ARANCIA MECCANICA, recensione

Arancia meccanica

Ebbene, in corrispondenza e concomitanza della sua uscita in splendido 4K da collezione per i cinefili di razza, recensiremo o, per meglio dire, esporremo la nostra breve ma al contempo corposa e precisa disamina in merito a un caposaldo inamovibile della settima arte più pregiata, cioè un film irraggiungibile, ovvero il sempiterno capolavoro assoluto di Stanley Kubrick (Eyes Wide Shut).

Kubrick, regista che ovviamente non necessita d’ulteriori precisazioni e superflue presentazioni pletoriche in quanto, naturalmente, al di là dei gusti personali, più o meno opinabili o apprezzabili, è incontestabile che ci troviamo dinanzi a uno dei massimi maestri della più alta cinematografia qualitativa e sofisticata di tutti i tempi.

Inoltre, aggiungiamo che Kubrick, sì, nella sua fenomenale carriera, ha realizzato tanti grandi film, toccando vette incommensurabili come 2001: Odissea nello spazio ma, se fossimo necessariamente costretti a scegliere, all’interno del suo excursus cineastico-filmografico, la sua opus più rappresentativa, epocale, perturbante ed emozionalmente indimenticabile, opteremmo giustappunto per Arancia meccanica.

In quanto, a nostro personalissimo avviso, Arancia meccanica è il suo film più geniale e, a suo modo, eccentrico, creativamente tanto mirabolante quanto, socio-politicamente parlando, più importante e perfino visionario.

Così come avvenuto sempre per ogni sua pellicola, anche per Arancia meccanica, Kubrick non fu autore in tal caso d’una sceneggiatura originale da lui creata e concepita di pura inventività scevra da qualsivoglia materiale di partenza, bensì trasse libera ispirazione dall’omonima novella dello scrittore Anthony Burgess. Adattandola, per la sua trasposizione in immagini, piuttosto fedelmente, cioè non tradendo l’evocativa forza eversiva, enigmatica e scioccante contenuta all’interno del romanzo di Burgess, altresì però plasmandolo a sua immagine e somiglianza, cioè instillandovi la sua radicale e riconoscibilissima poetica dello sguardo, impressionante e consuetamente magistrale.

Film della notevole eppur non eccessiva durata di centotrentasette minuti netti, distribuito nelle sale nel 1971, dopo essere stato presentato in mondiale anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia, Arancia meccanica, oltre a destare potente scalpore comprensibile, suscitò immantinente pareri critici assai discordanti, pur ricevendo altrettanto immediatamente, generalmente, un entusiastico apprezzamento e, subitaneamente, lusinghiere, sperticate lodi da parte dei suoi stimatissimi colleghi Federico Fellini e Akira Kurosawa, i quali si complimentarono direttamente con Kubrick, incensando Arancia meccanica e ammirandolo di venerazione sacrosanta.

Secondo la generalista e superficiale IMDb, stupidamente erronea e ripetiamo sbrigativa nella sua distorta sinossi riportata a riguardo di Arancia meccanica, la vicenda narratici sarebbe sinteticamente e assurdamente, evidenziamolo ancora, semplicemente questa:

In futuro, un capobanda sadico viene imprigionato e si offre volontario per un esperimento, ma non va come previsto.

Be’, che dire? Un’epitome e una descrizione riassuntiva alquanto, anzi, gigantescamente sbagliata e imbarazzante. Poiché, come ben sappiamo, Arancia meccanica non è di certo sintetizzabile in tale scempiaggine sommaria.

Invero, ambientato in un futuro volutamente imprecisato, dunque distopico, in una Londra spettrale sia onirica e lisergica che ammantata, atmosfericamente, di tetraggine malsana e al contempo morbosamente affascinante, Arancia meccanica verte, nel suo travolgente e spasmodico incipit tanto appassionante quanto inquietante e allucinato/allucinante, su un gruppo di ragazzi sbandati e teppistici, auto-battezzatisi drughi, che trascorrono le loro folli giornate pervasi dalla più agghiacciante noia esistenziale che si riflette in atteggiamenti e atti dei più incontrollabilmente pericolosi e delinquenziali.

La banda è capeggiata dallo scapestrato, eppur a suo modo carismatico e indubbiamente magnetico, Alexander “Alex” DeLarge (Malcolm McDowell), amante della musica classica e fanatico di Ludwig van Beethoven, soprattutto fautore dell’ultra-violenza.

I nostri boys sono soliti ritrovarsi, fra una marachella e l’altra (siamo ironicamente eufemistici e riduttivi nel definire in questi termini le loro criminose gesta riprovevoli e mostruose), fra una pazza bravata e altri glaciali malestri, al Korova Milk Bar.

In una delle loro notti da fuori di testa, fra l’altro alterati dalla bevanda bevuta al Korova, a base di sostanze stupefacenti, assaliscono l’abitazione, in periferia, del romanziere Frank Alexander (Patrick Magee), imbavagliandolo e legandolo, nel frattempo “goliardicamente” stuprando la sua sexy moglie (Adrienne Corri).

Nonostante l’osceno e aberrante stupro di gruppo orripilante e imperdonabile, qualcosa però non va per il verso giusto. Qualcuno ha chiamato, infatti, la polizia. I drughi, di tutta fretta, disperatamente provano a sfuggirne, dileguandosi nella macchia. Tutti riescono a non farsi arrestare tranne l’attardatosi Alex.

Il quale viene sottoposto a una cura riabilitativa devastante…

Il resto della trama, crediamo, la conosciate. Quindi, ci fermeremo qui. Anche perché ci parrebbe pleonastico procedere a raccontarvela e, inoltre, sarebbe irriguardoso nei confronti di coloro, ci riferiamo specialmente alle nuove generazioni, che Arancia meccanica ancora non hanno visto.

Pamphlet anti-utopico, polemico in modo non plus ultra, tanto ipnotico quanto incredibilmente sconvolgente, montato da Bill Butler, coi costumi di Milena Canonero e la strepitosa fotografia di John Alcott, Arancia meccanica, a cinquant’anni dalla sua release ufficiale, non c’appare per niente datato e rimane un capolavoro insuperato.

mcdowell clockwork orange

di Stefano Falotico

 

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