“Per qualche dollaro in più”, recensione

Quando la musica finisce

 

L’età dell’incoscienza, della giovinezza sverginata e stuprata, dell’insanabile torto mai cucito, la vendetta odora d’ocra impolverato ai piedi delle rive sanguigne

Ci sono film che non invecchiano. Anzi, col tramutarsi delle stagioni, respiran il sapore nostalgico d’una poesia incantata, incuneata nervosamente a spettro gelido dei crepuscoli nostri. Quando l’alba tremava per un bacio o impavido scheggiavi la Luna ombrosa in veglie tanto funebri e laconiche quanto diurne in erto, selvaggio accorartene, aggrappato alle melodie del Tempo infinito. Il Tempo maiuscolo era illusoria svenevolezza dell’anima, un ritmo “isterico” della frenesia cardiaca, delle onde oceaniche in tuffi vigorosi ad altri antri divoranti del cielo romantico. E qui vivevi, come il grande Cinema. Vibravi, sì, di vita!
In uno spazio tutto suo e tuo, un ritornello personale che oggi, distratti dalla noia del globo piatto, s’è scor(d)ato, flebile in me invece tambureggia, riscocca languido e appunto sonante risorge. Anzi, lo sorseggio come caldo liquore.
Rammemorando echi dei vivi ardori, d’aridi paesaggi imbruniti nel Sol levante dell’immoto fluirmi, sperduto a cornice dell’amor perpetuo.
Sibillino e poi sibilante fra labbra “stordite” d’una fisarmonica mesta, apparentemente riposata. Avventura che si tranciò, divelto è quel soave dormiveglia.
Dalla “trincea” riemerge piano, prima ancor sonnecchi, sveglio in pieno e miri i bersagli.
E fuggono. Prima “picchiando”, dopo cagandosela. Un tremolio… invertito, d’una orizzontale revenge ché dovevi ucciderlo quando potevi. Ma non ci sei riuscito, ogni losco stratagemma è qui un frontale spaventoso come un atterrito, sudante Volonté appena riparte la musica del duello finale… Lì, comincia davvero ad aver paura, un fantasma lo tormenta, un crimine che (non) si perdona e che vorrebbe tacere con un “freddarlo”. Non si può dimenticare. Da ambo le parti, a singolar tenzone. Adesso che dinanzi a te c’è l’incarnazione del tuo peggiore incubo…

Questa è una storia di vendetta, monumentale, epica al tinteggiante dì del Dio Morricone, una ballata al diapason carillon che inseguirà la preda a costo di rischiare tutto. Di morire due volte…

Due “scapestrati” cacciatori di taglie si mettono sulle tracce di una banda che ruba, ammazza, rapina e semina il panico.
Una “società” che unirà l’utile al dilettevole per far piazza pulita? Non ci sono indiani ma solo visi pallidi. Coriacei, abbronzati, roventi. Al sangue.

Sì, la trama è un pretesto. Perché il capolavoro è dominato da un’irreparabile ossessione che martella le tempie del cattivo e aspira le vene del buono… più “saggio”.

Certo, c’è la “strategia” non solo filmica dell’infiltrato, dei depistaggi, dei sottili equivoci, dei dialoghi tagliati al contagiri come una punizione… da 40 metri perfettamente bilanciata in secca rasoiata, l’umorismo colore “carta vetrata”, l’amarezza sacrosanta di fondo, lo scandirsi narrativo, veloce, calmo, abrasivo, tormentante, dilatato, folgoranti, esasperanti primi piani, l’adorante Clint col sigaro “di traverso” malfamato, onesto e non sa fumarlo eppur devi fumarti un carisma così, il suo ciuffo indimenticabile fra la pettinatura perfetta e il soffio increspante del caldo soffocante, l’arsura d’una forma concentrica di rara sottigliezza, il candore della “violenza”, la metrica “saltellante” di Sergio Leone, il proustiano già c’era una volta, chi bramasti, chi uccidesti e come morirai.

La storia la conoscete.

Le ombre camminano sul carro dei morti ammazzati… nessuna retorica, un leitmotiv che lentamente svanisce.

Nell’assopirsi del rosso tramonto.

Ti dissi che avresti pianto tu. Ma non volesti darmi ascolto.

Indio, tu il gioco lo conosci…

Questa è una recensione o una lirica personale?

No, una litania…

 

Io non cambio mai musica. Non lo sapevi?

 

(Stefano Falotico)

 

 

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