Basta con Martin Scorsese, evviva David Lynch, abbasso The Wolf of Wall Street

wolf of wall street mcconaughey

Importante, imprescindibile prologo

Chi scrive questa recensione fu (uso il passato remoto, in linea con le mie alterità emozionali di trascorsi burrascosi, quindi postisi, in un mio altrove, in emotivo maremoto) uno dei più grandi fanatici viventi di Martin Scorsese, considerato quasi unanimemente il più grande regista vivente.

Mi spiace contraddire il me che fui e che credo, per fortuna o purtroppo, non sarò più.

Scorsese non è più il mio regista preferito. E non è il cineasta più grande, per niente.

Non lo è, sinceramente, dal remoto ‘99 quando uscì con una delle sue opere meno menzionate perfino da coloro che si dichiarano, orgogliosamente (dico io, ignorantemente), suoi fervidi aficionados, suoi incalliti appassionati e sconfinati ammiratori irriducibili, ovvero Al di là della vita.

Opera impressionante, stordente, magniloquente nella sua secchezza febbricitante da far spavento per la sua pura e autentica schiettezza frastornante.

Scritta dal geniale, tormentato, semi-pervertito Paul Schrader, indubbiamente un mezzo malato di mente dei più inimmaginabili e dunque inauditamente un temerario sceneggiatore senza macchia e senza paura dei più francamente brillanti. Autoriali e rari. Fantastici e sanamente farneticanti.

Un solipsista mai visto capace di tritare, di nitrire furioso e ritrarre, immortalare, nei suoi script migliori, la voraginosa tetraggine dostoevskijana al suo massimo splendore e grado esponenziale più funereo e cimiteriale. Nel vivisezionarla con antropologica religiosità assurdamente atea, forse calvinista, forse duramente ortodossa a immergersene con acutezza scuramente impietosa, cinicamente nichilista e dunque profondamente romantica da moderno, impietoso verista lucidissimo.

Schrader, la lacrimosa incarnazione delle bergmaniane melanconie associate all’intrepidezza immaginativa più irosa, immacolata e strepitante, sviscerante la nerezza della repellente ma inalienabile condizione umana paurosa e tormentosa da lui paradossalmente illuminata disperatamente con nitida, grintosa speranza lisergica, allucinatoria e spasmodica.

Un’umanità miserrima, pusillanime e da sempre morta!

Un’umanità irredimibile che, come lapidariamente affermò Nietzsche, perdendo il suo ingenuo Credo in Dio, rimase senz’anima. Glacialmente! Sperduta e oramai irreversibilmente caduta, decaduta, incenerita, imbruttita e onestamente finita. Per meglio dire, forse scolorita. Stinta. Caduca!

Paul, un cristologico ectoplasma amletico, straziato e combattuto se essere o non essere attraverso la sua mente turbinosa e, di rabbie ardimentosamente potenti, ertosi a titanico paladino titanico, in maniera demiurgica, dell’orripilante vivere-non vivere di noi tutti già morti nell’attimo stesso in cui nascemmo asmatici. Soccombendo, al primo battito e respiro, al palpito d’ansietà ansimanti mascherate dietro finte lietezze e ipocrite, misere accondiscendenze buoniste.

Poiché, psichiatricamente, inesorabilmente nei nostri più reconditi, dunque istintivamente inestirpabili e vivi, sepolti tremori ancestrali ed esistenzialmente più sinceri e limpidi, alberga l’orrore celato del nostro innato gelo sconsacrato. Del nostro desiderare la beltà celestiale d’un cielo idilliaco invero solamente figlio delle nostre ataviche paure mai vinte. Ché, seppellendole nell’ordine precostituito della società apparentemente, dunque biecamente civile, c’illudemmo d’aver segregato nel limbo delle allegre, superficiali dimenticanze oscurantistiche, illusoriamente sconfitte. Dio non esiste, forse nemmeno noi esistiamo né mai vivemmo, viviamo e vivremo come vorremmo.

In quanto, come già ermeticamente detto, non possiamo essere davvero in quanto membri di una società che, ingannatasi dietro retoriche utopie, non seppe, sa né saprà rinunciare in cuor suo e inconsciamente, realmente alle sue millenarie, false e stoltamente comode, perbenistiche ideologie stronze.

Abdicando impeccabilmente, per sopravvivere, alla diabolica tentazione angelicamente fatua, dunque onestamente e ineludibilmente luciferina, di ostinarci pateticamente a non crederci zombi viventi, cattivi e sporchi. Cioè degli illusi deficienti.

Fantasmi ambulanti noi fummo e saremo che vaghiamo e vagheremo, evanescenti, scemi e rincretiniti da troppe ultime tentazioni di Cristo nella notte puttanesca da Maddalena bastarda dei nostri eterni, inscalfibili, insopprimibili e puntualmente riverberatisi complessi di colpa aberranti. Meravigliosamente stupefacenti.

Siamo una canzone dei Clash al suo zenit delirante.

Inutile urlare di amare quando in verità soccombiamo dinanzi ai nostri orridi scheletri nell’armadio man mano che passano i secondi e si avvicina, tremendamente, l’agghiacciante e sacrosanta nostra collettiva disumana morte. Oh sì, esseri noi siamo empi e inverecondi, altro che amorosi, amorevoli e giocondi.

Siamo tutti dei grandi stronzi, dei vermi fradici e sbronzi. Altro che dei greci con statuari fisici di bronzo.

Siamo nati impuri e putridi, ci trasciniamo nella polvere, fantasticando sognanti, dunque da soli e senza molti soldi, fregandoci, di essere sani e santi.

Ecco allora che qualcuno, come Travis Bickle di Taxi Driver, citandolo testualmente, desidera orgasmizzarsi per darsi da sé un impulso e una carica vitale invero già marciante verso la sua veglia funeraria da insonne indiano della sua giammai redenta solitudine abissale e di emozioni interiormente, straordinariamente vissute personalmente ma talmente empatiche da risultare, paradossalmente, agli occhi altrui come di cuore avare.

Travis scompare nella notte buia ed eterna della sua invincibile tenebra giustamente dissoluta. Da chi, purtroppo o per (s)fortuna, vide giusto. Capendo sin dapprincipio che non sarebbe stato un gesto eroico o salvifico a cambiarlo e a correttamente istradarlo verso la retta via oramai dannatamente smarrita.

Ecco allora Willem Dafoe/Christ che sbraita sacrilego sulla croce e, copiosamente sanguinando, non più si santifica, bensì scarnifica le bugie del mondo, svelando ogni inganno in un urlo munchiano quasi kafkiano da Griffin Dunne di Fuori orario.

Poiché Gesù, al solo suo vagheggiare un amplesso con la prostituta per antonomasia più grande di sempre, Barbara Hershey/Maddalena, si animalizzò in un’istantanea, agghiacciante metamorfosi spettrale.

Lui, simbolo della castità totale e universale, della verginità purissima della divinità fattasi vivo, pulsante sangue, del superuomo materializzatosi per storico miracolo d’un dio super stoico, re dei giudei incontrastato che, in quell’attimo mortalmente peccaminoso, quasi barbarico da uomo preistorico, silenziosamente in cuor suo gridò un bestiale, terrificante Porco Giuda, Porco Dio e put… na la Madonna!

Bestemmiando, in modo scellerato, empio e sconcio, un sepolcrale, deviante e corrotto essersi oscenamente mercificato alla più squallida carne ottenebrante, come detto, i cuori di noi tutti, poveri, abietti mortali infingardi, lerci, bavosi e porci.

Anche lui resosi schiavo, così come ben lungimirante profetizzò Pasolini, al dio denaro, dandosi al più triviale mercimonio. Anche lui un prodotto pubblicitario.

E arriviamo dunque a The Wolf of Wall Street.

Che è soltanto aria fritta e non una miriade, così come invece disgraziatamente dicono molti, d’iperboliche genialate. È invero una miserabile e nient’affatto ammirevole e mirabile, magnifica tragedia greca insuperabile come Casinò, non è una triste parabola ascendente e poi discendente di Goodfellas stupidi appartenenti alla criminalità della piccolissima manovalanza.

The Wolf of Wall Street non è proprio un cazzo di niente.

Non è una critica all’edonismo ed è quindi inutile strumentalizzarlo per fini maieutici al fine di adattarlo, a immagine e somiglianza, della propria poetica cinematografica più moralistica, pedagogica e, oserei dire, limitatamente demagogica.

Scorsese la dovrebbe semplicemente, giunto ora a una veneranda età che presupponiamo essere saggia, di ammorbarci con le sue gangsteristiche, più che altro sgangherate, elegie malinconiche erette a monumentale celebrazione del suo Cinema trascorso. Auto-elevandosi in Gloria perversa rivolta a magnificazione del sé stesso nei suoi riguardi amorevole, se preferite, amoroso. Diciamo sostanzialmente macchinoso, sì, usiamo un altro calzante sinonimo inglorioso, obiettivamente facinoroso al limite dell’increscioso

La celeberrima canzone di Umberto Tozzi che furoreggia sulla nave ove Margot Robbie/Naomi Lapaglia balla tutta scosciata fa parte di uno Scorsese più rincoglionito di Albano e Romina Power.

Inutile anche che, negli ultimi minuti, Scorsese abbia voluto deliziarci con qualche tocco artistico che non è più, come un tempo, onesto e cazzuto.

Cioè quando Kyle Chandler/Patrick Denham, uomo in doppiopetto burocratico su jeans da dopolavoro forse della Denim, sconsolatamente guarda impotente i poveri cristi con le facce addolorate da frustrati, dalla società frustrati, i quali vuotamente osservano oramai il mondo con inenarrabile amarezza che sempre nell’autocommiserazione stagna. In quanto spogliati di ogni sogno utopico. Insomma, delle (non) viventi, terribili lagne.

È troppo tardi.

The Wolf of Wall Street dura tre ore nette ma, dopo appena trequarti d’ora, per essere abbondanti per difetto, capisci che in tutto eccessivamente difetta e non abbia nulla da dire, in effetti.

Le scene non scandalizzano nessuno, le orge si riciclano stancamente e troppo prevedibilmente, Jordan Belfort/DiCaprio è imbambolato anche carismaticamente, indeciso se emulare le migliori smorfie di De Niro, suo mentore, o essere la nemesi appesantita del suo puro per eccellenza, il suo Jack di Titanic.

Il cammeo di Matthew McConaughey, nei panni di Mark Hanna, è bello e travolgente ma è messo lì apposta per far ridere la gente. Per far sì che possano proliferare e, ingenerarsi da esso, dei penosi memo scacciapensieri per prenderla tutti noi a culo, sniffandola un altro po’ di noia. Cazzeggiando illimitatamente per scordarci che siamo già noi tutti morti e inesorabilmente sbattuti.

The Wolf of Wall Street è un compendio dilatato, improponibile e asfissiante, smisurato e falsamente arrabbiato di banalità a buon mercato, buono semmai solo ai ragazzini che dello Scorsese vero e puro, incazzato duro, non sono per nulla memori o son assai poco informati.

Una puttanata sesquipedale tristemente goliardica e carnevalesca buona solamente al troiaio generale di un’umanità carnascialesca e amoralmente sbagliata che però, a costo di morire, anzi essere già deperita e presto perita, non si redime ma persevera nel fingere di godere e gioire, spacciandosi per distinta e signorile.

The Wolf of Wall Street è, senza se e senza ma, un’immensa bischerata, in una tombale parola, solo una gran porcata.

E lo dico io, ripeto, amante di Kundun poiché essere speciale, forse l’incarnato a Bologna, eh sì, Dalai Lama. O probabilmente, molto più verosimilmente, La cura di Franco Battiato in me umanizzatasi in forma disumana.

Io autore di molteplici opere letterarie, scrittore de La pallida ipocondria della luna, allestitore de La satanica brama del fatale languore e de La prigionia della tua levità.

Io, capace di ascoltare all’unisono in maniera lupesca e anche di ultrasuoni, eh sì, sia la cantante Levante qui nell’occidente che Dua Lipa con Don’t Start Now e Physical poiché Dua è una figa mai vista delle più splendenti nell’odierno, desertico, musicale firmamento.

Poiché come Jordan Belfort, giunto nel mezzo del cammino di mia vita, se vengo preso di mira da qualche poveretto che mi giudica troppo frettolosamente, a lui m’avvicino in modo gioviale e sorridente, dunque con un po’ di strafottenza gli do in mano una penna, una normale stilografica e gli dico:

– Saresti capace di scrivere, tu, il libro Martin Scorsese, la strada dei sogni?

Al che in lui si apre l’abisso e ancora l’abisso e capisce che della vita, soprattutto della sua, capì solo la demenza, comprese solamente, pure a stento, l’imbecille, ilare e capziosamente morale adempienza agli schemi sociali più retrogradi e pseudo-culturali più sciocchi della fallace, sfigata e terribile concupiscenza meschina, carpì ipocritamente l’appariscente contentezza o forse finalmente individuò la lapalissiana trasparenza devastante della sua immane idiozia senz’alcuna possibilità redentiva.

E, in tale suo prendere coscienza tardivamente del suo essere rimasto fermo a una visione perennemente regressiva dell’esistenza, ancora sguaiatamente ride, fingendo di non sapere che questa vita è definibile soltanto con un un’espressione:

tragicomica catastrofe da Joker.

Un uomo che, malgrado si fosse testardamente ostinato a spiegare come stessero le cose, incontrò lungo il suo percorso soltanto dei pensieri mancanti di resipiscenza e privi di ogni morale scienza.

Joker infatti è un capolavoro, The Irishman, no.

Joker è la simbolizzazione in celluloide dell’estrema ratio dinanzi a un mondo incurabile e malato.

Mentre Silence è soltanto un buon film con un Andrew Garfield che, nonostante mille calvari patiti, rimanesempre pettinato benissimo neanche se fosse appena uscito dal barbiere di Brad Pitt di The Audition.

The Departed è una fiction à La omicidi con Vera Farmiga al posto di Luisa Ranieri.

Shutter Island è il remake, in brutta copia manicomiale, di Angel Heart firmato da Alan Parker.

Gangs of New York è un blockbuster senz’arte né parte con un Day-Lewis che gigioneggia a briglia sciolta neanche se avesse appena finito di fare sesso esaltante con Cameron Diaz di The Mask.

L’unico film davvero meritevole di Scorsese degli ultimi vent’anni è Hugo Cabret.

Poiché, a differenza di ciò che sostengono molti di voi, macho fake e femministe da ricovero alla neuro, cioè che sia una favoletta per bambini, è invece uno strepitoso, struggente omaggio mirabolante e caleidoscopico all’essenza del Cinema.

Ché, se finiamo di sentirci orfani perfino dei nostri sogni perduti, tanto vale allora contattare la prima Escort vacca e andare tutti a puttane.

Brindando come scimmie tutti (in)felici e (s)contenti.

The Wolf of Wall Street, il film più brutto di Scorsese, una merda.

Ora, per piacere, chiamate l’agente Cooper di Twin Peaks e ripristinate l’ordine.

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di Stefano Falotico

 

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