SHUTTER ISLAND, recensione

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Ebbene, oggi recensiamo Shutter Island.

Film di Martin Scorsese oramai piuttosto celebre, uscito nel 2010. Un mystery thriller largamente apprezzato dal pubblico. Una pellicola che, a fronte di un budget alquanto dispendioso, ovvero circa s$80,000,000, sebbene decisamente inferiore, per esempio, a The Irishman e alla sua prossima fatica, Killers of the Flower Moon, incassò notevolissimamente a livello planetario, totalizzando quasi 300 milioni di dollari ai botteghini.

Shutter Island però, a differenza di The Irishman e delle recenti pellicole di Martin Scorsese, suscitò forti pareri contrastanti presso la Critica mondiale e fu snobbato agli Oscar.

Sul sito aggregatore di medie recensorie metacritic.com può vantare ancora una lusinghiera votazione complessiva di 63% di pareri estremamente positivi. Ma, com’appena detto, non sono tuttora in pochi coloro che ritengono Shutter Island un’opera leggermente minore all’interno del fantasmagorico, luccicante excursus cineastico dello zio Marty. Pressoché impeccabile.

A partire, ovviamente, dal solito Paolo Mereghetti che, nel suo Dizionario dei Film, pur attestandone i pregi, sottolineandone il valore nell’asserire fermamente che si tratti di un giallo neonoir dalle forti suggestioni cromatiche, oniriche e visionarie, teso e compatto, affascinante e confezionato con l’immancabile eleganza tipicamente peculiare dell’inconfondibile, egregio stile raffinato di Scorsese, non lesina comunque affatto a evidenziarne, di contraltare, i molti difetti. Definendolo testualmente così:

un thriller psicologico di ineccepibile fattura, teso e inquietante per almeno due terzi, interpretato da un sempre ottimo Di Caprio, ma lontano dal coraggio di sperimentare che contraddistingueva il regista almeno sino ad Al di là della vita… il film costruisce perfettamente la trappola in cui dovranno cadere il protagonista ed il pubblico. Ma appunto: è solo una trappola ben congegnata.

E invece da un grande regista come Scorsese sembra inevitabile aspettarsi sempre il capolavoro o quasi. Dai primi della classe non possiamo accontentarci di un compito svolto senza errori. Vogliamo di più.

In effetti, tralasciando le personali antipatie che un personaggio spesso ambiguo come Mereghetti possa scatenare, il critico per antonomasia del Corriere della Sera non ebbe e non ha tutti i torti. Anzi, malgrado l’abbia parzialmente stroncato, appioppandogli solamente due stellette, a nostro avviso è stato fin troppo generoso.

Poiché, senz’ombra di dubbio, Shutter Island è il film più brutto di Scorsese. Con gli opportuni distingui, assieme probabilmente a Gangs of New York, a The Aviator, a The Departed e, naturalmente, a The Wolf of Wall Street.

Sì, non stiamo scherzando. Perdonateci se siamo troppo duri ma The Wolf of Wall Street è un concentrato interminabile di nefandezze stilistiche da lasciare terribilmente imbarazzati e ci stupiamo che venga, ahinoi, altamente considerato non solo fra gli aficionado irriducibili di Scorsese, bensì anche presso quegli pseudo-tali cinefili che, incallitamente restii a essere obiettivi, peccano vergognosamente di timore reverenziale nei riguardi del maestro Martin. Affermando dunque che si tratti di un’opera dalla bellezza assoluta o addirittura incommensurabile in quanto, succubi del potere fascinatorio del Cinema straordinario di Martin e di conseguenza, dinanzi a lui, obnubilati dalla forza carismatica a loro profusa da un genio comunque altrove indiscutibile che inevitabilmente li plagiò a suo volere, si macchiano di una colpa imperdonabile, cioè se ne prostrano con umile remissione ridicola. Immiserendosi nella loro lucidità e inchinandosi, lobotomizzati, dirimpetto a un artista verso il quale, rimarchiamo, furono e sono sguarniti d’ogni personalità robustamente esaminatrice un film che, invero, è soltanto una pacchiana sciatteria mascherata da una messinscena pedissequamente capziosa ed artefatta.

Ora, ricollegandoci a quanto sopra esplicato, salta all’occhio perfino che, nella nostra breve disamina inerente i peggiori o, perlomeno, i più irrisolti film di Scorsese, il protagonista di ogni pellicola, da noi menzionatavi, sia Leonardo DiCaprio.

Non fraintendeteci. DiCaprio è un attore insindacabilmente valente e ammaliante che, peraltro, deve molto della sua crescita recitativa a Scorsese stesso. Ma, paradossalmente, proprio in virtù del suo titanico star power, pare che ogni volta che Scorsese lavori con lui, eh già, debba piegarsi a delle compromissive, assai opinabili necessità commerciali al fine di adattare le sue pellicole a un pubblico meno esigente e dunque più di massa. Poiché DiCaprio è talmente popolare da richiamare in sala ogni categoria di spettatore e, perciò, Scorsese e le varie major di volta in volta coinvolte, immantinente avvertono immediatamente il bisogno di smorzare i toni artistici del materiale di partenza, adattandolo a logiche giocoforza più economicamente mainstream. Osiamo dire sconcertanti.

Ciò non giova, infatti, affatto all’etica professionale d’un regista che non ha certamente bisogno di piegarsi a tali trucchetti acchiappa-boxoffice per piacere e ricevere plausi.

Scorsese è inappellabilmente un grandissimo ma ci piace quando è Scorsese al massimo, non deprivato della sua grintosa, furibonda temerarietà preziosamente morale.

Ebbene, dopo questo lungo, esaustivo ed imprescindibile preambolo per niente arrogante, bensì semplicemente perspicace e veritiero, torniamo nuovamente a Shutter Island.

Film della durata di due ore e diciotto minuti, scritto da Laeta Kalogridis e tratto dall’omonimo romanzo di Dennis Lehane. Mediocre scrittore per cui invece Brian Helgeland trasse da un’altra sua novel, con la regia di Clint Eastwood, la sceneggiatura di Mystic River. Allo stesso modo di Mystic RiverShutter Island è un film ove la pazzia di un uomo, derivata da un incolmabile, irrisarcibile trauma insuperato di origine mostruosa, ha innescato una vicenda ricolma d’inquietanti risvolti psicologici di natura abissalmente ancestrale e misterica.

Trama:

l’investigatore Teddy Daniels (DiCaprio) e il suo fido braccio destro Chuck Aule (Mark Ruffalo) sbarcano in un’isola sperduta di nome Shutter per indagare in merito alla sparizione di una pericolosa matricida, Rachel (Emily Mortimer), evasa dall’ospedale Haschecliffe, un carcere psichiatrico di massima sicurezza, simile ad Alcatraz, ubicato all’interno di questo roccioso “atollo” sulla cui sommità svetta un luminoso faro che, di notte, emana la sua sulfurea luce sul territorio limitrofo, ammantandolo di cangiante brillantezza adamantina che attenua la tetra opalescenza mortifera della struttura del cupo nosocomio angosciante. Ove sono stipati e sedati pazienti instabilmente, forse persino insanabilmente, allarmanti. Cosicché, in questo luogo maledetto da dio ove inoltre aleggiano antichi, terrificanti spettri di nazistici esperimenti mentali dei più aberranti, Teddy s’aggira sempre più sbalestrato e progressivamente tanto spaurito quanto, a lungo andare, nell’animo mortificato e svilito. Via via sfiorando davvero lui stesso la pazzia oppure, momentaneamente, rinsavendo prima della definitiva prefrontale leucotomia infinita?

Abbiamo già rivelato forse troppo e ci pare quindi doveroso fermarci qui, rispettando chi non ha ancora visto il film.

Ma chi è veramente Chuck? Chi è la donna (interpretata da Patricia Clarkson) sfuggita a degli infermieri attentatori alla sua incolumità che Teddy, nel suo tumultuoso peregrinare lungo l’isola, incontra dentro una grotta inesplorata durante una serata crepuscolare tenebrosamente spaventosa e lugubre? Chi è, infine, soprattutto l’uomo fantasmatico di nome Andrew Laeddis (Elias Koteas) che Teddy, forse in balia d’un confusionale stato allucinatorio, vede davanti a lui comparire e rispuntare, in maniera reminiscente e orridamente conturbante, in particolar modo dagli anfratti reconditi dei suoi incubi e del suo preoccupante, cavernoso inconscio indecifrabilmente, imponderabilmente morboso?

Nel cast, primeggia Ben Kingsley nei panni del Dr. Cawley, da annoverare la presenza di Jackie Earle Haley as George Noyce, di Michelle Williams nel ruolo della moglie di Daniels, Ted Levine (Buffalo Bill de Il silenzio degli innocenti) e del compianto Max von Sydow.

Shutter Island può ricordare, per molte atmosfere, Shining. E non poco Angel Heart di Alan Parker.

Però, a dispetto della bella, avvolgente fotografia di Robert Richardson, soltanto un po’ caricata di colori troppo saturi patinati in molti tratti, della sobria diegetica scorsesiana e dei talenti attoriali coinvolti, Shutter Island è ben lungi dall’essere un film memorabile.

Poiché non fa paura, non desta per l’appunto l’inquietudine sottilmente scioccante che era lecito attendersi da un film dagli ampissimi potenziali, dalle possibili ermeneutiche sfaccettate che sarebbero potute generarsi da tale intreccio, psicologicamente intricato, pieno di sotto-testi ermeticamente interessanti ma qui compressati in sviluppi prevedibili e superficiali.

Insomma, Teddy Daniels riuscirà a resuscitare dalle tenebre che l’inghiottirono in una mortale spirale viziosa infinitamente esiziale o rimarrà perpetuamente schiavo dell’assurda, incredibile detection auto-sepolcrale del suo cuore di colpo agghiacciatosi e tragicamente infrantosi?

shutter island

di Stefano Falotico

 

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