The Bag Man, recensione

The Bag Man Da Costa

 

 

 

The Bag Man John cusack

 

Un languido motel rosseggia in una notte misteriosa…

Un cadavere dagli occhi inquietanti, il brusio di cicale aleggia di mortifera premonizione, il neo(n) di luci vive sulla pelle di una esorbitante femme fatale, rossastra abrasione a circuirti ingannevole come il diavolo, fascino blu ad ammantata pantera della cupidigia pura che fruscia fra ombre nella foschia di un piccolo intrigo dal letale abbaglio intonato alle vertiginose, chilometriche gambe d’una donna dai capelli cangianti. Non c’è trucco nel suo viso giovane, inviolabile, dalle stordenti labbra viola come un bacio frastornante, peccaminosa dea sporca a rubarti l’anima e il sonno, svelta rapitrice della tua semplice, complicata missione. Recarti in un luogo sperduto, in mezzo a fangose paludi, ove stazionano reminiscenti gli incubi di storie macabre dal “rossetto” sbavato nello squamarti d’ansia color suspense. Che monta lenta, terrorizza di eventi strambi, si permea lampeggiante in un’atmosfera voodoo da limitrofa New Orleans, la città esot(er)ica per antonomasia, il co(r)vo dei gaglioffi neri con troppo sudore da tori, di freak nani provenienti dall’Est delle regioni sanguigne, veloci di omicidio e grilletto… facile come una prostituta dalle origini indistricabili… le sue cosce t’aggrovigliano nel desiderarla sin dal primo fulgido attimo dell’averla incrociata, un gioco sottile, annusante, assatanante di sguardi… e pensi di svignartela e “far(te)la” franca, nel silenzio, tintinnante proibiti sospiri, fra il buio asmatico d’una “ronzante” foresta da cacciatore o vittima? Il miraggio di un sogno… E da lontano Dragna ti guarda, il suo carisma serafico da monster dai capelli cotonati ti strazia di minaccia. Dragna è il De Niro che non ti aspetteresti, calmo, elegante, in giacca e cravatta, montatura di occhiali su iridi da gattone vecchiotto, grinzoso e scandente battute algide d’inappuntabile aplomb pronto a deflagrare in violenti colpi secchi scaglianti il suo padrone demoniaco a comandar il gioco, a manovrarti come un burattino, un demiurgo mellifluo e blandente che dall’aereo tranquillamente… scende nel (tuo) fango. E la notte si tinge d’altra stranezza, di buffa eccentricità iscritta ai tuoi lineamenti nervosi, perennemente “accerchiati”, respiranti la paura più densa di voglia di fuga e sempre capricciosi per Rebecca Da Costa, esordiente gran figa infinita. D’altronde, si chiama Rivka… senti come tira… la gattina.

Questo è un ignobile filmetto, un passatempo ammorbante, un pasticciaccio soporifero e senza mordente, privo di grinta se non ad abbagliarti, per pochissimo, con picchi della svettante regina della scena, appunto, Rebecca, stratosferica presenza imbellettante, sgambata, dal seno vorace stretto in un corpetto rosso da far invidia e gola.

 

Sba(n)da(n)ti dialoghi, noiosi sin all’osso, quasi quanto le costole sempre di Rebecca, tendente però all’anoressia, bolsi come un Cusack bollito. Un film che si pavoneggia del nulla, perfettamente allineato a un De Niro (non) protagonista nell’apparire-sparire-vanesio sparante… non solo cazzate da fanatico di “Full House”. Ba(n)gman. Ma non centra nessun bersaglio, insegue mille traiettorie, sta per imb(r)occarne una e subito perde la “ruota”… del motore, s’ingolfa, s’inceppa, fa acqua dappertutto, tutto è prevedibile sin all’inverosimile di una storia assurda ché chi l’ha scritta è un Grovic “sconosciuto” in età già pensionabile, fuori tempo massimo quindi, al posto sbagliato come il suo ridicolo, patetico cameo nel prefinale, altra botta di grottesco pazzesco, incredibile, di una incomprensibilità da farti rabbrividire per l’oscena bruttezza quanto l’esagerazione di un plot che fa proprio plof. Fa schifo. Un film tremendo come questo cazzuto Bob imparruccato, stronzone, pacchiano, ché perché sta qui come in tanti recenti altri “suoi” film senza capo né coda… te lo domandi sin dalla primissima sua occhiata nell’incipit, buttato lì per far due soldi on straight to video. Un De Niro Cyphre che demanda il film stesso di demand. Che cita Hermann Hesse per quale ragione? Perché Grovic ha letto tutto di tal filosofo pensatore e ora, producendosi questa roba, vuol far sfoggio di citazioni appunto senza diegetica alcuna, ficcate tanto per riscaldar la minestra riscaldata già di suo e farci a fette, arrosto di mandarlo a fanculo o per farci arrossire d’incredulità dinanzi a tale scapestrata burla ch’è il film stesso?

 

Cosa c’è nella borsa? La donna che visse due volte? Che razza di guazzabuglio è mai questo? Poi, quando mai un flashback, per spiegarci che quel che abbiamo visto, non è altro che una registrazione, proveniente chissà da dove, custodita da un avvocato “hitchcockiano”, appunto “in veste” di regista vanitoso e figlio di puttana del non saper che sta combinando orridamente, quando mai diventa un “filmino” nel filmare il filmaccio con telefonato finale che più banale e scontato non si poteva?

Ecco, dinanzi a tale obbrobrio, a tale lungometraggio “tanto per campare” qualche noleggio e me, che l’ho visto in streaming, rimango allucinato, perplesso. Non so ancora se ho sognato o è un capolavoro.

Sì, perché quando non c’è ritegno alcuno per lo spettatore e per la sua paziente intelligenza, quando si osa di tanto fregargli circa due ore della sua vita, in modo così furbo, studiato e davvero spiazzante, be’, cazzo, significa che un valore, anche alto, quest’oper(ett)a ce l’ha.

Gli assegno 4 stellette piene anche se dovrei seppellirlo sotto zero.

Ma, ripensandoci, invece credo fermamente che questo film potrebbe assurgere a piccolo cult immediato. Le ragioni son presto dette. Innanzitutto, non è mainstream, anzi tutt’altro. Naviga fra paludi stagnanti, quasi imprigionato marmoreamente e graffiante, sleeper a non scordartelo, in una desueta ambientazione fosca e viscerale, asincrona rispetto al Cinema contemporaneo frenetico e non inducente al fermarsi e, anticamente, memore dei vari fuori orario e di Velluto blu, si prende pause lynchianamente parossistiche, quasi ectoplasmatiche perché vive del fantasma, ricordato nella locandina originale, della scrittrice da cui s’è originata l’idea filmica, The Cat: A Tale of Feminine Redemption di Marie-Louise von Franz.

Allora, il mefistofelico De Niro è qui chiamato in causa dall’uscire da Angel Heart, da rivelatore beffardo su celeberrima risatina sferzante, da Kevin Spacey di Seven…, da monologhista saccente del nichilismo sfrenato. Abbagliandoci negli ultimi venti minuti con tanto di omaggio ai quadri del padre, rimembrato nella già citata sequenza “sbagliata”, fuori tono e tonalità dell’8 mm a capsula del significante del film.

Un film che, scavando(ci) torbidamente, non solo di ambientazione magica, si nutre della nostra anima e l’impossessa minuto dopo ore dalla visione, sfregando le nostre vene a inturgidirle di un aromatico senso cinematografico che da tempo non percepivo. Che m’ha raschiato, m’ha lasciato tutt’ora singhiozzante, annaspando a carpirne il senso. Che va oltre l’apparenza del filmetto.

Particolarità importante, iconica: John Cusack, dopo Identity di Mangold e lo strepitosoThe Ice Harvest del nostro grande Harold Ramis già rimpianto, ancora una volta si trova a battagliare col suo destino “incastrato” nelle stanze comunicanti d’uno squallido, americanissimo motel…

 

Firmato Stefano Falotico

The Bag Man De Niro

 

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