MACBETH di Joel Coen, recensione

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Ebbene, oggi recensiamo l’acclamatissimo Macbeth (The Tragedy of Macbeth) con Denzel Washington. Osannato dalla Critica mondiale, soprattutto statunitense, non da noi, però. Usiamo il plurale maiestatico come se chi scrivesse questo pezzo fosse intonato a un pensiero discorde, per l’appunto, rispetto alle uniformi critiche lusinghiere di molti recensori, diciamo, ufficiali, in quanto il suo pensiero spero non sia esclusivamente personale. E possa riscontrare opinioni che la pensino come lui, cioè il sottoscritto.

Stavolta, per tale sopravvalutato, arido e imbalsamato Macbeth, Joel decide di fare tutto da sé e infatti questo suo Macbeth rappresenta il suo primo lavoro in assoluto scritto e diretto senza suo fratello Joel.

Forse, già in questo consiste a mio avviso la sua amalgama manieristica che, per quanto superba a livello prettamente formale, è priva di qualsivoglia sottotraccia corrosiva e pungente. Caratteristiche che la penna dello sceneggiatore Ethan invece possiede ampiamente e sono state sempre di validissimo apporto al fratello Joel, spesso accreditato come l’unico regista dei film realizzati, non soltanto in fase di sceneggiatura assieme ad Ethan, il quale infatti, pur dirigendole assieme a Joel, veniva per sua strana volontà non accreditato come codirector quando in verità lo era, eccome. Stramberia e curiosità che ci hanno resi ancora più simpatici gli strepitosi, creativi brothers creatori di capolavori eccezionali come Il grande Lebowski & Fargo.

In tal caso, invece, Joel ha personalmente e interamente compiuto l’adattamento della celeberrima tragedia omonima di William Shakespeare, già numerosamente, altre volte, portata sul grande schermo e “ridotta” per il Cinema, scrivendola e dirigendola dall’inizio alla fine senza l’aiuto di Ethan. Rimanendo fedelissimo nei dialoghi.

È vero, il Macbeth è per l’appunto materiale tragico per eccellenza, anzi, a essere ancora più precisi, è forse l’opera di Shakespeare per antonomasia che ha mitizzato e reso a sua volta celebre, potremmo dire, la proverbiale espressione tragedia scespiriana o shakespeariana che dir si voglia. Dunque, non necessitava di certo d’ironia o di vena caustica, altresì non abbisognava d’un approccio così eccessivamente, falsamente magniloquente e tragicamente serioso, perdonate il voluto gioco di parole assai eloquente e graffiante. La trama di Macbeth è piuttosto nota ai più ma, stringandola, è codesta: tre raccapriccianti streghe (potremmo dire del malaugurio, rimanendo in sintonia di frasi fatte perfino di matrice ancestrale delle più superstiziose), appaiono, fra le penombre cineree d’una plumbea nebbia spettrale, agli occhi dello scozzese lord Macbeth (Washington). Si trattò d’una delle sue consuete, incurabili allucinazioni?  Profetizzandogli il reame, cioè intimandolo a persuadersi che dovrà divenire il futuro re, assassinando l’attuale King Duncan (Brendan Gleeson) attualmente in carica. Tale glaciale, omicida disegno oscuro e macabro, infiltratosi malignamente nella volontà del circuito, nell’animo avvelenato, capziosamente stregato, nel senso letterale e non solo della parola, Macbeth, non verrà osteggiato dalla moglie (Frances McDormand), bensì addirittura largamente sostenuto e caldeggiato in quanto la sua Lady è mossa interiormente da disumane bramosie di potere, d’avida ingordigia e malsana perfidia.

Sì, il Macbeth di Joel Coen è fotografato magnificamente da Bruno Delbonnel (validissimo sostituito di Roger Deakins, habitué dei Coen, erroneamente al momento ancora riportato da Wikipedia come cinematographer ma presto ravviseranno il refuso, si ravvedranno e correttamente correggeranno), messo in scena in modo sontuosamente ipnotico, si fregia e avvale di scenografie magnificenti, curate perfettamente da Stefan Dechant, esibisce un Denzel Washington fulgido ma al contempo legnoso, ieratico e possente, sovente incerto quando declama non sempre convincentemente i roboanti monologhi di Skakespeare, fra momenti in cui c’appare strepitoso e altri invece fuori posto e goffo, mette in luce la recitazione sfumata e metaforicamente, cristallinamente chiaroscurale d’una McDormand impeccabile, ma alla fin fine risulta un’operazione accademica assai pedante e noiosa, soporifera oltremisura. Artefatta, anzi, arty in modo irritante.

Inoltre, l’A24, ovvero la sua compagnia di produzione e distribuzione, dopo l’altrettanto pastrocchio incensato ingiustamente di The Lighthouse, la dovrebbe finire di convincere i registi a girare in inappropriato formato 4:3 al fine patetico di ammantare per l’appunto di finta artisticità intellettualoide, richiamante i grandi film in bianco e nero del passato, le pellicole finanziate sotto la sua egida.

Macbeth, a dispetto d’ogni sua sofisticata, finanche magnetica pregevolezza mirabile, risulta sostanzialmente e solamente un affascinante, figurativamente abbacinante quadro metafisico à la Giorgio de Chirico trasferito in immagini bellissime ma amorfe, esangui e senza pathos emotivo.

E senza pathos, per di più se abbiamo a che fare col Macbeth, mi spiace per Joel Coen, ogni impalcatura all’apparenza emanante fulgore e fascino sfarzoso, crolla ineluttabilmente e in modo rovinoso, perdendo cuore e passionale, sincero vigore e furore sentito.

Un Macbeth, infatti, raffiguratoci in modo fotograficamente abbagliante ma mancante di vera passione e sangue espressivo emozionalmente raggiante, non può essere altro che un vuoto esercizio di stile dimenticabile e inutile.

Dunque, se per la Critica americana il Macbeth di Joel Coen è un capolavoro che non si discute, per noi è totalmente il contrario.

È, rimarchiamolo, un nitido gioiello luminoso per gli occhi ma più triste e funereo, cinematograficamente ed emozionalmente, d’un luccicante dipinto favoloso alla vista ma non comunicante alcun sentimento vivo, cristallino e vivido.

Questo Macbeth è a livello figurativo un luccichio magnetico e seduttivo per le nostre iridi ma è veramente bruttino, un obbrobrio, un film sbagliato e ripugnante a livello puramente sanguigno, in senso figurato.

Forse abbiamo un po’ esagerato ma, sinceramente, non c’è piaciuto affatto.

In un cast eterogeneo e multietnico, oltre ovviamente alle presenze di Washington e della McDormand, fra gli gli attori Corey Hawkins, il redivivo Brian Thompson (sì, è lui, “belva della notte” di Cobra), Miles Anderson, Sean Patrick Thomas, Moses Ingram, Kathryn Hunter nei panni delle tre streghe “gemelle”, gli unici forse veramente di nota risultano il mefistofelico Alex Hassell e il sempre più inquietante ma eccezionale Harry Melling. Il quale, dopo essere stato già per i Coen lo sfortunato monco e fenomeno da baraccone ne La ballata di Buster Scruggs, dopo il suo ruolo da predicatore invasato ne Le strade del male, dimostra ancora una volta il suo talento e soprattutto nuovamente cattura il nostro sguardo in virtù del suo viso triangolare molto particolare e del suo strabismo di Venere oramai imprescindibile.melling macbeth

 

di Stefano Falotico

 

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