Mi spiace che De Niro non lavorerà con Ridley Scott per il biopic Gucci, rimpiazzato da Irons ma, in fondo, Scott non è un granché ed evviva Pablito!
Sì, Robert De Niro, inizialmente voluto, corteggiato e contattato da Ridley Scott per essere uno dei personaggi chiave del suo biopic sulla famiglia Gucci, per meglio dire incentrato sulla tragica, assai misteriosa, nefasta vicenda omicida, scabrosa ed efferatamente “gelosa”, no, delittuosa di cui fu artefice la moglie del patron Gucci stesso, che sarà interpretata dall’inarrivabile, meravigliosa, sensualissima e torbidamente irresistibile Lady Gaga, donna voluttuosa, difficile e scontrosa, sessualmente turbinosa e poderosa, morbida e burrosa, nei panni per l’appunto della strega Patrizia Reggiani, alla fine pare che sia stato sostituito dall’altrettanto attempato Jeremy Irons. Spesso interprete di personaggi perversi ed odiosi. Il ruolo gli calza dunque a pennello.
Irons, nei suoi lineamenti spigolosi, racchiude la virilità più perversa fatta persona. Non ho mai, per esempio, sostenuto il suo sguardo in Inseparabili. Uno sguardo chirurgico, anzi, ginecologico. Ah ah. Doppio, da persona “affetta” dall’essere gemellata, di sue scavate gote, in una sfaccettata identità ambigua da omozigote che non la racconta giusta. Dunque double face, una faccia un po’ angelica e un po’ diabolica. Irons è sempre piaciuto molto alle donne per via, appunto, dei suoi occhi penetranti e sottilmente evocanti qualcosa di torvamente pruriginoso…
Mah, contente le donne, contento lui. In Inland Empire è un regista un po’ troppo pretenzioso. Non vi vidi comunque niente di male nel suo voler tirare fuori il meglio da Laura Dern. Vi riuscì meglio Nic Cage di Cuore selvaggio ma questo è un altro discorso… non spingiamoci in qualcosa di lynchianamente morboso.
De Niro e Irons, quest’ultimo suo compagno di set, anche di liti furibonde dovute a divergenze caratteriali e ad inconciliabili stili di recitazione agli antipodi, per Mission.
Irons che recitò con Al Pacino nel bruttino Il mercante di Venezia. Versione all’acqua di rose di uno dei tanti capolavori del Bardo, messo in scena, di cinematografico compitino assai sciapito, da Michael Radford, regista de Il postino. Quello con Troisi e non di e con Kevin Costner, The Postman, neppure quello che suona due volte, miei suonati e rintronati.
Ah, perché mai il grande Orson Welles non completò mai il suo merchant? Disponiamo soltanto di uno short movie arrabattato e a posteriori montato. A Bologna, direbbero “ciabattato”. Espressione felsinea tipica atta a designare qualcosa “girato” con la mano sinistra, qualcosa di sciatto e buttato lì, come si suol dir’. Ah ah.
Al Pacino incontrerà nuovamente Irons per Gucci. In quanto Al sarà presente nel cast del film di Scott appena succitato. Effettivamente, in tempi non sospetti, cioè mesi addietro quando la notizia del coinvolgimento di De Niro nel cast fu annunciato da Variety e compagnia bella, non poco dubitai che la presenza di Bob venisse poi confermata.
Infatti e in effetti mi chiesi fin dapprincipio, Covid-19 permettendo e pallose quarantene annesse, come avrebbe potuto Bob conciliare Gucci con altri due (mica uno solo, eh) film importantissimi per cui già firmò. Ovvero il già più volte rimandato Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese con Leo DiCaprio, la cui data d’inizio riprese è adesso prevista, dopo essere stata per l’appunto posticipata a causa dei vari lockdown “imprevisti”, per fine Febbraio dell’anno imminente a venire, e Armageddon Time di James Gray. Pellicola peraltro in forse…
Caso emblematico che smentisce e sfata il proverbio discutibilissimo… non c’è due senza tre.
Insomma, Bob non farà parte della partita e non sarà nella parte del padre di Maurizio Gucci (Adam Driver). Ma come? Il suo nome fu Roberto…
Lo (de)cantò anche la Germanotta/Gaga nella sua celeberrima Alejandro… Fernando, Roberto…
A proposito, nel videoclip di Alejandro, Lady Gaga vestì Armani come De Niro negli Intoccabili e in Quei bravi ragazzi, Versace assassinato oppure ora ama un uomo alla Valentino?
Chi, Rodolfo o lo stilista di moda? Oppure Rocco Barocco, uomo certamente più elegante di Siffredi Rocco? Mah.
Dovrebbe indagarvi Roman Polanski. Di suo, la Gaga viene “indagata” in ogni intimità dal suo attuale compagno, tale Michael Polansky. Puro bad romance…
Un bell’uomo? Mah, a me pare un tronista della De Filippi.
Non perdiamoci in cazzate, dai. Andiamo avanti.
A coiti fatti, no, a conti fatti, è meglio così. Ridley Scott, da tempo immemorabile, è rincoglionito.
Con buona pace dell’immenso regista de I duellanti, Alien e Blade Runner, debbo concordare col “buon” Paolo Mereghetti. Il quale, nell’ultima edizione del suo celebre Dizionario dei film oppure delle castronerie più illeggibili, stronca quasi tutti i film di Ridley Scott appartenenti agli ultimi vent’anni.
Esaltando solamente, forse esageratamente, American Gangster e apprezzando giustamente il bellissimo Il genio della truffa. Con un Nicolas Cage uguale al sottoscritto di una decade fa. Insomma, un Nic ossessivo-compulsivo, malato d’igiene non solo intima, che lustra i vetri della sua casa da cima a fondo.
Mentre Scott “dà la cera e toglie la cera”, così come insegnò il Maestro Nariyoshi Miyagi di Karate Kid, a Ralph Macchio, alla sua Facio. Come si suol dire, alla faccia…
Eh sì, Scott “macchia” la sua Giannina Facio e, da un lustro, la rigira a letto ma non gira più pellicole qualitativamente dilettevoli. Come Mosè, in verità vi dico che filma polpettoni peggiori di quelli cucinati da vostra madre.
Ci vorrebbe Diego Abatantuono… uhm, che profumino. Che avete cucinato di buono oggi, pulpett’ di m… rd’?
Un grande, il Diego… de I fichissimi: lo sai che non mi piace che vai in giro di notte, la città pullula di malviventi, teste di cuccudrillo… zitta, torna dietro il furnello… il tuo ambiente “naturalo”, il tuo piccolo monto antico…
Ne vogliamo parlare inoltre di Diego in Viuuulentemente mia? Nella parte di Achille… Chi, quello di Omero oppure Achille Cotone che vuole fare con l’Antonelli che fu, oh sì, l’amore?
Un uomo forse misogino che avrebbe però, arrapato al massimo e col capello cotonato, amoreggiato con una donna più eccitante di Sigourney Weaver di Alien. Cioè, la Weaver al top della top’. Mentre nutro i miei forti dubbi che Diego avrebbe fatto all’amore con la Weaver di Exodus.
Eh sì, Sigourney non è più come la compianta, super sexy Laura Antonelli dei bei templi, no, tempi. Il suo viso non emana più letiziosa e stuzzicante sensualità a mo’ di Malizia…
E Ridley Scott, di contraltare, pare più rimbambito di Abatantuono al giorno d’oggi.
Ne vogliamo parlare di Tutti i soldi del mondo? Parlatene voi. Io non l’ho visto. Chissà mai se lo vedrò.
Censurare Kevin Spacey a riprese terminate, infilarlo nel primissimo trailer originale e poi rimpiazzarlo col pur grande Christopher Plummer, cavolo, grida vendetta da Massimo Decimo Meridio…
Nel film, il ragazzo tristemente preso in ostaggio, John Paul Getty III, viene interpretato da Charlie Plummer. Il vero nipote di Christopher? No.
Mentre, in Ransom – Il riscatto, Sean Mullen ebbe/ha a che vedere non Nick Nolte? Be’, direi di sì. Essendo stato incarnato da Brawley Nolte, figlio di Nick.
Sì, Russell Crowe de Il gladiatore fu fatto schiavo da dei terroristi? E, prima di rigodere Un’ottima annata, dovette fare all’amore con Meg Ryan di Proof of Life?
Marion Cotillard invecchia intanto come il buon vino. Donna d’annatissima ottima, donna bella in modo dannato.
Mentre Russell, dopo A Good Year, sì, buonissimo con questa super bona, ingrassò nel mediocrissimo Body of Lies, adeguandosi al metodo Stanislavskij a mo’ della sua prova in Insider o fece già le prove naturalissime per diventare come il suo idolo Marlon Brando?
Sì, Ridley Scott annunciò di voler girare il sequel de Il gladiatore.
Ah ah. Con Russell che, assieme a Giannina Facio e col bambino de La vita è bella, oggi cresciuto e forse anche lui con la panza, nei campi Elisi od Eliseo celebra la vita paradisiaca con un prosecchino e un fisico non tanto rinsecchito, immaginando di tornare sulla terra per picchiare Denzel Washington che gli rubò l’Oscar che Russell avrebbe meritato per A Beautiful Mind?
Denzel Washington è un grandissimo attore e fu molto bravo in Training Day. È molto camaleontico… il Denzel e, secondo me, potrebbe perfino calarsi nella “parte” del Tartufone Dolce Noir della Motta.
Sì, spero che Ridley Scott ritorni a girare qualcosa di decente. Sì, un bel filmone storico con Washington, semmai, nella parte di Nerone…
A parte gli scherzi, Ridley Scott è un grandioso regista ma, in tutta onestà, penso che abbia fatto il suo tempio. Scusate, volevo dire tempo.
Ha una certa età e non gliela fa più.
Gucci, un film tratto da un libro inchiesta di Roberto Bentivegna.
Mah, a mio avviso, parafrasando Stefano Accorsi di Radiofreccia, credo nelle rovesciate di Bonimba, cioè Roberto Boninsegna.
Nel frattempo, è morto Pablito, vale a dire Paolo Rossi. Non l’omonimo comico amico di Abatantuono Diego, bensì l’eroe del Mundial 82.
All’epoca ero un bimbino ma, già a tre anni, essendo io del ‘79, fui in vacanza coi miei ad Igea Marina e compresi, dalle urla infoiate degli adulti nostrani, che Pablito distrusse col suo genio l’apparentemente invincibile Brasile di Falcao e Zico. Sì, nel bel mezzo di un’estate nazional-popolare, arrivò Rossi a massacrare Zico & company.
Falcao, prima della partita, tronfiamente affermò che l’intera Italia avrebbe pianto l’eliminazione dai Mondiali.
Alla fine dei novanta minuti regolamentari, Falcao fu ricoverato al più vicino ospedale psichiatrico poiché, in preda allo shock, fu vicinissimo a diventare Al Pacino nel finale de Lo spaventapasseri.
di Stefano Falotico
QUALCUNO SALVI IL NATALE 2, recensione
Ebbene, oggi brevemente recensiamo Qualcuno salvi il Natale 2 (The Christmas Chronicles 2), sequel del primo, fortunato film diretto da Clay Kaytis, qui sostituito da Chris Columbus (Harry Potter la pietra filosofale, Rent, Mamma, ho perso l’aereo). Ovviamente interpretato di nuovo dall’attore protagonista del capostipite, ovvero il mitico Kurt Russell.
Qualcuno salvi il Natale 2 è approdato su Netflix qualche giorno fa, vale a dire il 25 Novembre scorso. A distanza di un mese esatto, per l’appunto, dal giorno in cui i cristiani festeggiano l’anniversario della nascita di Gesù.
Riscuotendo presto ottime visualizzazioni e piazzandosi, fin dapprincipio, ai primissimi posti delle pellicole più guardate in questo periodo, ahinoi, funestato ancora dalle varie quarantene prescritteci mondialmente dagli stati governativi esageratamente oppressivi.
In tale momento di generale, preoccupante allarmismo internazionale, Qualcuno salvi il Natale 2 casca, come si suol dire, a fagiolo, armoniosamente e con fine letizia ritemprandoci, con dolcezza garbata risollevandoci, perlomeno in maniera estemporanea, dai nostri emotivi umori angosciati e terrorizzati, come detto, a causa degli eccessivi emendamenti impostici forse in modo esageratamente arbitrario e peranco abusivo.
Donandoci un po’ di sano divertimento illuminante quest’annus, non solo cinematografico e non soltanto per i cinefili e per gli amanti della Settima Arte, veramente tragico e nefasto. Dunque oggettivamente horribilis.
Trama:
Kate Pierce (Darby Camp) è ora cresciuta ed è una smaliziata turbolenta teenager. Dovrà però fare pace con sé stessa e incontrare ancora una volta Santa Claus (Russell) al fine di unire con lui le forze per sconfiggere un elfo cattivo che vuole nuovamente cancellare la festa del santo Natale.
Santa Claus, stavolta, sarà appoggiato nella sua battaglia per la salvezza del Natale dalla sua compagna (Goldie Hawn).
Qualcuno salvi il Natale 2 dura un’ora e cinquantadue minuti. Una durata forse esagerata. Se consideriamo che si tratta di un prodotto destinato perlopiù ai bambini.
Il film ha un ottimo ritmo e, malgrado il suo impianto decisamente dolciastro, si lascia vedere volentieri.
Qualcuno salvi il Natale 2 è altresì ingenuo, naturalmente, deboluccio nei dialoghi e, così come accaduto per il primo capitolo, la CGI risulta parecchio sciatta e realizzata in modo alquanto pedestre. Cioè, gli effetti speciali visivi appaiono davvero posticci ed artefatti.
Inoltre, la dolce Goldie Hawn è invecchiata, non poco.
Contento Kurt, contenti tutti e buon Natale a tout le monde!
Complimenti, comunque a Kurt Russell. La dimostrazione vivente che si può continuare sul “selciato” di Babbo Natale, interpretando la parte del nonnetto canuto con carisma immutato.
D’altronde, prima di Carpenter e dei grandi action con cui s’è affermato, ricordiamo che esordì in molti film della Disney. Dunque, un ritorno alle origini, il suo, degno di stima.
di Stefano Falotico
Intervista a Giulia Di Quilio in merito alla sua coraggiosa iniziativa INTIMATE CHALLENGE
Domanda: ti seguo sui social ed ho notato un’interessante iniziativa che hai lanciato in questi giorni. Ce ne vuoi parlare?
Sì… Ho lanciato una “sfida”, la cosiddetta “challenge” dei social, diretta alle donne in vista della giornata contro la violenza di genere, il 25 novembre. Si chiama #intimatechallenge: intimate in inglese significa intimo e mi piaceva la doppia valenza di intimo come personale ma anche di intimo nel senso di biancheria intima. Infatti ho lanciato la “sfida” con un selfie davanti allo specchio, proprio in intimo, il tutto accompagnato da questo testo, abbastanza esplicativo:
Una donna è quasi sempre contestata e questo è radicato in quasi tutte le culture, ed è profondamente sintomatico di una misoginia persistente praticamente ovunque. La sensazione, dopo gli ultimi fatti di cronaca, è che si continui a colpevolizzare il corpo delle donne e la nostra sensualità. Per questo partecipo alla #intimatechallenge per ribadire che: il #corpo è mio, posso mostrarlo #quando #come e a #chi voglio io! Invadiamo le home coi nostri corpi, esibiti con #orgoglio e senza #paura. Copia Incolla Partecipa #noslutshaming #intimatechallenge #25novembre #feminism
Ho lanciato la #intimatechallenge con l’intento di liberare il nostro corpo di donne. È vero, i modelli ci condizionano. Aderiamo, più o meno consapevolmente, ad una serie di immagini omologate. E il corpo, il nostro corpo, ne diventa il calco, il marchio, il vettore concreto e sottilmente ideologico. Il fatto è che, però, ribellarsi a questi modelli sembra equivalga, per molti, a negare il corpo. Non a valorizzarlo e a trasformarlo in un altro modo ma solo a cancellarlo. Così, però, si fa il gioco di chi del corpo ha paura: ovvero, tutti!!! E noi per prime… Vivere il corpo, utilizzarlo consciamente e liberamente, secondo alcuni, vorrebbe dire fare il gioco della cosiddetta società dell’immagine. Ma, dietro a questa giustificazione sociologica, si nasconde il più inconfessabile e irriducibile moralismo.
Domanda: il riferimento arriva dalla vicenda della maestra licenziata vicino Torino dopo un video di revenge porn divenuto virale che le ha causato la perdita del posto di lavoro e la pubblica gogna?
Esattamente! Una vicenda in cui le peggiori qualità umane si sono trovate insieme, rivolte contro una donna che aveva come unica colpa quella di avere una vita sessuale, come tutti noi. Un caso di bigottismo intollerabile. Per fortuna lo squallore del revenge porn, finalmente, è considerato un reato e, quindi, perseguibile per legge ma la terribile conseguenza dello slut-shaming purtroppo ancora non lo è: e cioè far sentire una donna inferiore o colpevole per i propri desideri sessuali o per il proprio comportamento, compreso l’essere considerate desiderabili per via del corpo che si ha o dell’abbigliamento che si indossa.
È un meccanismo utilizzato sia da uomini che da donne indistintamente, e lo conosco bene: lo vivo sulla mia pelle, avendo scelto di lavorare col mio corpo, esponendolo.
Non tutti sanno che, oltre ad essere un’attrice, sei anche una performer di burlesque.
Sì faccio burlesque da 10 anni ormai e l’erotismo l’ho sempre vissuto come qualcosa di “innocente”, passami il termine, nel senso che non gli ho mai dato una valenza morbosa, torbida o da censurare, invece l’ho sempre percepita come un’energia solare, giocosa, piacevole… per questo il burlesque ha appagato la mia parte più istintiva molto più di quanto abbia fatto il mio percorso da attrice. Nel burlesque sono uscita dalla posizione di “oggetto”, sperimentata come modella, e mi sono riscoperta soggetto con dei gusti, delle precise scelte stilistiche e contenutistiche (nel burlesque siamo registe e autrici di noi stesse) e soprattutto mi sono ritrovata in un mondo fatto di donne, scoprendo così il valore del “femminismo” (una parola che prima faceva paura o sembrava appartenere al passato e che oggi ha assunto un senso nuovo, attivo, presente), tenuto a distanza in altri ambienti, dove il maschilismo la fa da padrone.
È stato un percorso in discesa quello nel burlesque?
No, nonostante avessi fatto l’attrice e la modella, esponendomi a(l) nudo, a volte anche integrale, non è stato per niente facile spogliarmi su un palco. Ho accompagnato quel percorso all’analisi freudiana ed ho scoperto che in me agivano, seppur indirettamente, gli insegnamenti moralistici di mia nonna, donna di provincia degli anni 20 del 900. Non lo avrei mai detto, mi sono sempre considerata anticonvenzionale, il mio percorso nell’ambiente artistico ne era una riprova, eppure….
Quanto agiscono i pregiudizi di cui siamo imbevuti?
Tantissimo! Tanto da non rendercene nemmeno conto. Così, da anni ormai, anche attraverso l’insegnamento, aiuto le donne a liberare il proprio corpo, a liberarsi dai pregiudizi, ma non solo, anche dai complessi che noi donne coltiviamo numerosi perché da sempre il corpo della donna è esposto ai giudizi altrui, indistintamente.
Così, dopo l’iniziativa delle psicologhe emiliane coi cartelli “noi facciamo sesso, licenziateci tutte”, ho pensato di lanciare una challenge che ci mettesse tutte a “nudo”, anche se di nudo non parliamo, visto che i social ci avrebbero bannate, ma chiedendo di esporre la propria sensualità; si sa che, se un comportamento è condiviso, cessa di essere stigmatizzato.
E come è andata?
Bene, tante donne stanno aderendo in queste ore ma non sono mancati i commenti che non ti aspetti o, almeno, io, con la mia visione delle cose, non comprendo…
E cioè?
Ci sono stati due tipi di reazioni, una prevedibile, perché conosco le paure femminili… molte donne, pur sposando la causa, temono ancora molto il giudizio, in primis sull’aspetto estetico: “non sono in forma, non sono come te, non sto bene in intimo…”, e queste sono donne che capisco perché, come dicevo, ci sono passata anche io.
Poi c’è stata anche qualcuna che ha ammesso che non poteva per via del posto di lavoro… e questo la dice lunga sul problema…
Poi ci sono quelle che mi hanno detto: “non credo nel principio di questa challenge”, “non è in linea col mio profilo”, “per carità”, e queste le capisco un po’ meno e rimpiango lo stile americano: quando si crede in una giusta causa ci si schiera in blocco.
Detto questo, viva la libertà che ci deve permettere di scegliere, ci mancherebbe.
Hai seguito il contributo alla vicenda da parte di Chiara Ferragni?
Sì, la stimo e la seguo sempre e non è scontato che si spenda per delle cause importanti. Sta confermando di essere davvero una grande donna. E chiudo l’intervista proprio facendo riferimento al suo discorso: noi donne abbiamo bisogno adesso di fare rete, di unirci, per diventare più forti. Farci la guerra tra noi è solo un retaggio del patriarcato… guardiamo al futuro!
Dove ti vedremo?
Il 10 dicembre in diretta streaming al festival WOMEN’S ART INDIPENDENT FESTIVAL a parlare dell’immagine corporea della donna oggi… e poi, appena sarà possibile, tornerò al cinema: ho in uscita un film diretto da Marilù Manzini, IL QUADERNO NERO DELL’AMORE…
film ad alto tasso erotico, alla faccia del bigottismo!
La vita davanti a sé (THE LIFE AHEAD) di Edoardo Ponti con la grande Sophia Loren – Recensione
Ebbene, oggi recensiamo La vita davanti a sé (The Life Ahead).
Film distribuito da Netflix lo scorso, recente 13 Novembre, che sta riscuotendo enorme successo, essendosi subito piazzato al 4° posto dei film più visti in questo periodo sulla suddetta piattaforma streaming più famosa internazionalmente.
La vita davanti a sé è diretto da Edoardo Ponti (Cuori estranei), ça va sans dire, figlio dell’esimia Sophia Loren, qui protagonista assoluta nel suo trionfale comeback che potrebbe addirittura condurla alla Notte delle Stelle, sì, Sophia è già in odore di nomination all’Oscar, stando alle critiche estremamente lusinghiere ricevute dal film soprattutto oltreoceano, avendo tale pellicola totalizzato sul sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, l’ottimo 66% di pareri postivi, lodanti specialmente la sua appassionante prova molto sentita ed emozionante.
Tratto da un celebre ed acclamato, epocale romanzo di Romain Gary, già eccellentemente trasposto per il grande schermo, col titolo originale La vie devant soi, in una famosa versione del ‘77 con Simone Signoret, La vita davanti a sé di Ponti dura 1h e trentasei minuti ed è sceneggiato da Ugo Chiti, navigato writer collaboratore ultimamente inseparabile di Matteo Garrone (Il racconto dei racconti, Dogman, Gomorra) e, in passato, immancabile e graffiante penna soprattutto del corrosivo Francesco Nuti (Willy Signori e vengo da lontano, OcchioPinocchio, Donne con le gonne) e del suo goliardico amico Alessandro Benvenuti (Benvenuti in casa Gori), oltre che di Giovanni Veronesi (Italians e la trilogia di Manuale d’amore), in collaborazione con gli apporti dello stesso Ponti e di Fabio Natale, i quali hanno personalmente “revisionato” alcuni elementi dello script, inserendovi tocchi abbastanza rimarchevoli della loro personalità finemente congiunta a quella tagliente ed esplosivamente acuminata di Chiti.
La vicenda descritta ne La vita davanti a sé di Ponti ricalca piuttosto fedelmente la trama del romanzo omonimo di Gary, spostando però considerevolmente l’ambientazione dall’originaria Belleville parigina, quartiere della capitale francese assai noto per il suo variopinto e strambo melting pot ricolmo di etnie interraziali per l’appunto ruspanti e vivamente colorite, all’altrettanto pittoresca, forsanche più suggestiva e incantevolmente poetica, quasi pauperistica Bari vecchia.
Momo (Ibrahima Gueye) è un ragazzino senegalese di soli dodici anni abbandonato a sé stesso. Spaurito e spaesato in mezzo alla tentatrice, frenetica Bari suburbana, Momo è, potremmo dire, ulteriormente svantaggiato nell’adattarsi in un “paese straniero” per colpa del suo brusco, aggressivo carattere indomabilmente ribelle.
Su pressanti richieste del dottor Cohen (Renato Carpentieri), Momo trova ospitalità presso la decadente e al contempo rinomatamente inquietante e splendente magione gestita da Madame Rosa (Loren). Una vecchia ex prostituta di origini ebree scampata miracolosamente ai campi di concentramento di Auschwitz durante l’Olocausto.
Inizialmente, fra Momo e l’anziana signora Rosa non corre buon sangue. Viste le differenze anagrafiche, culturali e di background diametralmente opposte, difatti, avvengono immediatamente feroci litigi fra i due che culminano in furiose e turbolente incomprensioni che però, col passare del tempo, s’attenueranno e placheranno pacificamente, acchetandosi e sviluppandosi positivamente per di più in inaspettate affinità insospettabilmente elettive, diciamo anche rigenerative, cementandosi in una sorprendente, stupenda amicizia umanamente tenera e affettuosamente toccante.
Momo, nel frattempo, è andato a invischiarsi pericolosamente con dei concittadini malviventi, essendosi prestato per loro allo spaccio della droga.
Riuscirà Madame Rosa, con la sua forza da donna duramente resiliente alla tremenda vita da lei sofferentemente esperita, dunque col coraggio e la maturità derivatele dalla sua saggia, comprensiva, lottatrice anzianità ancora piena di vitalità inarrendevole, ad aiutare Momo nel suo difficile percorso della vita?
La vita davanti a sé non è certamente un capolavoro ma segna il ritorno della mitica Loren al Cinema.
Dopo Nine di Rob Marshall, le sue precedenti prove con lo stesso Ponti, fra cui il mediometraggio Voce umana e il succitato Between Strangers, dopo Peperoni ripieni e pesci in faccia di Lina Wertmüller, la signora Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Loren, Academy Award winner per La ciociara e Oscar alla Carriera, lascia ancora il segno.
Consegnandoci forse la sua ultima, ahinoi, prova per il grande schermo, piena di pathos ammantato di leggendarietà.
Il film vale quasi esclusivamente per lei, la Loren!
La vita davanti a sé assomiglia, purtroppo, spesso a una fiction di matrice ecumenica da prima serata tv di Rai Uno, cioè un feel good movie godibile, sicuramente non memorabile, furbamente ma anche dolcemente costruito a mo’ di delicato, un po’ dolciastro eppur efficace racconto di formazione adatto specialmente a una visione in famiglia per una buonista letizia pre-natalizia, un film piacevole anche se talvolta mielosamente insopportabile, supportato dalle notevoli scenografie ambientalistiche e paesaggistiche del bravo Maurizio Sabatini, aficionado di Roberto Benigni, e sostenuto dall’onnipresente, soprattutto nei titoli di coda, retorica, “marchettara” ma impattante canzone della nostra cantante più venduta al mondo, cioè Laura Pausini, Io sì, a far da traino alla corsa verso gli Oscar della strepitosa Loren.
Vai Sophia, tifiamo naturalmente per te.
Grande Sophia!
Uomini, alle prossime erezioni, votate il Genius, in Arte il Falotico! Vota Antonio? No, vota il Principe non de Curtis, bensì totoiano a suo modo di vedere il mondo, un uomo non corto di cervello ma “lungimirante” di qualcos’altro. Un uomo straordinario che promette faville e fave, insomma, La vita è bella e, come disse Benigni, dove lo trovate uno più bello di me? Un uomo che è una vivente favola eccitante. Un uomo che non si prostituirà mai al sistema ove la gente, disoccupata, pur di arrivare a fine mese, scommette alla SNAI di sistemi. Gente diseredata che, nella vita, aveste poco sedere, non sputtanate i vostri risparmi nel prendere tutto a culo. A prenderlo in questo posto e a prendere non sberlone, metafora di sgnacchere e passerone, bensì a venire presi per coglioni.
Ribellatevi, sprigionate voi stessi! Scatenatevi lontani da ogni catena. Di Sant’Antonio? In quanto il governo ci ha chiuso in quarantena come se fossimo nelle case chiuse. Un uomo vivo, il Falò, un uomo rinnovato ma dal rovinoso passato, un uomo cioè rovinato. Un uomo psicologicamente distrutto che combatte però stoicamente con grinta e sana ira affinché tutti possano godere in maniera egualitaria, forse anche in galera, dei frutti della figa, no, vita. Un uomo pregno di sua immane restaurazione che promette agli esercenti rovinati dal Covid-19, sì, una felice ristorazione. Poiché, restaurandoci e ristorandoci tutti assieme appassionatamente o demoralizzati in modo iper-potente, andremo a brindare in trattoria oppure finiremo a troie. Un uomo ritornato, il Falò, come Ulisse a Troia.
E allora, evviva L’oro di Napoli e Totò Tarzan, evviva il Parmacotto e quest’uomo cottissimo, oserei dire bollito ma sempre in ebollizione. Il Falotico, un uomo bioetico dall’imbattibile etica e sempre con la voglia di qualcosa di etilico per rallegrare l’ubriaca compagnia di questa vita fradicia e puttana.
Accattatevelo! E votatelo!
di Stefano Falotico
INLAND EMPIRE, review del masterpiece assoluto di LYNCH!
Ebbene, è finalmente uscito il Blu-ray versione deluxe di uno dei massimi film della storia del Cinema, sì, lo è.
Nientepopodimeno che Inland Empire – L’impero della mente, nella più e più volte rimandata, ora assolutamente disponibile confezione a tiratura limitata col Master HD approvato dallo stesso David Lynch, il creatore, ideatore, ovviamente regista e produttore, assieme alla sua inseparabile compagna artistica, Mary Sweeney, di tale leggendaria pellicola oramai epocale assurta a totem avanguardistico della più rinomata vetta monumentale della fabbrica dei sogni, fin dapprincipio, ovvero sin dalla sua primissima presentazione in anteprima mondiale all’indimenticabile 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, avvenuta nel fatidico giorno del 6 Settembre 2006, dì nel quale Lynch fu omaggiato col sacrosanto Leone d’oro alla Carriera, entrata di diritto fra le invincibili e inscalfibili, inamovibili pietre miliari della Settima Arte intesa nella sua forma più superlativamente maiuscola e vertiginosamente mastodontica.
Un capolavoro indiscutibile per il quale la parola capolavoro ci pare addirittura riduttiva e sminuente l’immensamente encomiabile grandezza immane di Inland Empire – L’impero della mente, perfino da taluni, dei totali profani e irriguardosi incompetenti odiosi, non ancora pienamente apprezzato e giustamente incensato nella sua grandiosità inarrivabile e incommensurabilmente portentosa.
Cosicché, dopo aver reinventato il Cinema moderno con l’espressionista, soprattutto impressionante Mulholland Dr., David Lynch sbarcò ed approdò a Venezia ove consacrò il suo genio eterno e paradisiaco, cementandolo con un’opus magna dalla venustà impari, un’opera così magniloquente, effervescente d’immagini spasmodicamente deliranti nella loro visionaria, altisonante brillantezza colossale da indurci attonitamente ad incontenibili, viscerali grida di piacere grondanti ed urlanti maestosi godimenti cinefili così emozionalmente toccanti e potenti d’accecarci per sempre in un infinito bagliore estatico imperituramente immortale e super lucente.
Inland Empire, signore e signori, l’impero della mente di Lynch stesso al suo zenit follemente creativo più smisuratamente eccentrico, mr. Bizzaria per eccellenza asceso nel firmamento stellato degli dei cinematografici più spaziali, esplososi in un filmato sogno-incubo armonico dei più altissimamente deliziosi, detonatosi in squisito, gigantesco formato stravaganza culturalmente pop più esotericamente eccelsa.
Trama, cioè in verità un pretesto straordinariamente bugiardo dietro al quale, con la scusante d’un vago, comunque già misterico, intreccio che, nella prima, esatta ora, pare assumere una connotazione diegetica approssimativamente “normale”, nelle restanti due ore di tale opera sconfinatamente perlacea della durata, per l’appunto, di 180 min. circa, volutamente si sfilaccia, si spezzetta, dà in escandescenza e poi repentinamente, a mo’ di visive, allucinatorie serpentine superbe, si ricompone mestamente in modo pacatamente e liquidamente languido, (dis)organicamente coagulandosi (in)consapevolmente, sì, a forma d’inconscio junghiano (ef)fuso in schizoidi frame dispostici a mo’ di mosaico ravennate intrecciato a sua volta in filmiche e sanguigne, furenti e fiammeggianti, al contempo tetre e immaginifiche dinamiche agganciate all’acronimo REM, ovvero il rapid eyes movement non ritraente soltanto il personalissimo onirismo traspostoci da David in magnificente suo fantastico vaneggiamento da applauso a scena aperta, bensì una lynchiana messa in scena stessa pazzamente, potremmo dire, fragrantemente deflagrante vellutatamente in figurativa furia orgasmica diluitaci meravigliosamente in tocchi di Arte pura delle più ingegnosamente adamantine e conturbanti.
Comunque sia, non dilunghiamoci, ecco la trama. Sintetizzata per quanto il termine riassumibile, in tal caso, coincida con impossibile:
Nikki Grace (una Laura Dern mai così bella a brava, altro che il suo immeritato Oscar tardivo per il sopravvalutato, così come a sua performance sovrastimata, Storia di un matrimonio), attrice che vive in una lussuosissima villa alle pendici di Hollywood, viene scelta per interpretare il remake particolare di un film maledetto mai completato, intitolato Il buio cielo del domani. A sua insaputa però, in quanto inizialmente ignara, perlomeno solo parzialmente informata che il film per il quale è stata designata altri non è che un rifacimento sui generis, come detto, d’una pellicola su cui aleggia il fantasma d’una maledizione somigliante, se vogliamo giocare di suggestivi parallelismi meta-cinematografici, a quella del tremendo La Fin Absolue du Monde, il bramato film maledettamente orrendo tanto ricercato da Udo Kier del superbo Cigarette Burns di John Carpenter.
Diretta dal gentile e balzano Kingsley (un Jeremy Irons in ottima forma), che è accompagnato dal suo braccio destro squattrinato e disgraziato, Freddie Howard (il compianto Harry Dean Stanton, ex attore feticcio di Lynch per antonomasia), Nikki si trova a recitare a fianco della giovane, affascinante promessa attoriale maschile di nome Devon Berk, forse Billy Side? (Justin Theroux). Un vero suo spasimante nella realtà o solo un fittizio, anzi, un insulso fantoccio innamorato di lei solamente in una finzione che tale potrebbe anche non essere? Essendo probabilmente invece una speculare realtà parallela da lei captata e vista attraverso l’ottica, forse a sua volta deformante, d’un sogno, ripetiamo, paurosamente bello in cui si riflette e in cui le sue emozioni si fratturano e rifrangono ininterrottamente? Forse soltanto frutto della sua alterata, confusissima mente squagliatasi nei suoi deliri a loro volta cagionatele da un marito perfido subdolamente?
E lei stessa, Nikki, è davvero Nikki o Susan Blue, oppure è Alice in Wonderland?
E i conigli antropomorfi alla tv chi sono?
Nikki diventa una donna digitalizzata nel morphing?
È un sogno quello che sta vivendo e ciò che stiamo vedendo oppure è un magico incubo terribile ad occhi aperti?
E se avesse avuto ragione, invece, la poco di buono, rimbambita “strega” sua vicina di casa interpretata dalla grande Grace Zabriskie?
La dimenticanza è quindi rifiorita nella fluorescente, fiorita reminiscenza caleidoscopica delle sue più ancestrali memorie rimosse ed ora, come per magia, coloratamente riemerse in tutto il loro abbagliante terrore estasiante?
Chissà…
Nel cast, fra i tanti, per meglio dire fra i cammei, Julia Ormond, Diane Ladd (madre, nella vita reale, di Laura Dern, Cuore selvaggio docet), Mary Steenburgen, William H. Macy, Laura Harring, Kristen Kerr, Nastassja Kinski e le partecipazioni straordinarie delle “voci” di Naomi Watts e dello stesso Lynch non accreditato, qui anche montatore.
Ribadiamo, Inland Empire è un capolavoro immenso.
Inutile aggiungere altro.
Inutile “spiegarlo”.
Se non vi sta bene, tiratevi delle seghe su Martina Stella e mangiate gli spaghetti mal cotti di vostra zia più brutta della signorina Silvani.
di Stefano Falotico
UNA STORIA VERA (The Straight Story), recensione
Ebbene, oggi recensiamo uno dei massimi capolavori di monsieur David Lynch, Una storia vera. Anche se, ad essere onesti, più che altro incontrovertibilmente obiettivi, è pressoché impossibile non definire quasi ogni opera di Lynch una pellicola che non possa meritarsi la nomea, sacrosanta, di masterpiece assoluto ed intoccabile.
Inoltre, potrà apparire pedante e pleonastico rimarcarlo ma la sua filmografia è costellata esclusivamente da film inarrivabili e qualitativamente, artisticamente emananti venustà cinematografica veramente smagliante, osiamo dire eternamente ammaliante, in una parola magnificente.
Una storia vera fu presentato in Concorso al Festival di Cannes e, a dispetto delle parole lusinghiere appena da noi giustamente emesse nei riguardi dell’insindacabile maestria cineastica del genio Lynch, parole che certamente avrebbero già ampiamente condiviso i giurati della kermesse a cui, per l’appunto, Una storia vera partecipò, ricevendo peraltro una lunga standing ovation dopo la sua prima ufficiale dalla stampa di allora, la Critica mondiale dell’epoca rimase parzialmente interdetta e spiazzata da questa virata lynchiana decisamente poco allineata alle sue spericolate, squisitamente deliranti e grottesche incursioni trascorse da director abituato a film profondamente enigmatici ed ermetici, intrisi di sua folle poetica visionaria soventemente appartenente al proprio inscindibile e imprescindibile, strambo, magmatico, perfino esoterico excursus da regista fuori da ogni canone tipicamente classico e convenzionale.
Infatti, forse assieme ad Elephant Man, Una storia vera è un film dalla trama lineare, semplicissima e lo stile di Lynch, abbandonando i suoi celeberrimi e consueti, potremmo dire, fantasiosi e funambolici, criptici e al contempo stupefacenti voli pindarici personalissimi, trova una pacata compostezza desueta rispetto, come detto, alle storie arzigogolate, anzi, ricolme di ghirigori fantasmagorici, visivamente parlando, delle sue altre passate e future prove.
Il titolo originale, difatti, di Una storia vera ha e contiene in sé un doppio significato… una storia “dritta”, straight, nel senso di chiara, autentica e limpida, diciamo genuina. Straight è anche però il cognome del suo protagonista.
Trama:
un anziano signore dell’Iowa, Alvin Straight (Richard Farnsworth), il quale vive la sua monotona, stanca vecchiaia nella sua modesta abitazione di campagna assieme alla dolce figlia Rose (Sissy Spacek), riceve all’improvviso una perturbante telefonata inaspettata.
Viene avvisato che suo fratello Lyle (Harry Dean Stanton) è stato colpito da un grave infarto ed è ora dunque malato. Rischia cioè, presto, di morire. Essendosi aggravate le sue precarie condizioni già cagionevoli di salute fisica
Al che, Alvin, malgrado non abbia più la patente in quanto gli è stata ritirata per ovvii motivi anagrafici, decide di andare a trovare Lyle col quale, da molti anni, per orgogliosi asti e vecchie, reciproche acredini mai sanate, non parla addirittura più.
Alvin si mette così in viaggio verso il Wisconsin ove abita suo fratello.
Il Wisconsin dista dallo Iowa la bellezza di circa duecentoquaranta miglia e Alvin è provvisto solamente di un trattorino rasa erba, fra l’altro, scassato e arrugginito. Sì, una carrucola più lenta di una lumaca, come si suol dire.
Una pazza impresa, dunque, la sua. Quella di avventurarsi, con un mezzo di trasporto così lento e soprattutto inaffidabile, lungo le pericolose e assai lunghe (perdonateci il voluto gioco di parole) highway sconfinate, forsanche dissestate dell’America più profonda e misteriosa.
Durante il suo interminabile, assai faticoso cammino tortuoso, Alvin fa incontri dei più disparati, incrociando gente di ogni risma ed entrando a contatto con una colorita e non sempre piacevolmente pittoresca umanità pullulata da personaggi assurdi, perfino inquietanti.
Una storia vera, tratto da un soggetto di John Roach e Mary Sweeney, abituale collaboratrice di Lynch, specialmente in veste di produttrice e montatrice (Strade perdute, Inland Empire, I segreti di Twin Peaks), e sceneggiato dagli stessi, musicato come al solito da uno straordinario Angelo Badalamenti, fotografato dall’immenso Freddie Francis, è poesia pura trasposta in immagini fulgidamente ipnotiche.
Un film che tocca molti temi con una dolcezza melanconica vertiginosa, infinitamente toccante in modo prodigioso.
Un’immane riflessione apoteotica sul tempo e sui rimpianti, sullo splendore e al contempo sull’orrore ineludibile della vita nella sua nuda semplicità emozionalmente straziante.
Siamo dinanzi a un capolavoro ineguagliabile.
di Stefano Falotico
LETTER TO YOU by BRUCE SPRINGSTEEN, alias BOSS – REVIEW
Ebbene, il Boss è tornato con Letter To You. Un’ode alla più dolce, fosca, tenera e al contempo tenebrosa, malinconica sua reminiscenza monumentale di natura mondialmente musicale, un’epica e soffice raccolta delicata, già d’antologia, incastonata e sigillata eternamente nella mirabilissima sua rocciosa eternità perpetua ed eterea. Una carezza lieve donata alle nostre anime. Alle volte spaurite, melanconiche, altre volte grintosamente auto-echeggianti l’evocativa virtù dell’infinità (u)morale delle nostre stesse accorate sensazioni traballanti, in continuo mutamento e rigenerativa freschezza persino euforica dopo tante eclissi dei nostri cuori spezzati, oscuratisi nel buio e poi, di colpo, risorti magnificamente in gloria.
Quest’uomo immarcescibile, oramai appurata ed incontestabile leggenda vivente incarnata nel suo viso oggi smagrito, nella sua ectoplasmatica sagoma avvolta da una nebbiosa atmosfera nevosa, camminando nell’asperità romantica dei suoi perenni, giammai vinti, crepuscolari e al contempo infuocati dubbi esistenziali, pare che riemerga dalle soffuse penombre di sé stesso, incorporandosi nel revenant cantore delle sue incantevoli memorie magiche. Pietrificate nello splendore dell’adamantino rammemorare il suo e nostro cammino poetico, addirittura ambiguamente ermetico. Sobrio e lucente.
Bruce Springsteen, ladies and gentlemen, che nella copertina del suo nuovo, stupendo album imprescindibile non solo per i suoi irriducibili aficionado, ormeggiando in metaforico the river sulfureo della plumbea, “accordata” mareggiata emotiva della sua carriera oceanica, ci regala un’altra perla piena di canzoni dolcemente lievi evocanti forse A Christmas Carol di Charles Dickens, soavi come un’onirica, atmosfera natalizia, per l’appunto, appaiabile a Paul Auster o, forse, alla squisita amabilità commovente del derivatone, cinematograficamente, racconto vividamente sentito di Harvey Keitel in Smoke.
Letter To You profuma di concettuale spiritualità quasi gospel, sì, di mistica ed avvolgente, allo stesso tempo sanguigna vivacità toccante. Pare, a tratti, addirittura un moderno canto gregoriano.
Dopo Western Stars, elegia dedicata alle anime spare parts dell’infinita, folle e visionaria America forse perduta eppur combattivamente resiliente, a settant’uno il Boss si restaura nel ricordarsi, nel contemplare la bellezza sfuggevole e cangevole del tempo rivisto, introiettato e cantato con la forza ancora gagliarda della sua tempestosa leggendarietà inscalfibile ed immutata.
Cosicché, recuperando dal cassetto dei suoi stessi sogni giammai arenatisi ed assopitisi, alcune canzoni incomplete ed inedite degli anni settanta, alternandole a brani del tutto nuovi, levigati nelle sue vocali corde già, puntualmente, indimenticabili, c’allieta e culla con vibrante, senziente beltà marmorea.
Rilluminando sé stesso, estasiandoci nel far sì che, ancora una volta, possiamo immergerci attraverso lui in un altrove luccicante di lucida, fortemente impalpabile voglia di vivere e rivivere. Di amare e ricordare per rinascere nuovamente intrepidi ed agguerriti. Ancorandoci al passato per rielaborarlo, assieme a lui, in forma catarticamente suadente e morbida.
Con Ghosts supera sé stesso, mormorandoci la levità della fantasia immaginativa e della mnemonica frenesia del suo rispolverare il suo e nostro excursus insuperabilmente, strenuamente agganciato alla purezza dei nostri ricordi riscaturiti vulcanicamente in esplosiva potenza vitale, inarrendevole e, nonostante tutto, ancora intatta. Ripetiamo, immutabile.
Anche se a noi è piaciuta da morire soprattutto Song for Orphans.
Sì, Letter To You non tocca certamente le vette di perfezione stilistica di Nebraska, Bruce Springsteen non è più quel ragazzo strepitosamente e meravigliosamente scalmanato di Born to Run, ma è sempre lui.
In Letter to You aleggia anche la presenza, chissà, di un altro rocker immenso, Bob Dylan.
di Stefano Falotico