci, gli adolescenti, i sottosegretari, le rime, i cantanti rock attempati coi jeans attillati, gli scrittori boriosi e seriosi, i parenti, i fiori, i biondi, gli inchini, le mensole, gli intellettuali, gli artisti di strada, le meduse, i maghi, i vip, gli stupratori, i pedofili, tutti i circensi, gli operatori culturali, gli assistenti sociali, i divertimenti, gli amanti degli animali, le cravatte, le risate finte, i provinciali, gli aliscafi, i collezionisti tutti, un gradino più in su quelli di orologi, tutti gli hobby, i medici, i pazienti, il jazz, la pubblicità, i costruttori, le mamme, gli spettatori di basket, tutti gli attori e tutte le attrici, la video arte, i luna park, gli sperimentalisti di tutti i tipi, le zuppe, la pittura contemporanea, gli artigiani anziani, nella loro bottega, i chitarristi dilettanti, le statue nelle piazze, il baciamano, le beauty farm, i filosofi di bell’aspetto, le piscine con troppo cloro, le alghe, i ladri, le anoressiche, le vacanze, le lettere d’amore, i preti e i chierichetti, le supposte, la musica etnica, i finti rivoluzionari, le telline, i panda, l’acne, i percussionisti, le docce con le tende, le voglie, i calli, i soprammobili, i nei, i vegetariani, i vedutisti, i cosmetici, i cantanti lirici, i parigini, i pullover a collo alto, la musica al ristorante, le feste, i meeting, le case col panorama, gli inglesismi, i neologismi, i figli di papà, i figli d’arte, i figli dei ricchi, i figli degli altri, i musei, i sindaci dei comuni, tutti gli assessori, i manifestanti, la poesia, i salumieri, i gioiellieri, gli antifurti, le catenine d’oro giallo, i leader, i gregari, le prostitute, le persone troppo basse o troppo alte, i funerali, i peli, i telefonini, la burocrazia, le installazioni, le automobili di tutte le cilindrate, i portachiavi, i cantautori, i giapponesi, i dirigenti, i razzisti e i tolleranti, i ciechi, la fòrmica, il rame, l’ottone, il bambù, i cuochi in televisione, la folla, le creme abbronzanti, le lobby, gli slang, le macchie, le mantenute, le cornucopie, i balbuzienti, i giovani vecchi e i vecchi giovani, gli snob, i radical chic, la chirurgia estetica, le tangenziali, le piante, i mocassini, i settari, i presentatori televisivi, i nobili, i fili che si attorcigliano, le vallette, i comici, i giocatori di golf, la fantascienza, i veterinari, le modelle, i rifugiati politici, gli ottusi, le spiagge bianchissime, le religioni improvvisate e i loro seguaci, le mattonelle di seconda scelta, i testardi, i critici di professione, le coppie lui giovane lei matura e viceversa, i maturi, tutte le persone col cappello, tutte le persone con gli occhiali da sole, le lampade abbronzanti, gli incendi, i braccialetti, i raccomandati, i militari, i tennisti scapestrati, i faziosi e i tifosi, i profumi da tabaccaio, i matrimoni, le barzellette, la prima comunione, i massoni, la messa, coloro che fischiano, coloro che cantano all’improvviso, i rutti, gli eroinomani, i Lions club, i cocainomani, i Rotary club, il turismo sessuale, il turismo, coloro che detestano il turismo e dicono che loro sono “viaggiatori”, coloro che parlano “per esperienza”, coloro che non hanno esperienza e vogliono parlare lo stesso, chi sa stare al mondo, le maestre elementari, i malati di riunioni, i malati in generale, gli infermieri con gli zoccoli, ma perché devono portare gli zoccoli? Non sopporto i timidi, i logorroici, i finti misteriosi, i goffi, gli svampiti, gli estrosi, i vezzosi, i pazzi, i geni, gli eroi, i sicuri di sé, i silenziosi, i valorosi, i meditabondi, i presuntuosi, i maleducati, i coscienziosi, gli imprevedibili, i comprensivi, gli attenti, gli umili, gli esperti, gli appassionati, gli ampollosi, gli eterni sorpresi, gli equi, gli inconcludenti, gli ermetici, i battutisti, i cinici, i paurosi, i tracagnotti, i litigiosi, i superbi, i flemmatici, i millantatori, i preziosi, i vigorosi, i tragici, gli svogliati, gli insicuri, i dubbiosi, i disincantati, i meravigliati, i vincenti, gli avari, i dimessi, i trascurati, gli sdolcinati, i lamentosi, i lagnosi, i capricciosi, i viziati, i rumorosi, gli untuosi, i bruschi, e tutti quelli che socializzano con relativa facilità. Non sopporto la nostalgia, la normalità, la cattiveria, l’iperattività, la bulimia, la gentilezza, la malinconia, la mestizia, l’intelligenza e la stupidità, la tracotanza, la rassegnazione, la vergogna, l’arroganza, la simpatia, il doppiogiochismo, il menefreghismo, l’abuso di potere, l’inettitudine, la sportività, la bontà d’animo, la religiosità, l’ostentazione, la curiosità e l’indifferenza, la messa in scena, la realtà, la colpa, il minimalismo, la sobrietà e l’eccesso, la genericità, la falsità, la responsabilità, la spensieratezza, l’eccitazione, la saggezza, la determinazione, l’autocompiacimento, l’irresponsabilità, la correttezza, l’aridità, la serietà e la frivolezza, la pomposità, la necessarietà, la miseria umana, la compassione, la tetraggine, la prevedibilità, l’incoscienza, la capziosità, la rapidità, l’oscurità, la negligenza, la lentezza, la medietà, la velocità, l’ineluttabilità, l’esibizionismo, l’entusiasmo, la sciatteria, la virtuosità, il dilettantismo, il professionismo, il decisionismo, l’automobilismo, l’autonomia, la dipendenza, l’eleganza e la felicità.

 

Non sopporto niente e nessuno.

Neanche me stesso.

Soprattutto me stesso.

Solo una cosa sopporto.

Le sfumature.

 

E Pasolini?

Qual è stata la parole d’ordine di Lenin appena vinta la Rivoluzione? È stata una parola d’ordine invitante all’immediato e grandioso «sviluppo» di un paese sottosviluppato. Soviet e industria elettrica… Vinta la grande lotta di classe per il «progresso» adesso bisognava vincere una lotta, forse più grigia ma certo non meno grandiosa, per lo «sviluppo». Vorrei aggiungere però – non senza esitazione – che questa non è una condizione obbligatoria per applicare il marxismo rivoluzionario e attuare una società comunista. L’industria e l’industrializzazione totale non l’hanno inventata né Marx né Lenin: l’ha inventata la borghesia. Industrializzare un paese comunista contadino significa entrare in competitività coi paesi borghesi già industrializzati. È ciò che, nella fattispecie, ha fatto Stalin. E del resto non aveva altra scelta.


Sì, credo che Travis Bickle, per quanto “folle”, fosse un genio.

Molti sostengono che Taxi Driver non parli di nulla. Infatti, non parla, non ha bisogno di dire proprio un bel niente.

La vita è niente, ogni cosa, che pensate sia (s)corretta, è una fottuta (dis)illusione.

Amen.

Addio.

 

 

Altre poesie

 Poesie di Simone Osmari, lette dal sottoscritto.

Le persone che frequento normalmente sono superficiali Unti bisunti pieni di cicche e tutti uguali Se hai in mente un’idea originale Nessuno però te la potrà mai levare Tienila stretta, non farla più scappare Distrutto dal contesto sociale sono così tornato un vile animale Trasformazione inversa Tutta colpa della sovrapposizione sociale ma se hai in mente un’idea originale nessuno te la potrà mai levare sarà tua fino alla morte tienila stretta non farla scappare.

Le persone che frequento normalmente
sono superficiali
Unti bisunti pieni di cicche e tutti uguali
Se hai in mente un’idea originale
Nessuno però te la potrà mai levare
Tienila stretta, non farla più scappare
Distrutto dal contesto sociale
sono così tornato un vile animale
Trasformazione inversa
Tutta colpa della sovrapposizione sociale
ma se hai in mente un’idea originale
nessuno te la potrà mai levare
sarà tua fino alla morte
tienila stretta non farla scappare

Fedele riproduzione di un quadro Impressionista dipinto tra le vaste campagne della Provenza Amica degli artisti, ma soprattutto dei loro pennelli...

Fedele riproduzione di un quadro
Impressionista dipinto tra le vaste
campagne della Provenza
Amica degli artisti, ma soprattutto dei loro pennelli…

Parlando d’amore arrivo alla resurrezione, inspiegabile ossessione, ossessione per te. Ma sento la perplessità Voleggiare nella notte depressa dal sole. A volte sfuggono quegli  sguardi che la notte ci vuol negare. Sento solo piangere e mia madre ridere. Quando poi ti ho visto, ho sentito quella gioia d’amore  Ti ho visto crescere, ma crescere per davvero, ma che poi alla fine tu non sei qui con me. I love you  I love you

Parlando d’amore
arrivo alla resurrezione,
inspiegabile ossessione,
ossessione per te.
Ma sento la perplessità
Voleggiare nella notte depressa dal sole.
A volte sfuggono quegli
sguardi che la notte
ci vuol negare.
Sento solo piangere e mia madre ridere.
Quando poi ti ho visto,
ho sentito quella gioia
d’amore
Ti ho visto crescere,
ma crescere per davvero,
ma che poi alla fine tu
non sei qui con me.
I love you
I love you

Questo codardo non è un buon Spacciatore Ma è solo un traditore che ha regalato chili e chili  di pubblicità. È così vuoto dentro che non ha spessore Né mentalità Né valore per la dignità (per la Libertà) Gira intorno a lui un sacco di gente Che lo apprezza e apprezza umilmente Incredibilmente La Musica non viene più frequentata Per colpa loro!!!! La Musica non viene più presa sul serio!

Questo codardo non è un buon
Spacciatore
Ma è solo un traditore che ha regalato chili e chili
di pubblicità.
È così vuoto dentro che non ha
spessore
né mentalità
Né valore per la dignità
(per la Libertà)
Gira intorno a lui un sacco di gente
Che lo apprezza e apprezza umilmente
Incredibilmente
La Musica non viene più frequentata
Per colpa loro!!!!
La Musica non viene più presa sul serio!

Verserò tutti i miei rimpianti  Rifletterò a lungo sui temporali estivi Sulla Depressione Sullo stato d’eccitazione. Vedo il tuo corpo Sospeso a mezz’aria. Odio i protestanti Odio i naviganti Quelli che perdono Quelli che rinnegano Odio il freddo ed il gelo ma soprattutto odio quando tremo.

Verserò tutti i miei rimpianti
Rifletterò a lungo sui temporali estivi
Sulla Depressione
Sullo stato d’eccitazione.
Vedo il tuo corpo
sospeso a mezz’aria.
Odio i protestanti
Odio i naviganti
Quelli che perdono
Quelli che rinnegano
Odio il freddo ed il gelo
ma soprattutto odio quando tremo

 

 

A Walk Among the Tombstones, Trailer: Liam Neeson e i suoi detective action

A Walk Among the Tombstones Poster

 

di Stefano Falotico

 

Stupisce davvero questa svolta, oramai consolidata e solida, di Liam Neeson nel genere action.
Dopo Io vi troverò, compresi i successivi seguiti (il terzo episodio del francese franchise Taken lo vedremo a breve), e le collaborazioni con Jaume Collet-Serra, Unknown in primis (e anche in questo caso, presto assisteremo alla sua variazione sul tema, Run All Night), Neeson non si schioda questa fissa, in ambito cinematografico, dal color detection. E insiste, nonostante, da me il primo, non siam convinti che sia il genere di personaggi che possano valorizzare Neeson. Anzi, a mio modesto avviso, è anche parecchio ridicolo in certi ruoli. Questa sorta di vendicatore solitario alla Melville, andava bene appunto in altre epoche e con attori di altra tipologia, come Alain Delon. Neeson, invece, nonostante la stazza indiscutibile, nella parte del duro punisher, stona non poco.
Perché, sempre secondo me, non ha un briciolo del fascino di De Niro alla Ronin e non è carismatico come Callaghan/Eastwood.
Ma il botteghino continua a sorridergli anche se noi gli ridiamo in faccia. E così i produttori continuano a proporgli appunto la parte del revenant ombroso, fosco, crepuscolare e arrabbiato a morte. Già, il nostro Schindler è meglio che giri subito questo Silence con Scorsese e si tolga tali panni, onestamente patetici. Che tutti i contratti che lo legheranno a certa roba trita e ritrita, senza un grammo di eleganza dei film di un tempo, Schindler scinda. Così io ho deciso. E credo, caro Neeson, sia alla tua carriera un buon consiglio.
Ma la locandina comunque è bella, su questo non ci piove. Sebbene questi film, più che malinconici su plumbeo piovvigginare tra periferie fatiscenti, fanno spesso piangere e ci inducono a gridar alla schifezza fetente. E le lacrime beffarde a te, Neeson, noi facciam piovere (a)mare.

 

Racconti variegati come Woody Allen o forse come, agli anti(podi), Sly Stallone, comunque sia la vita è poesia per le donne

di Stefano Falotico

Dici a me? No, non sono De  Niro di Taxi Driver

Dici a me? No, non sono De Niro di Taxi Driver

Ieri sera, credo d’aver patito uno dei sabati sera più aridi della mia (prei)storia. Insomma, andiamo con calma, ero assonnato, dormicchiai infatti nel pomeriggio, rinvenendo, fra i miei salubri incubi, un emozionale saliscendi di turbinanti emozioni, fra il rivoltante, inteso anche nel senso gastrico dello scombussolarmi, un agitato annacquato da Morfeo e varie ninfee appariscenti e gioviali all’agognarle desideroso d’amarle eppur toccandole solo nell’impalpabilità della fase REM, in cui “qualcosa” dorme ma potrebbe essere solo (in)sensibile polluzione. Volevo appiopparmele! Ma fu una (non) sentita, notturna pippa! Solitudine dello stato amniotico. Enigmatico sciogliersi sbattuto nel cuscino. Al che, svegliandomi di soprassalto, dopo che tal donne, tutte intimamente spoglie a concupirmi ma anche a prendermi per il culo, m’assalirono come messaline sul mio letto a castello, e “vessato” come fossi un erotomane vassallo, scappai in bagno, coscientissimo che neppure una scopai re(g)almente. Lavatomi il viso, post “spruzzatina” “sveltina”, schiumoso pen(s)ai: in qual stato catalettico cascai o fui nel sonno un patetico cascamorto? Va be’, son vivo, anche se ho ancora le palpebre mosce. Mi “disinfettai” dal sogno proibito di quelle donne allattanti, allettantissime, penetranti nell’inconscio, sì, ridestato, ma anche sempre anchilosato in fatue rimembranze, e compresi d’esser, come tutti, un “me(mb)ro” d’una società che sogna da merl(ett)i, stagna e soffre la “fame” della fata. Oh, perché avverso mi è anche il fato? Che esemplare fall(it)o, che modello che potevo essere nonostante i miei mille malesseri ma non posso, appunt(it)o, perché non mi regge il fis(i)co. E mi dissi: meglio sognare oggi che non sognare nella morte. Sì, il dormiveglia fa più sensualità fra le lenzuola.

Al che, “imbracciai” la macchina e volammo lungo le desolate periferie di questa città sull’orlo delle baraonde da weekend coi non morti. Mi fermai a un caffè e ne ordinai tre, li bevvi con far disordinato, quindi m’asciugai le labbra, immaginando che la barista me le sorbisse come un sorbetto su mia incolta barbetta. Mi urlò invece: “Barbone! Voglio anche il resto, altrimenti, laverai il pavimento con le pezze(nti)… mie schiavizzate, cioè le mie figlie. Io sono la padrona di tal locale e obbligo, sfruttandole, le mie figlie a crescere con tali modi “femminili” da donna con le palle. Sì, oggi son delle minorenni schive ma, “educate” a tal “manesco” insegnamento, una mano lava l’altra, vedrai come si faranno incazzate ma non mi rompessero il cazzo, io servo solo i clienti che si fanno i loro, e per di più me li faccio, “rovesciando” loro i bicchieri se mi porgon, sbavanti, della avances di apprezzamenti al mio didietro da bricconi troppo (re)spinti, quindi rompo le lor teste di coccio, bevendo la mia superbia che ha perso la brocca. No, abbasso i maschi brocchi. Povero coglione, berrai solo gli amari ma non disperare, mai dire ma(n)i. Ora, levati di torno, prima che ti scopi a terra! E rammendati, cioè volevo dire rammenta, sono io la demente ma i miei insegnamenti daranno alle mie figlie i loro “crescenti” frutti, la banana dei lor futuri marit(ozz)i che “verranno” da me, “facendoli lievitare” come la crescenza, evitandoli come la peste fra una pasta al pesto e la mia donna impestata. Cresci! Ed esci! Altrimenti, chiamo l’usciere e, non facendoti più entrare, non potrai mai più pensar di penetrarmi. Fottiti! E da me neanche gli scaduti alimenti! Animale!

Incassai, rincasai e mi scassai le palle. Comunque, fra il suo dire e (non) fare, mentre gridava come una ludra, non si accorse di nulla ma le rubai tutta la cassa(ta) e pure la Nutella, leccandomi il furto da siciliano che conosce Amarcord di Fellini, perché io amo le lasagne con la besciamella ma anche la mia “tartaruga” mentre vi fate le pere. Però, capperi, che “uomo”. No, grazie, di mio preferisco l’uovo al tegamino. E ti alzo il medio dito!

La vita si pesante, la vita è un bilanciere. Sollevando, tiriamo su il morale, pensando che domani si alzerà. O nel mezzo, così (s)pompati, ci rimarrà solo un edonismo da pesi morti.
Sì, il parassita fa più sexy. Tutte le infermiere vogliono me(n)dicarlo.

E salirò, salirò e non salirà

E salirò, salirò e non salirà! Quanta saliva per nulla! Ora, la vita è tutta in discesa. Sì, sottoterra da Stallone di origini terrone ma dal corpo da extraterrestre

 

 
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