Irrational Man, recensione

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Per una buona volta, sganciato da logiche editoriali, infatti è un pezzo in esclusiva, abbastanza sintetico, mica tanto, ah ah, e senza troppi fronzoli, scevro dei miei barocchi arzigogoli lessicali, recensisco sentitamente Irrational Man. Film che, ammetto la mia spaventosa lacuna, fra tutti, anzi quasi tutti quelli da me visti di Woody Allen, mancava totalmente all’appello delle mie visioni. Sì, prima di ieri sera, giammai lo vidi, pur essendo oramai da anni un fanatico di Joaquin Phoenix. Il quale, per una forte rassomiglianza fisionomica col sottoscritto e per via della natura di molti suoi personaggi malinconicamente falotici, aderisce quasi perfettamente alla mirabolante, versatile e stravagante galleria dei miei interiori demoni incarnatisi nel suo viso dagli occhi vitrei, nella sua morbida mimica dolcemente laconica e melanconica, eloquente spettro espressivamente corporeo di me stesso in lui scioltosi e, probabilmente, di meta-Cinema ritraente il mio stesso processo identificativo da Rosa purpurea del Cairo.

Sì, la mia indole alleniana, spesso sinceramente dalla realtà alienata, m’induce a essere Zelig. Dunque, è inevitabile che forse non sia, in verità, Joaquin Phoenix a proiettare su di me la trasfusione videodrome del mio cronenberghiano permearmene e coinciderne, sprofondarvi nei suoi lineamenti non solo fisici, bensì sia io a venirne combaciato in un simbiotico transfert da Existenz psico-corporale in lui trasmigrato mediante un’effusione da uomo così tanto confuso e sfigato, più di tanti characters impersonati da Phoenix, da assurgere io a contagiato di mutazione alla Mosca.

Sì, traggo così tanta linfa vitale, innamorandomi dei personaggi di Phoenix assurdamente simili al mio io più viscerale, da credere, spesso, che io sia Phoenix in modo integrale. Ah ah.

In questo film di un’ora e trentacinque minuti, il Phoenix-Falotico c’è tutto. Non sono laureato in Filosofia, a differenza di Abe Lucas/Phoenix e non insegno in maniera noiosamente cattedratica a un’università frequentata dalla super figlia di papà, Jill Pollard/Emma Stone.

Ma, parimenti ad Abe, filosofeggio in maniera pessimistica sul senso dell’esistenza. Sì, vivo di tetri esistenzialismi da uomo solitario che vive, a sua volta, del suo irresistibile carisma da irrational man che si trascura, che qualche volta beve e si lascia crescere la pancia come Charles Bukowski, che deglutisce bocconi amari, associandoli a un sardonico modo di fare tragicomico che ipnotizza le belle donne.

Le quali, ammaliate dal mio decadentistico buttarmi via strepitoso, desiderano che io m’immerga ficcante nel liquore caldo, aromatico e ubriacante delle loro gambe a me sfrontatamente donate senza troppe formalità e imbellettamenti da stronze altolocate. Con gli altri fanno le altezzose. Io invece le attraggo in maniera naturale e stupendamente liquida e morbosa.

Sì, non faccio nulla per apparire come Kierkegaard e, più che Immanuel Kant, soventemente sembro onestamente solo (come) un cane che, soffrendo di depressione acuta e cronica, a fatica riesce a scopare anche una più figa di Sylvia Kristel di Emmanuelle.

Sì, il film è la storia di un uomo ombroso semi-impotente o forse solamente auto-suggestionatosi d’essere un perdente, neppure tanto permaloso perché oramai stancatosi anche di dare spiegazioni al prossimo suo deficiente, che vorrebbe sforzarsi di credere che la vita sia bella ma alla fine, essendo troppo intelligente, colto e sofisticato, non riesce ad abboccare ai buonismi consolatori che gli rifilano le persone troppo semplici. Anzi, pensa sempre più fermamente e inarrestabilmente che Monty Python’s The Meaning of Life sia più valido di mille psichiatri laureatisi a Yale. I quali, diciamocela, umanamente non valgono niente.

Come Abe, trascorsi momenti talmente tenebrosi, forse solo lamentosi, piagnucolosi e colmi, più che di disperazione, di autocommiserazione, che credetti di reinventare Delitto perfetto di Hitchcock.

Però, praticandolo su me stesso.

Sì, moltissime volte pensai di suicidarmi. Però, al contempo pensai che doveva essere un suicidio così grandioso, impeccabile, così misericordioso e nient’affatto vanaglorioso, bensì nobile e come quello di Mishima davvero umilmente maestoso, che nessuno, dopo la mia morte, potesse tramandare ai posteri i miei Dei Sepolcri da Ugo Foscolo ante litteram e anche magnificamente letterato pur non essendo dotato di una laurea in Lettere.

Irrational Man è forse il miglior film di Woody Allen di sempre.

Poiché sa ironizzare, con acume, spregiudicata garbatezza e sobria finezza sulla tragedia della condizione umana di noi tutti senza prendersi sul serio. Pigliando invece in giro con enorme eleganza sé stesso e anche noi tutti. I quali, arrivati all’inesorabile freddezza incurabile, al più raggelante punto morto delle nostre minuscole, ridicole (r)esistenze spettrali che, grottescamente, fanno di tutto per sembrare (ri)spettabili e stimabili, cercano una mission, anche la più (auto)distruttiva, pur di acquietare lo Zabriskie Pont della nostra nudità dinanzi all’abisso di tale spaventoso, mostruoso e allo stesso tempo irrimediabile, forse addirittura irredimibile naufragare ci è dolce in questo mare.

Da tempo non riuscivo ad amare, non solo una ragazza, anche Woody Allen.

Lasciando da parte, in tal caso, le sue menate onanistiche e ombelicali, Woody ci regala una superba delizia sorretta da uno Joaquin Phoenix, al solito, bravissimo e ineccepibile.

Poiché Joker lo sa… That’s Life!

di Stefano Falotico

 

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