KING KONG, recensione del (quasi) capolavoro di PETER JACKSON

naomi watts king kong

Quasi capolavoro, togliamo il quasi o lasciamolo. Resta il fatto che Jackson, con questo King Kong, realizzò il suo film più bello in assoluto, anzi, il suo film. Anche se Jessica Lange è più figa rispetto a Naomi Campbell? No, alla Watts, elementare, miei Watson e lupi di mare. Ah ah.

Ebbene, oggi parliamo di un film magnifico. Forse uno dei film più epici degli anni duemila, oltre che commoventi. Ovvero il roboante ed elegantissimo, mastodontico e monumentale (sotto ogni punto di vista) King Kong di Peter Jackson.

Peter Jackson, signore e signori, l’hobbit vivente, un uomo immarcescibile, perennemente intraprendente, registicamente. Potremmo dire, il “factotum” della superba trilogia epocale de Il signore degli anelli, l’autore di perle imperdibili per cinefili di razza e d’eccezione, cioè Creature del cieloSospesi nel tempo, l’ingiustamente bistrattato e ancora sottostimato Amabili resti. Senza ovviamente dimenticare le sue folli e al contempo strepitose e visivamente spericolate opere prime davvero mirabolanti ed esagerate quali Fuori di testa e Splatters – Gli schizzacervelli. Il genio intuitivo che ebbe il talento di scoprire magicamente Neill Blomkamp. Finanziandolo affinché generasse e plasmasse uno dei più bei film entusiasmanti di Sci-Fi sui generis di sempre, vale a dire District 9.

Anzi, ci correggiamo, fantascienza levigatissima e cesellata in maniera sopraffina e coltissima, mascherata da rielaborato Cinéma vérité avveniristico, figlio d’una mente cineastica (quella di Blonkamp) ingegnosamente pindarica e futuristica.

Magmaticamente eruttiva in forma creativa quasi quanto quella del suo padre putativo di natura finanziaria e naturalmente artistica. Sì, Peter Jackson. Chi, sennò?

Cosicché, l’immenso Jackson, dopo essere riuscito nell’impresa immane di trasporre in immagini la fantastica saga fantasy di J.R.R. Tolkien, ripescò dalle sue memorie e dal/il suo sogno nel cassetto, il cinefilo desiderio più personale e segretamente intimo.

Cioè rifare e adattare, a piacimento, il suo mito cinematografico dell’infanzia, il suo adoratissimo e venerato King Kong. L’indimenticabile capolavoro intoccabile e sempiterno di Ernest B. Schoedsack & Merian C. Cooper, entrato immantinente, già nel remoto e quasi ancestrale 1933, nel collettivo immaginario di chiunque, emozionando generazioni di ogni età. Mantenendo indissolubilmente la sua nomea inscalfibile e totemica.

Dimenticando dunque il remake di John Guillermin, prodotto da Dino De Laurentiis con Jessica Lange, oppure forse qua e là perfino sottilmente attingendone, soprattutto nelle sue inevitabili, piuttosto marcate allusioni bestialmente erotiche, Jackson si cimenta con un caposaldo mai tramontato del Cinema e, tout-court, della cultura pop. Il King Kong di Guillermin era evidentemente ricolmo, in modo alquanto esplicito, di rimandi chiarissimi all’eterna favola immortale della leggenda della bella e la bestia, a sua volta intrisa di poco velati richiami a una profondissima, primitiva animalità insita nell’uomo sin dai primordi del genere umano stesso. Una sensualità torbidamente peccaminosa, ammantata dolcemente di perturbante romanticismo selvaggio e sfrenato, vivida emanazione, apparentemente a noi disincarnata, della nostra anima istintivamente, mostruosamente, irrefrenabilmente taciuta e inesplorata, inconsapevolmente silenziata e poi riaffiorante in sacrosanta, carnale ferocia proibita e arcaica.

Trama, ispirata e assai simile al Kong del 1933, però da Jackson (anche sceneggiatore assieme ai suoi fidi Fran Walsh e Philippa Boyens) reinventata in modo fantasmagorico:

siamo nella rutilante New York temporalmente identica all’anno appena sopra scrittovi, nell’era della Grande depressione. Dopo un intenso incipit nel quale Jackson incede in morbide inquadrature ai clochard, c’appare la bionda Ann Darrow (Naomi Watts) che si sta esibendo in un teatro sgarrupato e oramai frequentato da pochissimi spettatori, perlopiù poveri e ubriachi. Ann è una decaduta attrice di vaudeville. Presto perde la sua occupazione e, in istrada, viene fermata e approcciata dal tarchiato Carl Denham (Jack Black). Un ambizioso regista con strambe, però non malvagie, idee visionarie, in rotta coi suoi produttori in quanto la sua eccentricità mal si abbina alle necessità commerciali dei suddetti suoi superiori.

Disperato e anch’egli sull’orlo del fallimento, offre la cena alla bella Ann. Soprattutto, senza troppi panegirici, la persuade a divenire la protagonista assoluta della nuova, bislacca pellicola che dovrà girare in un’isola incontaminata. Dapprima, la timida e ritrosa Ann, affetta da patologica disistima, declina con estrema cortesia. Sta per congedarsi educatamente quando viene involontariamente, definitivamente convinta da Carl. Innanzitutto, Carl l’esorta con gentilezza a riflettere seriamente sulla sua interessante, innovativa proposta che le potrebbe garantire il riscatto socio-professionale per cui Ann, in cuor suo, ambisce da una vita, speranzosamente.

Ann, inoltre, accetta poiché Carl le dice che l’autore del copione del suo film è firmato dal raffinato e talentuoso Jack Driscoll (Adrien Brody), un artista drammaturgo che lei ammira sconfinatamente.

Al che, Ann e Carl, assieme alla sua piccolissima troupe, invero formata quasi esclusivamente dal giovanissimo, personale assistente di quest’ultimo, Preston (Colin Hanks), da un attore che sembra un Gary Cooper dei poveri, Bruce Baxter (Kyle Chandler), e dal suo inseparabile amico, il veterano Herb (John Summer), s’imbarcano sulla clandestina nave cargo dal nome SS Venture. La cui pittoresca ciurma è capitanata dal misterioso e burbero, eppur fascinoso Englehorn (Thomas Kretschmann). Sull’imbarcazione era presente, quando essa ancora ormeggiava nel porto, Driscoll. Che non è riuscito a far in tempo a lasciare il vascello prima che esso prendesse il largo, avviando la sua intrepida navigazione lungo le abissali, torbide acque marine dell’Oceano Pacifico.

Di lì a poco, il capitano apprende, con suo sommo stupore e forte turbamento, che Denham l’ha ingannato poiché vuole recarsi verso una rotta indefinita. Cioè, tutt’altra destinazione rispetto alla meta per cui Englehorn era stato assoldato dal regista.

Infatti, Denham vuole raggiungere l’Isola del Teschio, un luogo su cui pare che non abbia mai messo piede l’uomo, un’isola non contrassegnata su alcuna mappa ufficiale.

Nel frattempo, fra Ann e Driscoll scocca la scintilla dell’amore. Dopo varie peripezie, durante una placida notte, il cielo si scurisce e la nebbia di colpo s’infittisce. Le acque del mare cominciano vorticosamente ad agitarsi turbolentemente e la nave si schianta furentemente, fortunatamente non in modo gravemente deleterio, contro dei duri scogli rocciosi situati ai piedi dell’isola suddetta realmente esistente.

Englehorn e i suoi uomini esortano Denham e i suoi amici a non scendere dalla barca. Tenta di dissuaderli, lanciando loro allarmanti moniti ma Denham non resiste alla tentazione di esplorare Skull Island ugualmente.

L’isola pare disabitata e semplicemente suggestiva perfino a livello architettonico e ambientale. In quanto porta i segni di una civiltà antichissima all’apparenza scomparsa ed estintasi. Denham e gli altri arrivano nei pressi di un’altissima muraglia inquietante.

Ecco, vi abbiamo già svelato e narrato troppo in merito all’avvincente intreccio. Non vogliamo sciuparvi le mille, terrorizzanti e al contempo eccitanti, rocambolesche, avventurose sorprese narrative che l’inventiva immaginazione fervida di Jackson partorì per il diletto dei suoi tanti ammiratori.

In fondo, la storia di King Kong la conosciamo un po’ tutti. A grandi linee, è uguale a quella già vista per l’appunto al Cinema o forse no. Chissà…

Ora smentiamo molte approssimative dicerie sul conto del King Jong di Jackson. Molti asseriscono, in maniera incommensurabilmente erronea, che il film sia stato, ai tempi della sua uscita nelle sale, un parziale insuccesso. Niente di più falso. Il film rappresenta, a tutt’oggi, uno dei maggiori incassi nella carriera di Jackson e una vetta, a livello di botteghino, per la Universal Pictures.

King Kong vinse tre meritatissimi Oscar fra cui quello per i migliori effetti speciali visivi. Sebbene sia stato snobbato, questo sì, dagli Academy Awards per quanto riguardò le categorie principali. Venendo altresì premiato in quelle tecniche più importanti.

La colonna sonora di James Newton Howard non è pomposa ma suadentemente melodica e piacevolmente ipnotica. Mentre la fotografia di Andrew Lesnie è infinitamente maestosa.

Andy Serkis, oltre a interpretare un magistrale Kong grazie alla motion capture, si sdoppia nel ruolo di Lumpy in modo fenomenale, ecletticamente prodigioso.

Il King Kong è poesia pura che, nella parte introduttiva, ammicca addirittura all’altrettanto fastoso Titanic di James Cameron.

Ai cinema è uscito nella versione di tre ore e 7 minuti ma, come sappiamo, esiste una recente director’s cut, versione estesa, possibilmente ancora più potente di quella distribuita mondialmente.

Nel suo eterogeneo, stellare cast, Jamie Bell (Billy ElliotRocketman).

Forse, le uniche colpe e note innocuamente dolenti che si possono imputare al titanico, per l’appunto, King Kong di Peter Jackson, sono le eccessive, tronfiamente spettacolari e superflue, abbondanti scene di mezzo coi dinosauri simil-Jurassic Park spielberghiano in cui la CGI qua e là pecca un po’.

Per il resto, niente da eccepire. Malgrado alcune lungaggini e un pre-finale leggermente ripetitivo e tedioso che andava accorciato, il King Kong di Jackson è indiscutibilmente uno dei più grandi film degli ultimi vent’anni e, finalmente, ci dona in maniera sfolgorante uno spettacolo ammaliante e struggente senza pari. Restituendoci quell’apoteotico senso del meraviglioso e del liricamente inebriante per cui lo splendido mistero della magia del Cinema è nato e, speriamo, perennemente durerà.

Abbiamo bisogno come non mai del ritorno di Peter Jackson.

Ribadiamo, il Cinema è il più bello spettacolo del mondo e Jackson ne è degno condottiero, impareggiabile maestro.

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di Stefano Falotico

 

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