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Johnny Depp, nuove foto da Black Mass, sempre più giovane-vecchio

 di Stefano Falotico

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Ebbene, sono in pieno svolgimento le riprese del film Black Mass, diretto da Scott Cooper.

E arrivano nuove immagini dal set che ritraggono un Depp spaventosamente imbruttito per calarsi nei panni del losco, (ex) storico criminale Whitey Bulger, un gaglioffo imbroglione che negli anni settanta seminò il panico, assieme a suo fratello e alla sua banda di spietati outlaws. Un gruppo di simpatiche, mica tanto, canaglie, a cui neppure J.Edgar Hoover col suo FBI riuscì a tener testa, che alla fine lo incastrò ma solo dopo molti anni di sue squallide imprese impunite.

Un Depp in pole position per una futura nomination ai prossimi Oscar. Sempre che riescan a finire il film per presentarlo entro Dicembre, scadenza massima per poter appunto competere alla magica notte delle statuette.

Johnny Depp, personaggione. Indubbiamente, ribadisco, anche sotto questo trucco pesante, soprattutto di capelli non poco stempiati, diciamocelo, praticamente pelato e anche leggermente imbolsito con tanto di macchie (anti)cosmetiche sulla pelle del viso per farlo entrar appunto meglio nei panni sporchi del vecchio Whitey. Depp, famoso per le sue mille collaborazioni con Tim Burton, per essere sempre stato un divo discreto, tanto da copertina quanto però spesso da film di qualità, che molti però associano frequentemente a characters puliti. E qui sbagliano. La sua filmografia, specie da qualche anno, si è notevolmente arricchita di maschere non tanto collimanti con questa erronea idea di integrità morale. Naturalmente, mi riferisco, spero sia chiaro ma non è mai esagerato sottolinearlo, proprio ai suoi personaggi sul grande schermo. Ci mancherebbe, signor Depp, che le dessi del criminale davvero. Ma voglio ricordarvi, però, non vorrei infatti che cascaste in tale grave dimenticanza, questo promemoria di sfumatura nera. A differenza, appunto, della capigliatura di Depp in tale Black Mass. Più tendente, diciamo, al platinato scialbo da lupo delle più bieche notti da manigoldo. E quindi non tanto da albi né di argento né da podio, sempre moralmente parlando. Da volpe che finirà arrosto fra le sbarre come il più stupido pollo. Ma che ve lo/li ricordo a fare? Che ve lo dico a fare, come diceva Pacino al suo ambiguo Donnie Brasco. Depp è più nemico pubblico di quel che si potrebbe pensare, cari miei.

 

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Buon compleanno, Clint Eastwood, nato il 31 Maggio del 1930

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di Stefano Falotico

Ebbene, sì, oggi il grande Clint compie gli anni. A quest’uomo ho dedicato perfino un libro, acquistabile su lulu.com, “Clint Eastwood, ghiaccio arcano di romantici occhi”, e ne scriverei a iosa, senza mai fermarmi.

Dinanzi al cavaliere io m’inchino e gli offro la torta ottimamente guarnita dell’aver addolcito la mia vita anche se spesso ha girato capolavori “amar(ett)i”, imbastiti su storie forti, senza speranza, ove l’American Dream vien fatto sobriamente a fette, mangiato da vero buongustaio obiettivo e senza fronzoli, alle volte di confetture “artigianali” come lo chef “mestierante” che bagna di liquore sanguigno le sue trame avvolgenti, incupendoci o fra le lacrime a farci singhiozzare per un semifreddo asciutto, che essicca gli occhi d’emozioni nel vero bignè ad anime nostre invece spesso impastate da barzellette e vanità frivolette, (s)cremato dal suo cinismo ponderato, dal suo realismo però poetico che, senza retoriche e melensaggini varie, fa dell’esistenza una stratificata mille foglie. Perché Clint svela il dolciume falso e stomachevole, rivela il marcio, ammiccandoci nell’insaporir le profondità a nostro cuore spalmato di verità. Noi, che spesso andiam in panne, abbiam ancor bisogno di Clint, perché Clint non è un montato ma giustamente mi mette su un divorante appetito dolce-salato, mi esalta. E dei suoi film ho sempre fame.
Molti gli dan del vecchio e credono che i suoi film sian negativamente antichi. Avercene di queste Antiche Gelaterie del Corso.

E Clint, soddisfandomi, dopo Jersey Boys, sta già completando le riprese di un altro filmone, American Sniper.

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Sì, qui lo vediamo sul set con la barbetta, e io mi lecco i baffetti.

 

Dopo Maps to the Stars, doveroso excursus poetico (e)temprale nel bisturi del Cinema di Cronenberg

The Dead Zone Walken

di Stefano Falotico

Incantato, com’è giusto che sia. Io, dinanzi al Maestro, sempre m’inchino sebbene questo suo ultimo, per me capolavoro, non abbia riscosso i consensi pressoché umani delle sue opere precedenti. O meglio, diciamo che i cinefili, dopo la visione di Maps to the Stars, si stan a mio avviso semplicemente contendendo lo “scettro” di chi scrive(rà), come sovente avviene in questa società competitiva d’esibizionismi futili, la recensione più stroncante ma appunto “esposta” di bella argomentazione da risultare incorniciabile e da “Ma sai che, sì, pensandoci, meditando sulle parole di ‘sto tizio, non è un granché?”.

Ecco, io non do retta ai detrattori di maniera, figuratevi se do “udienza” ai ratti del “dolce stilnovo” per quattro applausi su qualche blog ove si leccheranno a vicenda di condivisioni “Mi piace”. E apprezzamenti ruffiani.

Cronenberg è ben oltre le dicerie e, a tal proposito, ancor omaggiando il compianto Philip Seymour Hoffman, vi ricordo la sua “predica” ne Il dubbio, in cui con encomiabile classe sfotteva i creduloni dell’ultima ora che, di maldicenze appunto, seguono i pecoroni, persuasi a lor volta e a forma di squallido involto da tali cattivi pastori, che scelleratamente si fan chiamare recensori, e in verità di dico di non bestemmiare in nome di Dio. Cioè David. Perché David, come insegna la bibbia, accecherà i miopi, che si trastullan da giganti della carta stampata e invece verranno accecati soltanto dal mangiar le (lor) mentine da Golia…, caramellandosi balsamici, e imbalsamati, nelle didattiche presunzioni “linguistiche” da chi sol fa prender aria fresca alla bocca. Ah ah.

David(e) è sempre più svelto e raggira i maligni, dunque le malelingue, essiccandoli di “pasticche”, trattandoli come i personaggi putrescenti e viscidi del suo capolavoro lucidissimo.

Ora, io non sono il messia, Dio me ne scampi, perché David invece lo è e m’illumina. Dunque, con grande umiltà, io siedo alla destra del Padre, benedicendolo. David, cioè (D)io, ah ah, m’intima a confessare e a rivelargli il segreto del suo Cinema. Ora, molti “dotti”, che come abbian sopra detto han rotto, si fissano che David abbia le fisse della psicanalisi. No, Freud e Jung ben poco centrano col suo Cinema, diciamo che sono un altro fondamentale basamento teorico della sua sviluppata poetica. Se un tempo si disse di Lui che fu un rivoluzionario per visioni crash, oggi lo rinnegate e lo accusate di prendersi troppo sul serio e d’esser la(g)noso, di ribadire l’ovvio già contenuto nei libri proprio psichiatrici.

E invece l’acqua calda, che (ri)bolle in pentola nella mente sempre prolifica di David, va ancor (s)coperta.

Perché è proprio sul concetto di tempo che io mi concentrerei. Sul cerchio della vita.

Che mi dite de La zona morta? Di Spider? Non sono forse due mo(n)di horror di concepire come noi la viviamo, quindi la vedemmo, anche se le nostre alterazioni potrebbero indurci a tornar, con la memoria, indietro?

Sì, è così.

E non è forse A History of Violence un ritratto del tempo che, (s)fortunatamente, ritorna e di violenza turbinosa (di)strugge l’animo come un tornado?

Sì, David credo che ami la canzone degli Eurythmics, rimembrando che here comes the rain again.

Così è.

Sia lodato. Sempre sia lodato.

 

Lucky Town

I’m going down to Lucky Town down to Lucky Town I’m gonna lose these blues I’ve found down in Lucky Town down in Lucky Town

I’m going down to Lucky Town
down to Lucky Town
I’m gonna lose these blues I’ve found
down in Lucky Town
down in Lucky Town

 

di Stefano Falotico

L’uomo rinasce disperatamente, come il grande Bruce “Boss” Springsteen di Lucky Town

E tu che cazzo ne sai del concerto di Stoccolma con la chitarra solista d’un animale non solo del palcoscenico?

Well here’s to your good looks
baby now here’s to my health
here’s to the loaded places that we take ourselves
when it comes to luck you make your own
tonight I got dirt on my hands
but I’m building me a new home

Down in Lucky Town
down in Lucky Town
I’m gonna lose these blues I’ve found
down in Lucky Town

Ieri notte, ero triste, ho afferrato il volante e, schizzando sulla strada bagnata della mia ruggine psichedelica, immaginifico ho sognato il Paradiso, alzando il volume del mio viaggio sin al termine…

Dinanzi a me, la baia di San Francisco e la mia pelle del viso lacerata nell’oceano, poi il profumo terso della chete dopo la tempesta, della pioggia negli scrosci della mia anima. Mi son tuffato, agguantando il mio squalo fra le tenebre luccicanti delle profondità, l’ho morso letalmente. E, ferendoci, siamo riemersi lucidamente terrificanti di bellezza, modulandoci nell’incanto della vita oltre ogni confine. Non più incatenata a nessuno. Libera, a costo di schiantarci. E chi se ne frega!

Quindi, ho ripreso la mia macchina e, passeggiando tranquillamente, mi son ricordato di chi mi ha fatto male.

E non ho voluto perdonarli. Perché non tolleravano Bruce Springsteen. Gli davano del cafone e dell’ignorante. A detta loro, dovevamo essere “incravattati” nei modi furbetti degli stronzetti acidi e dovevamo menarcela da vincenti. Io invece voglio essere un loser dei miei speroni, un cazzo di perdono, no, no, no, sì, speronandoli, speranzoso che tutto (non) cambi, tanto quei figli di puttana insisteranno sempre di merda, e io invece sempre mi scaglierò rabbioso contro lo stivale italico e con cento chili di muscoli a spaccarti il muso.

Se non ti piaccio, neanche tu.

E ora giù pugni.

Così non va? Non va bene?

Invece va benissimo, proprio piazzato e (s)comodamente asse(s)tato!

 

Il Cinema e il mare, un connubio emotivo vincente quando le emozioni volano nello splendore acqueo come liberi surfisti

Moby Dick

di Stefano Falotico

Il mare. L’immensità del suo abissale spettro nero, intangibile, biologicamente denso, crepuscolare quando il tramonto, in lapidario strazio degli ultimi vagiti del Sol dardeggiante, si spande placido, increspato dal cicaleccio di gabbiani a sventolar il culmine del loro covo in rovente branco alato. E l’aria fosca solfeggia, imbrunendo cheta sulle purpuree trasparenze al di là del vento che, torbido, pacato, avvolto a “nodi” del totale, disarmante struggimento, cangiandolo lo penetra e lo colorisce serenamente, nelle cupe sere anche d’alta oceanica limpidezza, di riflessi come arcobaleno in burrasca. Il mare m’attrae e, come ogni anima senziente e profondamente umana, ipnotico mi brama affinché io crolli colante in lui asciugante i dolori irrequieti e, nella mansuetudine calda delle sue coccole mortali, poi feroce, in turbinoso vortice irreprimibile, improvviso, mi stinga nell’ultimo fatale respiro del mio annegarvi. Giacendo col creatore che pose le mani sulla Terra e la plasmò a sua nascita primordiale. In me innata. Io, il marinaio mai nato. Che s’ammainò, rammaricato da sé stesso, sommerso, visse oltre, e di nuovo, per un attimo fulmineo, s’illuse e s’innamorò. Dal mare nacquero gli anfibi che s’evolsero in esseri rampicanti di forma umanoide e, nel pensar crescente della montante, irrefrenabile sapienza, il grande mare demiurgo, docile, modellò l’uomo a sua ribellione anche di pari immagine e somiglianza pura, tormentata, donandogli il cuore vivo e zampillante del sentir cavalcante.

Brando The Brave

E allora mi trovo qui, ai bordi d’una fatiscente periferia di morti viventi, e come Johnny Depp de Il coraggioso odo il mio assassino recitarmi le parole letali, “fetali” d’un mostruoso e immenso Brando, Marlon Brando. Fra le pareti anguste d’un rifugio per nati erronei, egli recita uno dei più pulsanti monologhi della storia…

E si crogiola, beatificato dalla sua insuperabile bravura, anche laconica, di capo dondolante così come le onde si frangono fragili e impudiche alla vita addolcendola, nella sua recitazione divina dolcemente spegnendola…

Mi domanda se ho mai assistito al parto di una donna. Quando le acque si rompono e comincia il dolore eterno, senza fine e senza requie, m’immerge a sua maledetta benedizione per augurarmi buonanotte e far crollare, in un istante spasmodico, il tanto dolere che dalla nascita forzatamente ho sempre tentato di reprimere ma mi sta innegabilmente affogando in un bagno di sangue… e Brando piange, travolto dal ricordo di tutta una vita, della fiamma mia affievolitasi, del cielo che ora scuro mi costringe a vederla realmente buia, obiettivamente imprimendosi fra le sbarre imbattibili del mio mistero nerissimo. Dei miei occhi da lupo e della mia pelle da indiano.

Però, prima di morir(ci), mi domanda quali sono secondo me i grandi film sul mare. E io gli mostro la foto di Patrick Swayze in Point Break, chiedendogli l’ultima forza adrenalinica dell’avventura giunta alla fine. Egli m’ammicca, sorride fra il triste, il faceto, l’eleganza garbata del suo cranio rasato, del suo impressionante carisma, non arrochitosi nella stanchezza d’una comunque visibile vecchiaia.

Ancor forte lo odo narrare… e del mare raccontare anche se assieme ci stiamo disancorando.

Evoca le stagioni nostre felici, di come passeggiai allegro negli spensierati corridoi imprendibili, qui a noi vividamente mnemonici dell’infanzia, di come presto cambiai sguardo e, da infante rannicchiato nel mio nido, vol(t)ai in vista da falco.

Rumoreggiando nell’adolescenza annichilita, quindi sbiadita, sfumata d’intenso incenso armonico. Di come odiai i miei coetanei, affaccendati in riti tribali delle cacciagioni volgarmente sessuali, premature ma fingendosi adulte per far felici la tradizione di genitori già marci, reiterando i loro madornali errori solo per pigrizia mentale e non volontà di cambiare, di come tutti si son avvinti alla flaccida borghesia, suonandosela e cantandosela, di come io stesso sbavai come rossetto coprente le rughe dei miei polmoni perché volli sol non corrompermi nel soffocamento di massa. Sporcandomi delle mie bacianti labbra all’universo toccanti…

Al che, mi chiede come mi chiamo, e io gli rispondo Bodhi…

Point Break

 

 

Maps to the Stars, recensione

Fine maggio 2014

Fine maggio 2014

Cronenberg e del suo sguardo planetario incredibile, ipnosi psicanalitica ai bordi d’una Hollywood bruciata viva

di Stefano Falotico

 

Pomeriggio memorabile, da ricordare innanzitutto d’aneddoto amicale…

Attendo un mio amico, infatti, che da Este è giunto a Bologna in treno, andando a prenderlo alla stazione centrale di Bologna. Ci rechiamo supersonici al cinema The Space e attendiamo due ore prima dell’apertura dei cancelli, scatta l’ora x, 14.50 in punto, dieci minuti fra biglietti, toilette e posizionarci nelle poltroncine. Calan le luci e il sipario inizia per venti interminabili minuti di pubblicità. Alla fine, menomale, stanchi ma entusiasti, assistiamo all’ultimo capolavoro di David…

 

La trama oramai era stata diramata ancor prima dell’ufficiale proiezione a Cannes, dai cinefili imparata a memoria, guai comunque in vista per chi non l’ha visto, sciagurato lo è e s’affretti a riparare, il mio è un imperativo d’ordine plebiscitario.

Scarna d’effetto “nausea” nell’implosione incancrenente di personaggi fauneschi in quel della “luminosa”, scurissima, mai così asettica Los Angeles. “Arredati” solo di sé. Un’attrice fallita, un guru fisioterapista, un autista di limousine con ambizioni anch’egli attoriali e il sogno nel cassetto di divenir un pezzo grosso come scrittore, “riciclando” l’esistenza apatica dell’abitacolo da tassista fra viali ripresi di scorci suggestivi ma decadenti, imputridenti di latente deflagrazione d’una coralità nei lor denti stretti, nelle loro vite ambiziose sempre sull’orlo del collasso stressante, poi una ragazzina piromane, dimessa dal manicomio e “tornata a casa”, (non tanto) a posto rimessa, un enfant prodige suo fratello con turbe allucinatorie alle spalle, anoressico e anche lui non raddrizzato e storto, e una “filastrocca” invadente, ammonente che torna sovente a colorar anime già svanite da sempre…

 

Sui miei quaderni di scolaro

Sui miei banchi e sugli alberi

Sulla sabbia e sulla neve

Io scrivo il tuo nome…

(Paul Éluard, “Libertà”)

 

Echeggiano sempre i fantasmi, sono esseri infidi che camminano come zombie, ibridi dunque tra la forma umanoide e l’aldilà oltrepassato d’ogni pudore tranciato. Rifiuti della tossicità malsana di cui il mondo, non solo moderno ma, dall’albore primordiale dell’ere torpide e cupe già avvelenate da un’irrimediabile primitività putrescente dell’animo nostro corrotto, fu invaso senz’ombra di dubbio, perversamente gironzolan(d)o nell’arido panorama all’apparenza “stellare”. Lombrosiani, scarniti d’ogni umanità, solo marcescente parvenza che raggela, “grumo” d’ossa spolpate dalle crudelissime ambizioni, divorazioni a (vi)cen(d)a di cannibali “guarniti” d’abiti finto eleganti, pacchiani, sguaiati, mai guariti, fintissimi, manichini ad orchestrare i loro cuori anneriti, illusi d’esser dom(in)atori del gioco da ex attori di “classe”, forse mai lo furono, e i visi sfumano, agghiacciandosi, nel de profundis più gastrico, purulento ed eruttivo di cattive ansie, di fetido dolore asmatico, di maschere d’ossigeno su grottesche, inguardabili tragicommedie da liberi in gabbia, imprigionati dalla “bioetica” delle logiche dello star system ove, se non sei più sulla scala dorata, almeno devi reggerti, anche di plastica, la faccia troppo levigata, esper(i)ta di respirazioni strozzate nel sangue malato, in vitr(e)o, sventrandoti a fuoco lento di costipazioni poi esplosive, che ti/li (de)nutre, sia(n) loro da stronzi (s)fatti e rettili, noi nel disgustarli e violati in vomiti, conati, lacerazioni sfilaccianti, tumefazioni e logoramento straziante, strangolandoli, in cordoglio freddissimo. A chirurgia dell’esser(ci) tutti smembrati.  Anzi, costellati di glorie lor lo furono, schiacciati nell’impresso loro “balsamo” già a mummificarli, all’asciuttezza lapidaria, singhiozzante solo l’imbarazzo e il gelo nelle scricchiolate nostre ossa dell’esterrefatto, essiccante prender coscienza dell’inevitabile, apocalittico, sigillante e ardentemente ermetico finale-funerale tremendo. Senz’unzione assolutoria, senza bontà consolatorie. Un’eruzione di tutto il male, il male della Los Angeles a prima vista luccicante, invero bestiale… Pazz(esc)a idea di Bruce Wagner e le congestioni dei marci fegati marciano in processione di cere che una volta c’erano… delle stelle. Il firmamento è ora buio acceso di lor firme color tenebra (di)struggente. Prima il successo, quindi il consumato e consumante sesso, le bruciature, il crollo di nervi, la “piromania” dell’adolescenza dalla fiamma troppo viva per spegnersi nell’asettico arredamento lindo, astringente di specchi troppo puliti per non romperti scarnente di vetro acuminato a doppio taglio. C’è un’urgenza, impasticcate e sedateli. L’asettica vita perfetta è un diamante pungente, taglientissimo, un rasoio affilato come lo sguardo profumo lama d’un Cronenberg d’annata. E sia benedetto questo incompreso suo altro capolavoro a noi stupendamente straziante. Maleditelo e David se ne freg(h)erà delle vostre risate additanti. Ardite ad arderlo, a coprirlo d’infamie e a cancellarlo subito dalla vostra memoria. Sì, è un perentorio ordine perché non ve lo merita(va)te e quindi è giusto che (lo) dimentichiate. Perché se sfegatati fanatici della sua Arte dapprima vi dichiaraste, così scelleratamente da bifolchi stroncandolo senza mezzi te(r)mi(ni), io vi dico che del suo Cinema non avete mai capito un beneamato cazzo. Siete dei vermi striscianti, delle termiti falsamente adoranti, siete pieni di boria, dunque non vivete, e in verità vi rivelo che le cialtronerie, con cui vi (s)coprite, son solo borchie della vostra pelle neuronale morta. E non chiamatelo ex vostro beniamino. Non v’azzardate! Voi, infingardi fan dei vostri co(s)mici vuoti, voi, pneumatici, fingeste di conoscerlo soltanto leggendo topos di frasi in calce come “nuova carne” e “mutazioni transgenetiche” da avidi topi di biblioteca senz’alcuna dignità né palle. Non avete mai vissuto né poteste dunque sentirlo! Il Cinema non è un Bignami, figuratevi se pot(r)e(s)te ubicarmi David in vostri laboratori di chimiche critiche, di frasi fatte, puzzate di scadenza, di superficialità densa, di copia-incolla da qualche rivista in ogni sen(s)o di “moda”. Di ciò che fa tendenza e dunque boccia, sboccatamente, quel che considera superato, scaduto, invero sempre troppo veloce di tempo suo in avanti, rivelatorio a profezia del Cinema puro e d’avanguardia tanto semplice d’apparir un ritratto fotografico sbiadito e senza nerbo. Ah ah, che immonda superficialità come la scritta troppo “pulita” di Hollywood che alberga sulla famosissima collina e a me invece incute timore, cupezza, opalescenza, imbruttimento di ogni umana trasparenza, (in)decenza della buoncostume perché tutto il film, dal primo all’ultimo minuto in gola, è un monito così fulgido da bucarti la retina oculare e divorarti il fegato. Hollywood e la sua scritta gigantesca, minuscola se guardata in tale prospettiva, prima sobria al mattino e poi notturna, (s)cremata fosca, nel bacio fra due amanti (s)finiti. Già dapprincipio ischeletriti. Uno specchietto per le allodole, un pugno in un occhio di lettere cubitali al mondo e al suo ineludibile format(o) cubo, con le sue regole prefabbricate, immutabili, ansiogene ma che non evacuano mai il vero, tenendo tutto dentro per la “copertina”, ove i “divi” firmeranno sempre autografi d’inchiostro, troppo nero, colore buio avvolgente, per mangiare i fessi che li osannano sol adocchiandoli d’ammirazione su “Vogue”, sognando le loro o(stri)che e le lor invidiate cene da vongole e ripieni ché sarà solo una grande abbuffata e, tutti giù per terra, daremo assieme di stomaco! Vomitando assieme “allegramente” il marcio di tanta patina che addolcì le nostre intestina, sbudellandole di dolce, svenevole, precipitante ipocrisia. Ed è urlo! Ferocia del dissanguamento dei visi “celebri”, appunto delle arse cere, del passato che giocoforza (ci) smembra, il rimembrar com’eravamo e come, rovinando nella perdizione delle dissipatezze, della frivolezza più appariscente, che fa solo inutile, pacchiana, parassitaria (s)cena, cimiteriale c’augura una beffarda morte annunciata. Una tragedia mondiale, un orrore di proporzioni bibliche. Se nella Bibbia, le rane caddero dal cielo contro i faraoni egizi per avvertirli d’una imminente ribellione storica degli ebrei, qui il “Mar Nero” sommerge tutti di fiamme divine cattivissime. Un deus ex machina impietoso, flagellante, un fulmine potentissimo dal quale non puoi salvarla e crepi anche tu, crollato, un colpo letale che non perdona nessuno. Assolutamente!

No, ritorniamo “indietro”. Tutti malati, dei “viventi” in abiti “normali”. Degli essi vivono… Dei cannibali sofferenti la facciata proprio della doppia apparenza da (bi)fronti. Oddio, mi sa (e)ruttanti anche l’acuta, crescente, a lor scarnificante demenza. Scusate, mi sto troppo scaldando! A sentirne così lapidariamente parlar nei vostri scortesi, irriguardosi modi, miei merdosi, mi vien il sangue al cervello. Che esploda(no), scanners! Siete terminati, su di voi è già calato il velo pietoso. E la mannaia da lupi mannari che alla mia lupara non fa paura! E io v’ho seppellito perché ho deciso. Chiuso, siete finiti!

 

Amen.

 

Dopo l’omelia, osanna a David! Cantate e vogliatene tutti! Questo è il suo “corpo” offerto in sacrificio per voi.

E si apran perciò le danze alla recensione brillante, miei spenti internauti delle tristezze più a volerlo vanamente affondare.

Io ho sentenziato. Chi non accetterà questo mio colpo d’accetta, che accetti, altrimenti, prima il mio (ri)getto e poi soffocato sarà nel cassonetto. Poveri cazzoni da cinemino di cassetta e cazzatelle.

Nel retro, falsi vati, siete più tetri dei personaggi di tal altissimo film.

Apertura…

No, finisce qui. Non c’è molto da dire. Era prima che il danno si compì, il resto è Dio David che guarda col solito sguardo ginecologico ed estrae il parto malsano della società sifilitica. Estraendo il figlio dei vostri demoni, grida d’immagini che imprimono male, curando però la beatitudine degli eletti che, incantati, estasiati, s’inchinano al cospetto del suo lucidissimo, prodigioso aver visto ancora una volta giusto.

E Dio va adorato. Senza se e senza ma.

Così è, così sia scritto. Incorniciate Maps to the Stars nell’empireo ed esigo una cornice lucente come la stella e non le scialbe, putride lor hollywoodiane stelline da fuochi fatui, da chi contrasse il morbo contrattuale di Faust nel mefistofelico aver ceduto alle lusinghe del s(ucc)esso, dell’avidità, dell’effimera “celebrità”.

Ora, silenzio.

Titoli di coda… con Dio Cronenberg che li fa scodinzolare in diabolica dissolvenza.

E si riaccenderanno le luci, accecandoci della vita (dis)umana.

Così sempre andò, questa è la fottuta evoluzione delle atrocità incarnate nell’uomo bestia…

Non rimane che urlare, già morti…

Sepolti, (dis)illusi…

 

… Su tutte le pagine lette

Su tutte le pagine bianche 

Pietra sangue carta cenere 

Io scrivo il tuo nome

 

Sulle dorate immagini 

Sulle armi dei guerrieri 

Sulla corona dei re 

Io scrivo il tuo nome

 

Sulla giungla e sul deserto 

Sui nidi sulle ginestre 

Sull’eco della mia infanzia 

Io scrivo il tuo nome

 

Sui prodigi della notte 

Sul pane bianco dei giorni 

Sulle stagioni promesse 

Io scrivo il tuo nome

 

Su tutti i miei squarci d’azzurro 

Sullo stagno sole disfatto 

Sul lago luna viva 

Io scrivo il tuo nome

 

Sui campi sull’orizzonte 

Sulle ali degli uccelli 

Sul mulino delle ombre 

Io scrivo il tuo nome

 

Su ogni soffio d’aurora 

Sul mare sulle barche 

Sulla montagna demente 

Io scrivo il tuo nome

 

Sulla schiuma delle nuvole 

Sui sudori dell’uragano 

Sulla pioggia fitta e smorta 

Io scrivo il tuo nome

 

Sulle forme scintillanti 

Sulle campane dei colori 

Sulla verità fisica 

Io scrivo il tuo nome

 

Sui sentieri ridestati 

Sulle strade aperte 

Sulle piazze dilaganti 

Io scrivo il tuo nome

 

Sul lume che s’accende 

Sul lume che si spegne 

Sulle mie case raccolte 

Io scrivo il tuo nome

 

Sul frutto spaccato in due 

Dello specchio e della mia stanza 

Sul mio letto conchiglia vuota 

Io scrivo il tuo nome

 

Sul mio cane goloso e tenero 

Sulle sue orecchie ritte 

Sulla sua zampa maldestra 

Io scrivo il tuo nome

 

Sul trampolino della mia porta 

Sugli oggetti di famiglia 

Sull’onda del fuoco benedetto 

Io scrivo il tuo nome

 

Su ogni carne consentita 

Sulla fronte dei miei amici 

Su ogni mano che si tende 

Io scrivo il tuo nome

 

Sui vetri degli stupori 

Sulle labbra intente 

Al di sopra del silenzio 

Io scrivo il tuo nome

 

Su ogni mio infranto rifugio 

Su ogni mio crollato faro

Sui muri della mia noia 

Io scrivo il tuo nome

 

Sull’assenza che non desidera

Sulla nuda solitudine 

Sui sentieri della morte 

Io scrivo il tuo nome

 

Sul rinnovato vigore 

Sullo scomparso pericolo 

Sulla speranza senza ricordo 

Io scrivo il tuo nome

 

E per la forza di una parola 

Io ricomincio la mia vita 

Sono nato per conoscerti 

Per nominarti 

 

Libertà.

 

Un irriconoscibile, invecchiatissimo Johnny Depp nelle prime foto dal set di Black Mass

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Varie foto dal set di Black Mass, il nuovo film di Scott Cooper (Crazy Heart), con protagonista il nostro sempre amato Johnny Depp.
In due versioni, quella di lui da pelato in là con gli anni e quella sempre proprio di lui soltanto di capelli platinati per le scene che lo vedranno appunto più giovane nel suddetto film.

Da poco iniziate le riprese, Depp interpreterà la parte del gangster Whitey Bulger, un personaggio storico in senso negativo.

Il film verterà sulle sue sfortunatamente celebri imprese spericolate nella maledetta Boston degli anni settanta.
Ove regnava il crimine più losco e pauroso, nonostante il programma di pulizia messo in atto da J. Edgar Hoover.

Il suo camaleontismo fa sempre rabbrividire, il suo fascino rimane comunque immutabile.
E piace, va detto, anche sotto un look che indubbiamente lo abbruttisce non poco, con tanto di denti ingialliti e cariati.

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