La vita davanti a sé (THE LIFE AHEAD) di Edoardo Ponti con la grande Sophia Loren – Recensione
Ebbene, oggi recensiamo La vita davanti a sé (The Life Ahead).
Film distribuito da Netflix lo scorso, recente 13 Novembre, che sta riscuotendo enorme successo, essendosi subito piazzato al 4° posto dei film più visti in questo periodo sulla suddetta piattaforma streaming più famosa internazionalmente.
La vita davanti a sé è diretto da Edoardo Ponti (Cuori estranei), ça va sans dire, figlio dell’esimia Sophia Loren, qui protagonista assoluta nel suo trionfale comeback che potrebbe addirittura condurla alla Notte delle Stelle, sì, Sophia è già in odore di nomination all’Oscar, stando alle critiche estremamente lusinghiere ricevute dal film soprattutto oltreoceano, avendo tale pellicola totalizzato sul sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, l’ottimo 66% di pareri postivi, lodanti specialmente la sua appassionante prova molto sentita ed emozionante.
Tratto da un celebre ed acclamato, epocale romanzo di Romain Gary, già eccellentemente trasposto per il grande schermo, col titolo originale La vie devant soi, in una famosa versione del ‘77 con Simone Signoret, La vita davanti a sé di Ponti dura 1h e trentasei minuti ed è sceneggiato da Ugo Chiti, navigato writer collaboratore ultimamente inseparabile di Matteo Garrone (Il racconto dei racconti, Dogman, Gomorra) e, in passato, immancabile e graffiante penna soprattutto del corrosivo Francesco Nuti (Willy Signori e vengo da lontano, OcchioPinocchio, Donne con le gonne) e del suo goliardico amico Alessandro Benvenuti (Benvenuti in casa Gori), oltre che di Giovanni Veronesi (Italians e la trilogia di Manuale d’amore), in collaborazione con gli apporti dello stesso Ponti e di Fabio Natale, i quali hanno personalmente “revisionato” alcuni elementi dello script, inserendovi tocchi abbastanza rimarchevoli della loro personalità finemente congiunta a quella tagliente ed esplosivamente acuminata di Chiti.
La vicenda descritta ne La vita davanti a sé di Ponti ricalca piuttosto fedelmente la trama del romanzo omonimo di Gary, spostando però considerevolmente l’ambientazione dall’originaria Belleville parigina, quartiere della capitale francese assai noto per il suo variopinto e strambo melting pot ricolmo di etnie interraziali per l’appunto ruspanti e vivamente colorite, all’altrettanto pittoresca, forsanche più suggestiva e incantevolmente poetica, quasi pauperistica Bari vecchia.
Momo (Ibrahima Gueye) è un ragazzino senegalese di soli dodici anni abbandonato a sé stesso. Spaurito e spaesato in mezzo alla tentatrice, frenetica Bari suburbana, Momo è, potremmo dire, ulteriormente svantaggiato nell’adattarsi in un “paese straniero” per colpa del suo brusco, aggressivo carattere indomabilmente ribelle.
Su pressanti richieste del dottor Cohen (Renato Carpentieri), Momo trova ospitalità presso la decadente e al contempo rinomatamente inquietante e splendente magione gestita da Madame Rosa (Loren). Una vecchia ex prostituta di origini ebree scampata miracolosamente ai campi di concentramento di Auschwitz durante l’Olocausto.
Inizialmente, fra Momo e l’anziana signora Rosa non corre buon sangue. Viste le differenze anagrafiche, culturali e di background diametralmente opposte, difatti, avvengono immediatamente feroci litigi fra i due che culminano in furiose e turbolente incomprensioni che però, col passare del tempo, s’attenueranno e placheranno pacificamente, acchetandosi e sviluppandosi positivamente per di più in inaspettate affinità insospettabilmente elettive, diciamo anche rigenerative, cementandosi in una sorprendente, stupenda amicizia umanamente tenera e affettuosamente toccante.
Momo, nel frattempo, è andato a invischiarsi pericolosamente con dei concittadini malviventi, essendosi prestato per loro allo spaccio della droga.
Riuscirà Madame Rosa, con la sua forza da donna duramente resiliente alla tremenda vita da lei sofferentemente esperita, dunque col coraggio e la maturità derivatele dalla sua saggia, comprensiva, lottatrice anzianità ancora piena di vitalità inarrendevole, ad aiutare Momo nel suo difficile percorso della vita?
La vita davanti a sé non è certamente un capolavoro ma segna il ritorno della mitica Loren al Cinema.
Dopo Nine di Rob Marshall, le sue precedenti prove con lo stesso Ponti, fra cui il mediometraggio Voce umana e il succitato Between Strangers, dopo Peperoni ripieni e pesci in faccia di Lina Wertmüller, la signora Sofia Costanza Brigida Villani Scicolone, in arte Loren, Academy Award winner per La ciociara e Oscar alla Carriera, lascia ancora il segno.
Consegnandoci forse la sua ultima, ahinoi, prova per il grande schermo, piena di pathos ammantato di leggendarietà.
Il film vale quasi esclusivamente per lei, la Loren!
La vita davanti a sé assomiglia, purtroppo, spesso a una fiction di matrice ecumenica da prima serata tv di Rai Uno, cioè un feel good movie godibile, sicuramente non memorabile, furbamente ma anche dolcemente costruito a mo’ di delicato, un po’ dolciastro eppur efficace racconto di formazione adatto specialmente a una visione in famiglia per una buonista letizia pre-natalizia, un film piacevole anche se talvolta mielosamente insopportabile, supportato dalle notevoli scenografie ambientalistiche e paesaggistiche del bravo Maurizio Sabatini, aficionado di Roberto Benigni, e sostenuto dall’onnipresente, soprattutto nei titoli di coda, retorica, “marchettara” ma impattante canzone della nostra cantante più venduta al mondo, cioè Laura Pausini, Io sì, a far da traino alla corsa verso gli Oscar della strepitosa Loren.
Vai Sophia, tifiamo naturalmente per te.
Grande Sophia!
Uomini, alle prossime erezioni, votate il Genius, in Arte il Falotico! Vota Antonio? No, vota il Principe non de Curtis, bensì totoiano a suo modo di vedere il mondo, un uomo non corto di cervello ma “lungimirante” di qualcos’altro. Un uomo straordinario che promette faville e fave, insomma, La vita è bella e, come disse Benigni, dove lo trovate uno più bello di me? Un uomo che è una vivente favola eccitante. Un uomo che non si prostituirà mai al sistema ove la gente, disoccupata, pur di arrivare a fine mese, scommette alla SNAI di sistemi. Gente diseredata che, nella vita, aveste poco sedere, non sputtanate i vostri risparmi nel prendere tutto a culo. A prenderlo in questo posto e a prendere non sberlone, metafora di sgnacchere e passerone, bensì a venire presi per coglioni.
Ribellatevi, sprigionate voi stessi! Scatenatevi lontani da ogni catena. Di Sant’Antonio? In quanto il governo ci ha chiuso in quarantena come se fossimo nelle case chiuse. Un uomo vivo, il Falò, un uomo rinnovato ma dal rovinoso passato, un uomo cioè rovinato. Un uomo psicologicamente distrutto che combatte però stoicamente con grinta e sana ira affinché tutti possano godere in maniera egualitaria, forse anche in galera, dei frutti della figa, no, vita. Un uomo pregno di sua immane restaurazione che promette agli esercenti rovinati dal Covid-19, sì, una felice ristorazione. Poiché, restaurandoci e ristorandoci tutti assieme appassionatamente o demoralizzati in modo iper-potente, andremo a brindare in trattoria oppure finiremo a troie. Un uomo ritornato, il Falò, come Ulisse a Troia.
E allora, evviva L’oro di Napoli e Totò Tarzan, evviva il Parmacotto e quest’uomo cottissimo, oserei dire bollito ma sempre in ebollizione. Il Falotico, un uomo bioetico dall’imbattibile etica e sempre con la voglia di qualcosa di etilico per rallegrare l’ubriaca compagnia di questa vita fradicia e puttana.
Accattatevelo! E votatelo!
di Stefano Falotico
INLAND EMPIRE, review del masterpiece assoluto di LYNCH!
Ebbene, è finalmente uscito il Blu-ray versione deluxe di uno dei massimi film della storia del Cinema, sì, lo è.
Nientepopodimeno che Inland Empire – L’impero della mente, nella più e più volte rimandata, ora assolutamente disponibile confezione a tiratura limitata col Master HD approvato dallo stesso David Lynch, il creatore, ideatore, ovviamente regista e produttore, assieme alla sua inseparabile compagna artistica, Mary Sweeney, di tale leggendaria pellicola oramai epocale assurta a totem avanguardistico della più rinomata vetta monumentale della fabbrica dei sogni, fin dapprincipio, ovvero sin dalla sua primissima presentazione in anteprima mondiale all’indimenticabile 63ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, avvenuta nel fatidico giorno del 6 Settembre 2006, dì nel quale Lynch fu omaggiato col sacrosanto Leone d’oro alla Carriera, entrata di diritto fra le invincibili e inscalfibili, inamovibili pietre miliari della Settima Arte intesa nella sua forma più superlativamente maiuscola e vertiginosamente mastodontica.
Un capolavoro indiscutibile per il quale la parola capolavoro ci pare addirittura riduttiva e sminuente l’immensamente encomiabile grandezza immane di Inland Empire – L’impero della mente, perfino da taluni, dei totali profani e irriguardosi incompetenti odiosi, non ancora pienamente apprezzato e giustamente incensato nella sua grandiosità inarrivabile e incommensurabilmente portentosa.
Cosicché, dopo aver reinventato il Cinema moderno con l’espressionista, soprattutto impressionante Mulholland Dr., David Lynch sbarcò ed approdò a Venezia ove consacrò il suo genio eterno e paradisiaco, cementandolo con un’opus magna dalla venustà impari, un’opera così magniloquente, effervescente d’immagini spasmodicamente deliranti nella loro visionaria, altisonante brillantezza colossale da indurci attonitamente ad incontenibili, viscerali grida di piacere grondanti ed urlanti maestosi godimenti cinefili così emozionalmente toccanti e potenti d’accecarci per sempre in un infinito bagliore estatico imperituramente immortale e super lucente.
Inland Empire, signore e signori, l’impero della mente di Lynch stesso al suo zenit follemente creativo più smisuratamente eccentrico, mr. Bizzaria per eccellenza asceso nel firmamento stellato degli dei cinematografici più spaziali, esplososi in un filmato sogno-incubo armonico dei più altissimamente deliziosi, detonatosi in squisito, gigantesco formato stravaganza culturalmente pop più esotericamente eccelsa.
Trama, cioè in verità un pretesto straordinariamente bugiardo dietro al quale, con la scusante d’un vago, comunque già misterico, intreccio che, nella prima, esatta ora, pare assumere una connotazione diegetica approssimativamente “normale”, nelle restanti due ore di tale opera sconfinatamente perlacea della durata, per l’appunto, di 180 min. circa, volutamente si sfilaccia, si spezzetta, dà in escandescenza e poi repentinamente, a mo’ di visive, allucinatorie serpentine superbe, si ricompone mestamente in modo pacatamente e liquidamente languido, (dis)organicamente coagulandosi (in)consapevolmente, sì, a forma d’inconscio junghiano (ef)fuso in schizoidi frame dispostici a mo’ di mosaico ravennate intrecciato a sua volta in filmiche e sanguigne, furenti e fiammeggianti, al contempo tetre e immaginifiche dinamiche agganciate all’acronimo REM, ovvero il rapid eyes movement non ritraente soltanto il personalissimo onirismo traspostoci da David in magnificente suo fantastico vaneggiamento da applauso a scena aperta, bensì una lynchiana messa in scena stessa pazzamente, potremmo dire, fragrantemente deflagrante vellutatamente in figurativa furia orgasmica diluitaci meravigliosamente in tocchi di Arte pura delle più ingegnosamente adamantine e conturbanti.
Comunque sia, non dilunghiamoci, ecco la trama. Sintetizzata per quanto il termine riassumibile, in tal caso, coincida con impossibile:
Nikki Grace (una Laura Dern mai così bella a brava, altro che il suo immeritato Oscar tardivo per il sopravvalutato, così come a sua performance sovrastimata, Storia di un matrimonio), attrice che vive in una lussuosissima villa alle pendici di Hollywood, viene scelta per interpretare il remake particolare di un film maledetto mai completato, intitolato Il buio cielo del domani. A sua insaputa però, in quanto inizialmente ignara, perlomeno solo parzialmente informata che il film per il quale è stata designata altri non è che un rifacimento sui generis, come detto, d’una pellicola su cui aleggia il fantasma d’una maledizione somigliante, se vogliamo giocare di suggestivi parallelismi meta-cinematografici, a quella del tremendo La Fin Absolue du Monde, il bramato film maledettamente orrendo tanto ricercato da Udo Kier del superbo Cigarette Burns di John Carpenter.
Diretta dal gentile e balzano Kingsley (un Jeremy Irons in ottima forma), che è accompagnato dal suo braccio destro squattrinato e disgraziato, Freddie Howard (il compianto Harry Dean Stanton, ex attore feticcio di Lynch per antonomasia), Nikki si trova a recitare a fianco della giovane, affascinante promessa attoriale maschile di nome Devon Berk, forse Billy Side? (Justin Theroux). Un vero suo spasimante nella realtà o solo un fittizio, anzi, un insulso fantoccio innamorato di lei solamente in una finzione che tale potrebbe anche non essere? Essendo probabilmente invece una speculare realtà parallela da lei captata e vista attraverso l’ottica, forse a sua volta deformante, d’un sogno, ripetiamo, paurosamente bello in cui si riflette e in cui le sue emozioni si fratturano e rifrangono ininterrottamente? Forse soltanto frutto della sua alterata, confusissima mente squagliatasi nei suoi deliri a loro volta cagionatele da un marito perfido subdolamente?
E lei stessa, Nikki, è davvero Nikki o Susan Blue, oppure è Alice in Wonderland?
E i conigli antropomorfi alla tv chi sono?
Nikki diventa una donna digitalizzata nel morphing?
È un sogno quello che sta vivendo e ciò che stiamo vedendo oppure è un magico incubo terribile ad occhi aperti?
E se avesse avuto ragione, invece, la poco di buono, rimbambita “strega” sua vicina di casa interpretata dalla grande Grace Zabriskie?
La dimenticanza è quindi rifiorita nella fluorescente, fiorita reminiscenza caleidoscopica delle sue più ancestrali memorie rimosse ed ora, come per magia, coloratamente riemerse in tutto il loro abbagliante terrore estasiante?
Chissà…
Nel cast, fra i tanti, per meglio dire fra i cammei, Julia Ormond, Diane Ladd (madre, nella vita reale, di Laura Dern, Cuore selvaggio docet), Mary Steenburgen, William H. Macy, Laura Harring, Kristen Kerr, Nastassja Kinski e le partecipazioni straordinarie delle “voci” di Naomi Watts e dello stesso Lynch non accreditato, qui anche montatore.
Ribadiamo, Inland Empire è un capolavoro immenso.
Inutile aggiungere altro.
Inutile “spiegarlo”.
Se non vi sta bene, tiratevi delle seghe su Martina Stella e mangiate gli spaghetti mal cotti di vostra zia più brutta della signorina Silvani.
di Stefano Falotico
UNA STORIA VERA (The Straight Story), recensione
Ebbene, oggi recensiamo uno dei massimi capolavori di monsieur David Lynch, Una storia vera. Anche se, ad essere onesti, più che altro incontrovertibilmente obiettivi, è pressoché impossibile non definire quasi ogni opera di Lynch una pellicola che non possa meritarsi la nomea, sacrosanta, di masterpiece assoluto ed intoccabile.
Inoltre, potrà apparire pedante e pleonastico rimarcarlo ma la sua filmografia è costellata esclusivamente da film inarrivabili e qualitativamente, artisticamente emananti venustà cinematografica veramente smagliante, osiamo dire eternamente ammaliante, in una parola magnificente.
Una storia vera fu presentato in Concorso al Festival di Cannes e, a dispetto delle parole lusinghiere appena da noi giustamente emesse nei riguardi dell’insindacabile maestria cineastica del genio Lynch, parole che certamente avrebbero già ampiamente condiviso i giurati della kermesse a cui, per l’appunto, Una storia vera partecipò, ricevendo peraltro una lunga standing ovation dopo la sua prima ufficiale dalla stampa di allora, la Critica mondiale dell’epoca rimase parzialmente interdetta e spiazzata da questa virata lynchiana decisamente poco allineata alle sue spericolate, squisitamente deliranti e grottesche incursioni trascorse da director abituato a film profondamente enigmatici ed ermetici, intrisi di sua folle poetica visionaria soventemente appartenente al proprio inscindibile e imprescindibile, strambo, magmatico, perfino esoterico excursus da regista fuori da ogni canone tipicamente classico e convenzionale.
Infatti, forse assieme ad Elephant Man, Una storia vera è un film dalla trama lineare, semplicissima e lo stile di Lynch, abbandonando i suoi celeberrimi e consueti, potremmo dire, fantasiosi e funambolici, criptici e al contempo stupefacenti voli pindarici personalissimi, trova una pacata compostezza desueta rispetto, come detto, alle storie arzigogolate, anzi, ricolme di ghirigori fantasmagorici, visivamente parlando, delle sue altre passate e future prove.
Il titolo originale, difatti, di Una storia vera ha e contiene in sé un doppio significato… una storia “dritta”, straight, nel senso di chiara, autentica e limpida, diciamo genuina. Straight è anche però il cognome del suo protagonista.
Trama:
un anziano signore dell’Iowa, Alvin Straight (Richard Farnsworth), il quale vive la sua monotona, stanca vecchiaia nella sua modesta abitazione di campagna assieme alla dolce figlia Rose (Sissy Spacek), riceve all’improvviso una perturbante telefonata inaspettata.
Viene avvisato che suo fratello Lyle (Harry Dean Stanton) è stato colpito da un grave infarto ed è ora dunque malato. Rischia cioè, presto, di morire. Essendosi aggravate le sue precarie condizioni già cagionevoli di salute fisica
Al che, Alvin, malgrado non abbia più la patente in quanto gli è stata ritirata per ovvii motivi anagrafici, decide di andare a trovare Lyle col quale, da molti anni, per orgogliosi asti e vecchie, reciproche acredini mai sanate, non parla addirittura più.
Alvin si mette così in viaggio verso il Wisconsin ove abita suo fratello.
Il Wisconsin dista dallo Iowa la bellezza di circa duecentoquaranta miglia e Alvin è provvisto solamente di un trattorino rasa erba, fra l’altro, scassato e arrugginito. Sì, una carrucola più lenta di una lumaca, come si suol dire.
Una pazza impresa, dunque, la sua. Quella di avventurarsi, con un mezzo di trasporto così lento e soprattutto inaffidabile, lungo le pericolose e assai lunghe (perdonateci il voluto gioco di parole) highway sconfinate, forsanche dissestate dell’America più profonda e misteriosa.
Durante il suo interminabile, assai faticoso cammino tortuoso, Alvin fa incontri dei più disparati, incrociando gente di ogni risma ed entrando a contatto con una colorita e non sempre piacevolmente pittoresca umanità pullulata da personaggi assurdi, perfino inquietanti.
Una storia vera, tratto da un soggetto di John Roach e Mary Sweeney, abituale collaboratrice di Lynch, specialmente in veste di produttrice e montatrice (Strade perdute, Inland Empire, I segreti di Twin Peaks), e sceneggiato dagli stessi, musicato come al solito da uno straordinario Angelo Badalamenti, fotografato dall’immenso Freddie Francis, è poesia pura trasposta in immagini fulgidamente ipnotiche.
Un film che tocca molti temi con una dolcezza melanconica vertiginosa, infinitamente toccante in modo prodigioso.
Un’immane riflessione apoteotica sul tempo e sui rimpianti, sullo splendore e al contempo sull’orrore ineludibile della vita nella sua nuda semplicità emozionalmente straziante.
Siamo dinanzi a un capolavoro ineguagliabile.
di Stefano Falotico
LETTER TO YOU by BRUCE SPRINGSTEEN, alias BOSS – REVIEW
Ebbene, il Boss è tornato con Letter To You. Un’ode alla più dolce, fosca, tenera e al contempo tenebrosa, malinconica sua reminiscenza monumentale di natura mondialmente musicale, un’epica e soffice raccolta delicata, già d’antologia, incastonata e sigillata eternamente nella mirabilissima sua rocciosa eternità perpetua ed eterea. Una carezza lieve donata alle nostre anime. Alle volte spaurite, melanconiche, altre volte grintosamente auto-echeggianti l’evocativa virtù dell’infinità (u)morale delle nostre stesse accorate sensazioni traballanti, in continuo mutamento e rigenerativa freschezza persino euforica dopo tante eclissi dei nostri cuori spezzati, oscuratisi nel buio e poi, di colpo, risorti magnificamente in gloria.
Quest’uomo immarcescibile, oramai appurata ed incontestabile leggenda vivente incarnata nel suo viso oggi smagrito, nella sua ectoplasmatica sagoma avvolta da una nebbiosa atmosfera nevosa, camminando nell’asperità romantica dei suoi perenni, giammai vinti, crepuscolari e al contempo infuocati dubbi esistenziali, pare che riemerga dalle soffuse penombre di sé stesso, incorporandosi nel revenant cantore delle sue incantevoli memorie magiche. Pietrificate nello splendore dell’adamantino rammemorare il suo e nostro cammino poetico, addirittura ambiguamente ermetico. Sobrio e lucente.
Bruce Springsteen, ladies and gentlemen, che nella copertina del suo nuovo, stupendo album imprescindibile non solo per i suoi irriducibili aficionado, ormeggiando in metaforico the river sulfureo della plumbea, “accordata” mareggiata emotiva della sua carriera oceanica, ci regala un’altra perla piena di canzoni dolcemente lievi evocanti forse A Christmas Carol di Charles Dickens, soavi come un’onirica, atmosfera natalizia, per l’appunto, appaiabile a Paul Auster o, forse, alla squisita amabilità commovente del derivatone, cinematograficamente, racconto vividamente sentito di Harvey Keitel in Smoke.
Letter To You profuma di concettuale spiritualità quasi gospel, sì, di mistica ed avvolgente, allo stesso tempo sanguigna vivacità toccante. Pare, a tratti, addirittura un moderno canto gregoriano.
Dopo Western Stars, elegia dedicata alle anime spare parts dell’infinita, folle e visionaria America forse perduta eppur combattivamente resiliente, a settant’uno il Boss si restaura nel ricordarsi, nel contemplare la bellezza sfuggevole e cangevole del tempo rivisto, introiettato e cantato con la forza ancora gagliarda della sua tempestosa leggendarietà inscalfibile ed immutata.
Cosicché, recuperando dal cassetto dei suoi stessi sogni giammai arenatisi ed assopitisi, alcune canzoni incomplete ed inedite degli anni settanta, alternandole a brani del tutto nuovi, levigati nelle sue vocali corde già, puntualmente, indimenticabili, c’allieta e culla con vibrante, senziente beltà marmorea.
Rilluminando sé stesso, estasiandoci nel far sì che, ancora una volta, possiamo immergerci attraverso lui in un altrove luccicante di lucida, fortemente impalpabile voglia di vivere e rivivere. Di amare e ricordare per rinascere nuovamente intrepidi ed agguerriti. Ancorandoci al passato per rielaborarlo, assieme a lui, in forma catarticamente suadente e morbida.
Con Ghosts supera sé stesso, mormorandoci la levità della fantasia immaginativa e della mnemonica frenesia del suo rispolverare il suo e nostro excursus insuperabilmente, strenuamente agganciato alla purezza dei nostri ricordi riscaturiti vulcanicamente in esplosiva potenza vitale, inarrendevole e, nonostante tutto, ancora intatta. Ripetiamo, immutabile.
Anche se a noi è piaciuta da morire soprattutto Song for Orphans.
Sì, Letter To You non tocca certamente le vette di perfezione stilistica di Nebraska, Bruce Springsteen non è più quel ragazzo strepitosamente e meravigliosamente scalmanato di Born to Run, ma è sempre lui.
In Letter to You aleggia anche la presenza, chissà, di un altro rocker immenso, Bob Dylan.
di Stefano Falotico
MANK by DAVID FINCHER, new Trailer with Gary Oldman
MANK.In Select Theaters November and on Netflix on December 4. Starring Academy Award Winner Gary Oldman, Amanda Seyfried, Lily Collins, Arliss Howard, Tom Pelphrey, Sam Troughton, Ferdinand Kingsley, Tuppence Middleton, Tom Burke, and Charles Dance. Directed by David Fincher.
Ebbene, soltanto pochi giorni fa abbiamo assistito entusiasti al teaser trailer di Mank. Nuova, attesissima pellicola del grande David Fincher (Panic Room, Fight Club) con Gary Oldman, in profumo già di Oscar, protagonista assoluto di tale biopic romanzato sulla vita dello screenwriter Herman J. Mankiewicz, cioè nientepopodimeno che lo sceneggiatore di Citizen Kane, ovvero Quarto potere di Orson Welles. Da molti ribattezzato il film più bello del mondo. Affermazione certamente apodittica poiché è oggettivamente impossibile decretare quale possa essere la pellicola cinematografica più bella, per l’appunto, di tutti i tempi.
Senz’ombra di dubbio, è altresì lapalissiano e incontrovertibile che Quarto potere rappresenti un’epocale pietra miliare incommensurabile della più pregiata ed altisonante Settima Arte scintillante.
Fincher, in tale suo elegantissimo Mank, almeno a giudicarlo tale dalle suadenti, perturbanti e al contempo delicatissime immagini del trailer integrale che vi mostriamo, indagherà in forma detection, forse non dissimile dallo stile splendidamente neo–noir di molte altre sue precedenti pellicole, in merito alla misteriosa vita privata di Mankiewicz, circumnavigando filmicamente attorno alle fortuite eppur segretamente affascinanti, labirintiche vicissitudini e circostanze più o meno casuali, dunque inaspettatamente forse, potremmo dire, cabalistiche, esoteriche e quasi miracolistiche che, dal nulla, originarono le strepitose, irripetibili intuizioni e magiche ispirazioni che furono alla base di Quarto potere.
Nel cast anche Amanda Seyfried.
Mank sarà nei cinema a novembre e su Netflix dal prossimo 4 dicembre.
CLARA, lacrimosa santità: un tenebroso, lugubre lungometraggio à la Rashomon sulla haunted house di Trebbo di Reno… ove aleggia una storia alla Shining…
Ebbene, amici e (a)nemici, fratelli della congrega. Non d’una setta satanica da ridicoli adepti a mo’ di Frank Langella de La nona porta del grande Roman Polanski, bensì fedelissimi del Falotico.
Il quale, durante queste altere serate tempestose del nuovo nostro crepuscolare inverno tetro, sebbene sia stato come sempre da molti esistenziali dubbi afflitto e tempestato, assieme ad intrepidi, valenti, talentuosi amici vigorosi e valorosi e ad una damigella d’onore dalla beltà marmorea che possiede il suo innamorato cuore, ovvero un’inarrivabile (per voi…) donna la cui dolcissima, incantevole venustà svetta e perennemente primeggerà al di sopra di tutte, girovagando non a zonzo, gironzolando non da perdigiorno, bensì da artistico cineasta dal curriculum vitae improntato alla più fine squisitezza gustosa e alla sofisticatezza encomiabile e calorosa del suo adorare la Settima Arte più eccentrica, encomiastica e grandiosa, cioè meritevole dei suoi/miei sperticati elogi amorosi, in barba agli uomini cinici, irrispettosi e vanagloriosi che elevano la futilità a stile di vita inutile, coraggiosamente realizzò un mediometraggio abbastanza inquietante eppur credo/e assai affascinante. Con tanto di epilogo finale quasi laconico, sospeso nel tempo infinito dell’esoterismo più misterico. E un breve, incisivo suo primo piano iper-espressivo che potrebbe ricordare il carismatico Carlo Lucarelli migliore dei tempi d’oro, cioè quello di Blu notte – Misteri italiani, che risalta lucente, incastonato fra le sobrie luminescenze di due quadri astratti pregiati d’estremo valore. Forse litografie stilizzate e magicamente appaiate al suo viso onestamente bello nella sua madornale rinascita creativamente vitale?
Cosicché, se il magistrale David Fincher presentò in queste decisive ore il superbo trailer integrale del suo Mank, se Netflix ne mostrò la magnifica locandina spettrale ma spettacolare in cui troneggia grandguignolesco un Gary Oldman impressionante, il Falotico pubblicò sul suo canale, Joker Marino, il succitato suo medium–lenght film forse eccezionale. Non so se geniale quanto Citizen Kane, opera insuperabile partorita da un Orson Welles giovanissimo, ispirato come non mai, senza dubbio però possiamo ammetterlo oggettivamente che ci troviamo al cospetto di qualcosa di profondamente perturbante, davvero originale. Con un Falotico factotum che si triplica in tre personaggi, anzi in due uomini che a loro volta vengono inglobati, incarnati, oserei dire spiritati e trasfigurati in forma camaleontica, fantasmatica e amletica nell’onnipotenza, nella curiosa irriverenza e nell’ectoplasmatica, decadentistica onnipresenza d’un invisibile inquisitore dalla voce roca, dura e rocciosa.
Al che, lavorando alle color corrections assieme al mio/suo amico Cristian durante queste sere fredde climaticamente ma non algide emozionalmente, allestendo visive invenzioni caleidoscopiche dall’interno della sua residenza dall’arredamento asettico eppur bellamente atmosferico, il Falotico partorì un’opera di 33 min. circa, così come gli anni di Cristo, dedicata alla purezza per antonomasia, al culto metafisico della trascendenza più onirica. Forsanche lisergica. Riesumando dalle ceneri delle seppellite, obliate od obnubilate memorie felsinee volutamente scordate, l’agghiacciante vicenda di Villa Clara. Casa maledetta che forse cela ancora una vicenda non del tutto chiara. Anzi, orrifica e assai oscura.
Avvalendosi della presenza-cammeo della sua Eloise, girando fra il manicomio abbandonato di Imola, cittadina in cui Ayrton Senna perse la vita, filmando notti tardo estive ammantate di leggiadra fantasia gioconda e al contempo malinconica, il Falotico dona a voi, comuni (im)mortali come lui, un’opera perlacea e raffinata. Non so se da tramandare ai posteri. Certamente intarsiata nell’ottima, rossa e incandescente miniatura de L’Impero del Cinema, da quest’ultimo posterizzata e saturata.
Si partì dalla sceneggiatura. Forse lo script originario, come si suol dire, peccò di presunzione e presentò dei dialoghi troppo teatrali, ridondanti, fastidiosamente solenni e anacronistici da aggiornare al corrente, contemporaneo linguaggio comune.
Ma Falotico non abbisognò di alcuno storyboard per visualizzare il suo Klaus Kinski/Nosferatu su recitazione fra il grottesco esilarante, il Marlon Brando più serio e maestoso e le sue nere, cup(id)e iridi forse magnetiche su corde vocali delicatamente poetiche, eroiche, persino morbosamente erotiche…
Turgide serate illuminanti nelle quali, accompagnato in questo lungo viaggio spirituale e carnale al tempo stesso, dai gatti Penelope e Napoleone di Cristian, Falotico rammemorò illuminatamente chi fu.
E forse ora ce n’è per nessuno.
Un Falotico che rinasce, ricarbura a velocità pazzesca, vi assicuriamo che è un uomo che può fare qualcosa di veramente importante, d’immensamente rilevante per l’Arte tutta.
Falotico, scrittore di saggi monografici e romanzi picareschi, di racconti dell’orrore e di paura, di romance erotici d’impagabile immaginazione, fattura e impaginazione pura mista a principi di realtà suprema e dura. Eh sì, maledette fattucchiere! Basta con la caccia alle streghe!
La vita è piacere e dolore, tragedia e Rinascimento. Tenetelo ben a mente, poveri (dis)illusi.
Lui, il Falò, unisce il vero col falso, mescola i sogni con la vita reale. Persino regale.
Ah, vi ha fatto veramente un immane regalo. Che principe gentile e galante, oserei dire anche raggiante e magniloquente.
Ringrazia la sua donna e garantisce all’umanità intera che se tiferete per lui non riceverete alcuna fregatura.
Per molti anni fu inviso e malvisto. Giudicato erroneamente, anzi in maniera orrida, essendo frettolosamente giudicato una persona ingrata e pure sgradita.
Ma, come dice Jack Burton di Grosso guaio a Chinatown, basta adesso!
Poiché Falò ama da morire Prince of Darkness. Uno dei massimi capolavori di John Carpenter.
Lui non è il diavolo ma ne sa una più di Belzebù, non è un angelo in quanto non è Lucifero, neppure San Michele. Non è un ipocrita in quanto ateo e considera la cristianità piena di falsi tabù.
Ce la vogliamo dire, sinceramente, senza se e senza ma?
In modo papale papale? Sì, è un uomo papale. È il Papa?
Dai, su. Ma no…
Adesso, sapete chi è. Anche no? Chissà. Ah ah.
E ricordate, miscredenti, Dio c’è e Paranormal Activity fa proprio schifo.
Chi ha orecchie per intendere, intenda.
Chi ha occhi per vedere, ami la vita, il Cinema e le donne. Altrimenti, lo spediremo subito all’inferno.
Così è, così sia scritto, così sia fatto.
Il terzo giorno, Falotico è resuscitato così come dicono le Sacre Scritture. Questi, sì, dei libri fake che meritano solo che feroci stroncature. Mentre il Vangelo del Falotico promette faville.
Il Falotico non ha i soldi per regalarvi una villa ma può darvi molto di più.
Se non capite questo, scattatevi un selfie per fare i fighi ma abbiate la pietà, la Veritas di non mentire a voi stessi. Inginocchiatevi. E che la pace sia con voi e con il suo, il suo Spirito.
di Stefano Falotico
JOE by DAVID GORDON GREEN,with NICOLAS CAGE
Ebbene, oggi recensiamo il sottovalutato, perlomeno da buona parte dell’intellighenzia nostrana, Joe.
Presentato in Concorso al Festival di Venezia del 2013, esattamente il 30 Agosto, purtroppo insufficientemente distribuito in Italia, Joe è firmato da David Gordon Green. Regista assai giovane, soltanto classe ‘75, il quale però può vantare già un curriculum filmografico di tutto rispetto e di primo grado, sebbene c’appaia, va detto senza peli sulla lingua, un director discontinuo, leggermente sgangherato, la cui poetica non c’è ancora chiara né bilanciata. Avendo lui sbandato, potremmo dire, da pellicole adolescenziali strampalate come Strafumati con James Franco e Lo spaventapassere con Jonah Hill, alla sua rielaborazione più seriosa, intimista e malinconica, non efficace comunque, dello stesso Lo spaventapasseri, ovvero Manglehorn. Omaggio personale di Gordon Green al capolavoro appena citatovi, vale a dire Scarecrow, Palma d’oro a Cannes con Gene Hackman ed Al Pacino. Quest’ultimo a sua volta interprete, per l’appunto, in maniera auto-citazionistica, della pellicola di Green succitata.
Al che Gordon Green, riesumando il cadavere mai veramente sepolto né obliato dell’iconico, sanguinario e precisamente immortale Michael Myers, ha dato vita al reboot di Halloween. Incanalandosi, forse incastrandosi, in una nuova saga carpenteriana non apocrifa e dallo stesso regista de Il seme della follia patrocinata, in pieno approvata e sostenuta di generosissimo beneplacito commercialmente premiato.
Dunque, in mezzo allo sconnesso e disomogeneo turbinio prolifico di Green, smarritosi probabilmente da solo alla ricerca della sua stessa strada confusamente perseguita e battuta, diciamo dissestata e ancora acerbamente mal da sé asfaltata, ci sentiamo indubbiamente di affermare che Joe, malgrado non sia affatto un capolavoro, ci risulti in toto la sua opera migliore, certamente.
Joe, tratto dall’omonimo romanzo di Larry Brown, è un corposo melodramma di circa due ore, innestato su robuste, per quanto melanconiche, plumbee tinte thrilling che, come si suol dire, dopo un incipit quasi soporifero, carbura fortemente e in crescendo rossiniano a combustione lenta, accelerando dunque ritmicamente e narrativamente nel divampamento d’un finale con tanto d’immancabile, emozionante, stradale inseguimento ed un esplosivo, inaspettato climax dal retrogusto toccante e dolceamaro, intriso d’un morbido cupio dissolvi da pelle d’oca attorcigliato ad un happy end a metà, fintamente ma non furbescamente, consolatorio.
Trama:
il timido e incolpevolmente scapestrato Gary (Tye Sheridan) peregrina di città in città negli States a causa delle irresponsabili malefatte dell’alcolizzato padre scansafatiche, il burbero e assai violento Wade (Gary Poulter). Il quale, per sfuggire alla legge, costringe il figlio a un’esistenza perennemente precaria, picchiando inoltre la moglie ripetutamente e ricattandola perentoriamente con irosa furia insistente. Per via peraltro del suo carattere scontroso e dei suoi modi insopprimibilmente maneschi, sua figlia, vale a dire la sorella minore di Gary, s’è chiusa nel mutismo, auto-recludendosi protettivamente in casa nel suo secret garden emotivo ed erigendo un fortilizio comunicativo fra sé e la realtà esterna.
Gary è quindi in continua ricerca di lavoro. E, in una sperduta cittadina polverosa e sempre piovigginosa del Texas più southern, trova impiego e poi protezione di natura quasi paterna nel grezzo ed ambiguo, apparentemente debosciato, boscaiolo tuttofare Joe Ransom (Nicolas Cage).
Dopo vari, sconvolgenti accadimenti ed un’interminabile escalation d’altre psicofisiche violenze inaudite, per Gary e sua sorella pare profilarsi un’irrimediabile, imminente tragedia non scalpabile.
Le loro già difficilissime vite, alla fine, rimarranno intatte o solo miracolosamente salvabili?
Vi abbiamo già svelato abbastanza, anzi troppo. Perciò, non intendendo assolutamente rovinarvi la sorpresa e non spoilerando sui numerosi colpi di scena che, in modo avvincente, vengono in Joe dipanati lungo quasi tutto l’arco della sua movimentata vicenda, ci fermiamo qui dal dirvi giustamente altro.
Sorretto da un Nicolas Cage raramente così misurato e carismatico, il quale comunque conserva immutabilmente la sua trascinante, eversiva carica passionale, proverbialmente tipica del suo stile recitativo spesso e volentieri caricato, Joe è un ottimo film.
Piuttosto banale nella sua diegetica di costruzione filmica falsamente ricercata pressoché in linea, in maniera convenzionale, col classico canovaccio del prevedibile melodramma americano basato e ricalcato sugli stilemi della risaputa, già vista, quindi annoiante tematica della sconfitta e redenzione esistenziale, Joe ugualmente appassiona e allo schermo tiene incollati.
Per merito di una bella, atmosferica fotografia chiaroscurale di Tim Orr, di malickiane suggestioni che colpiscono nel segno e di un Nic Cage, come sopra dettovi, straordinariamente da Gordon Green diretto, rivivificato professionalmente, ispirato e completamente calzante, in quanto nato e tagliato per la parte del tenebroso uomo, ex carcerato, irredimibile eppur ostinatamente vivo e stoico nella sua durissima resilienza onestamente morale e grintosamente mirabile.
di Stefano Falotico