TRE PIANI, recensione

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Dopo qualche anno di assenza dal grande schermo e dopo i rimandi dovuti al Covid, Nanni Moretti (Habemus Papam) sbarca di nuovo sui grandi schermi col suo atteso Tre pianiTre piani è stato presentato in Concorso allo scorso, ultimo Festival di Cannes, ove ha ricevuto una lunga standing ovation, così come mostratoci orgogliosamente all’incipit del trailer della 01 Distribution, altresì scontentando però gran parte della Critica, lì presente. La quale, a differenza di qualche caso isolato (vedi Paolo Mereghetti che invece l’ha esaltato e di lodi incensato), n’è rimasta piuttosto indifferente. Anzi, a essere più precisi, i critici hanno mantenuto quasi uniformemente una reazione alquanto fredda dinanzi a Tre piani, stroncandolo impietosamente e accusando Moretti di essere spaventosamente e tristemente invecchiato prematuramente e non soltanto cinematograficamente.

In quanto Tre piani, libero adattamento dell’omonimo romanzo dell’israeliano Eshkol Nevo, spostando la vicenda da Tel Aviv alla Roma contemporanea, sceneggiato consuetamente dallo stesso Moretti assieme a Federica Pontremoli e Valia Santella, è stato reputato un film atrocemente sbagliato, senile, stanco. Figlio d’un Moretti oramai troppo imborghesitosi, a detta dell’intellighenzia, adagiatosi sin troppo pacatamente e con sterile morigeratezza, in stile fiction televisiva innocua, in un mood filmico e recitativo giudicato da più parti patetico e poco incisivo, addirittura penoso.

E, come dettovi appena sopra, Tre piani, peraltro escluso da ogni premio alla kermesse cannense poc’anzi succitata in cui era in competizione, venendo dunque anche snobbato dalla Giuria che l’ha escluso totalmente dal Palmarès, a differenza perciò di quanto avvenuto con La stanza del figlio, pellicola che invece s’aggiudicò la tanto ambita e prestigiosissima Palme d’Or, è apparso un film fallimentare sotto molteplici punti di vista. Tre piani è stato ritenuto, difatti, un film privo d’ogni qualsivoglia verve corrosiva, ironicamente caustica e al contempo genialmente, sanamente polemica, cioè una pellicola, a dircela tutta, non morettiana. Una pellicola che non pare e non è parsa, cioè, di Nanni Moretti. Celeberrimo invece per le sue giovanili invettive giustamente irose ma al contempo prodigiose e coraggiose à la Io sono un autarchico, una pellicola perfino scevra di quella sua eccezionale, grintosa e lucidamente ribelle poetica scanzonatamente allegra ma comunque intrisa, imperterritamente e fortemente, del suo lucido sguardo pungente e bellamente, contemporaneamente malinconico, dolcemente amarognolo, rabbioso certamente ma elegantemente anche sottile e radicalmente potente contro una società ingiusta e spesso stupida a cui si può opporre solamente, e non è poco però, la cauta leggerezza sarcastica di provocazioni erosive eppur esilaranti alla Caro diario.

Ma è davvero brutto Tre piani? No, non lo è affatto o forse sì. E la stolta Critica che troppo frettolosamente l’ha superficialmente liquidato con disdegno pusillanime, di tale suo atteggiamento scortese, oltremodo irriguardoso, assolutamente ingrato nei riguardi d’un Moretti forse non eccelso, comunque sia apprezzabilmente personale, se ne dovrebbe prestamente vergognare, recitando tostamente un sano mea culpa immediato? Poiché Tre piani, è vero, non è un grande film ma è un’opus assai interessante e di certo non banale? Vi poniamo queste domande e, nelle seguenti righe, cercheremo noi stessi di rispondervi lapidariamente.

Questa la trama secondo la sua sinossi ufficiale: al primo piano di una palazzina, vivono Lucio (Riccardo Scamarcio), Sara (Elena Lietti) e la loro bambina di sette anni, Francesca. Nell’appartamento accanto ci sono Giovanna (Anna Bonaiuto) e Renato (Paolo Graziosi), che spesso fanno da babysitter alla bambina. Una sera, Renato, a cui è stata affidata Francesca, scompare con la bambina per molte ore. Quando finalmente i due vengono ritrovati, Lucio teme che a sua figlia sia accaduto qualcosa di terribile. La sua paura si trasforma in una vera e propria ossessione. Al secondo piano vive Monica (Alba Rohrwacher), alle prese con la prima esperienza di maternità. Suo marito Giorgio (Adriano Giannini) è un ingegnere e trascorre lunghi periodi all’estero per lavoro. Monica combatte una silenziosa battaglia contro la solitudine e la paura di diventare un giorno come sua madre, ricoverata in clinica per disturbi mentali.

Giorgio capisce che non potrà più allontanarsi da sua moglie e sua figlia. Forse però è troppo tardi. Dora (Margherita Buy) è una giudice, come suo marito Vittorio (Nanni Moretti). Abitano all’ultimo piano insieme al figlio di vent’anni, Andrea (Alessandro Sperduti). Una notte il ragazzo, ubriaco, investe e uccide una donna. Sconvolto, chiede ai genitori di fargli evitare il carcere. Vittorio pensa che suo figlio debba essere giudicato e condannato per quello che ha fatto. La tensione tra padre e figlio esplode, fino a creare una frattura definitiva tra i due. Vittorio costringe Dora a una scelta dolorosa: o lui o il figlio.

Tre piani è un film corale, constante di microstorie quotidiane fra di loro argutamente esposteci, metaforicamente, diciamo, a livello architettonico di natura esistenziale, in maniera intersecante nel suo intreccio volutamente ingarbugliato. I “tre piani” sono quelli di una palazzina romana in cui vivono varie famiglie, ognuna delle quali sta esperendo, diciamo, una propria problematica più o meno importante, e in cui si muovono animosamente diversi personaggi le cui esistenze, fatalmente, saranno destinate a incrociarsi a congiunzione delle loro vite, per l’appunto, pian piano (perdonate il nostro ammiccante gioco di parole allusivo e molto eloquente) accomunatesi per via d’imponderabili coincidenze all’inizio dolorose, poi probabilmente catartiche.

tre piani sono anche la rappresentataci metafora, personalmente e fantasiosamente morettiana, delle tre celebri istanze della personalità freudiana, cioè l’Io, l’Es e il Super-Io.

Tre piani è sbilanciato, sì, ha un andamento lento, un’impostazione registica d’impronta vagamente televisiva ed è un film che, per quasi tutta la sua lunga durata di circa due ore, emana pessimistica malinconia. Non associandola e alternandola, a differenza invece di quanto sovente accade, anzi oramai accadde, col Cinema di Moretti, alla levità d’un sottofondo allegramente umoristico e ottimistico che ne stemperi la cupa drammaticità insistita. Ma è un film, comunque sia, che ha stile, recitato molto bene, misurato e girato con maestria? Altra domanda potente postavi qui tostamente.

È soprattutto filmato da un Moretti indubbiamente più “anziano” ma non per questo meno bravo? Forse solamente più saggio ed equilibrato, meno corrosivo ma languidamente esistenzialistico, perciò ugualmente apprezzabile?

Ogni film di Nanni Moretti possiede un’indiscutibile peculiarità. È un film d’autore e, così come succede per ogni autore che si rispetti, è riconoscibile immediatamente dopo poche immagini. Inoltre, perché mai, per esempio, la nostrana Critica esterofila continua ad amare e osannare giustamente il Cinema intimistico e “televisivo” di Pedro Almodóvar, girato perlopiù in interni di palazzine, più o meno borghesi, invece attaccando, perfino rifiutando quello d’un analogo Moretti che ha deciso di cambiare registro, abbandonando le sue requisitorie post-adolescenziali e “sessantottine”, abbracciando la sua maturità non soltanto anagrafica?

È una domanda, stavolta senza punto interrogativo e senza risposta, da rivolgere a molta italiana Critica imbecille, perennemente attratta, ripetiamolo, dalla cinematografia straniera, anche bellissima come nel caso succitato di Pedro Almodóvar, ma miope e inutilmente cinica dinanzi ai nostri grandi registi, ridotti, da tali critici assai limitati, a iconiche macchiette bidimensionali, per quanto in passato idolatrate, però adesso erroneamente storicizzati eternamente e in modo controproducente nell’essere visti solamente e unicamente dentro i confini angusti e tristissimi di frasi ed espressioni come… Nanni Moretti non è più quello d’un tempo e di una volta?

Be’, oggi è un uomo di quasi settanta primavere ed è dunque sacrosanto e comprensibile che sia or orientato a un tipo di Cinema più introspettivo, calmo e meditato, più melanconico, compassato e sobrio?

Se ciò per voi rappresenta un problema e, scioccamente, da Nanni Moretti volete e pretendete solamente e solipsisticamente che rimanga, nel vostro riduttivo immaginario, sol il vostro “santino” Nanni, non entrate in sala per vedere Tre piani.

Perché, di certo, vi deluderà e ne uscirete sconsolati, irrimediabilmente abbattuti, totalmente distrutti.

Onestamente, con tutta la simpatia che nutrimmo e possiamo ancora nutrire per Moretti, rispondendo adesso alle nostre stesse posteci domande, Tre piani non è il film migliore di Moretti e non è, purtroppo, un bel film. Amen.

Ogni altra parola sarebbe superflua.

Tre piani è un film che, almeno nella prima ora, è imbarazzante in quasi tutte le scene, poco credibile nello sviluppo dell’intreccio e infarcito di dialoghi alquanto improponibili.

Adesso, se volete interrompere la lettura, fate pure in quanto vi saranno alcuni spoilers.

Possibile difatti che un uomo saggio, anche a livello cinematografico, come Nanni Moretti, abbia scelto di scrivere e tratteggiare il personaggio da lui incarnato, tagliandolo con l’accetta in modo così maldestro? Un padre che non si redime mai ma, inspiegabilmente, viene amato dalla sua donna a cui proibisce di vedere suo figlio? E, se le sue consuete freddure, le scioccanti battute che qui si mette in bocca pazzescamente, sì, avevano un senso nei suoi film per l’appunto più scanzonati, in tal caso risultano fuori luogo e di cattivo gusto.

All’inizio, e non solo, si accenna a un episodio di possibile pedofilia ma la propostaci risoluzione finale, ahinoi, non sta anagraficamente, potremmo dire, in piedi.

Se vedrete il film, capirete il significato dell’appena sopra scrittavi frase.

Perché mai il personaggio della Buy, inoltre, con ingenuità incredibile, si fida di un quasi perfetto sconosciuto che la invita a intraprendere un lungo viaggio in macchina con lei solamente perché costui le riferisce di “mostrarle” una sorpresa? Incredibile!

Tre piani non lascia un barlume di speranza per quasi tutto il tempo. Poi, semplicisticamente e in maniera assurdamente buonista, retorica e stonata in modo macroscopico rispetto ai neri assunti precedenti, cambia morettianamente registro sol alla fine. Appianandosi in un finale patetico, sdolcinato e ipocritamente consolatorio.

Ci piange davvero il cuore doverlo ammettere. La Critica, a Cannes e non solo in Costa Azzurra, aveva ed ha pienamente ragione. Ne siamo concordi.

Tre piani è un film oggettivamente quasi inclassificabile.

Ha un solo pregio, se tale possiamo chiamarlo. Moretti, per la prima volta nella sua carriera registica, dunque trascurando la sua scena di sesso con Isabella Ferrari in Caos calmo, in una sua pellicola c’esibisce un generoso nudo frontale (di Denise Tantucci, alias Charlotte) e una relativa sequenza molto ardita abbastanza trasgressiva, desueta rispetto ai suoi canoni filmici, sessualmente contenuti, perfino castigati.

Ma è l’unica trasgressione d’un film fallimentare, concettualmente tremendo.

Quasi inguardabile.Nanni+Moretti+Tre+Piani+Three+Floors+Press+WcZdxmzlOzax

di Stefano Falotico

 

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