Robert De Niro, l’intoccabile

Robert De Niro Vanity Fair Party

 

di Stefano Falotico

 

Negli anni settanta, Hollywood si rinnovò e spuntò, dalle nebbie d’un Cinema retrogrado e oramai consunto, sull’orlo del collasso perché incapace di ammodernarsi, dalle opacità appassenti d’un nitrato d’argento troppo arrugginitosi, sì, spuntò Bob De Niro. Così, Bob, noi l’apostrofiamo di primo nome simpatizzante d’empatia nostra amicale.

Bob De Niro e il suo neo distintivo, marchiato a volto inconfondibile che subito s’impresse nella memoria, radendo al suolo i visi impostati d’attori del passato già sorpassati. Li surclassò, beffandoli con la sua risata ambigua, fra l’ammiccante pensieroso a (non) discernersi ma (s)mascherarsi nudamente traspirando una smorfia enigmatica, dallo stupefacente chiaror lunatico nell’arsione levigata di labbra “argute”, peccatrici dell’unica colpa d’esser un Dio della recitazione, erede già designato di Marlon Brando. D’altronde, il destino è firmato di Oscar per lo stesso personaggio che interpretarono, appunto, in epoche diverse, cioè Vito Corleone, ma collocato d’egual carisma altisonante, magnetico, impossibile da scordare.

A scorticarci dentro nei fiammeggianti, sfumati colori d’una sottigliezza altissima d’attori nati divini.

E De Niro ci divinizzò a suo insegnamento, sol aggrottando la fronte d’asimmetriche rughe incorniciate a virtuosa e funambolica sua unicità mastodontica. Anche solo “masticando” la pelle del suo volto in abrasione nostra a congiungerci amanti dei suoi sospiri di diaframma denso, sanguigno, iroso o arrossendoci di tale forza penetrante d’ardore camaleontico da raschiarci e scuoiar le nostre pulsanti vibrazioni interiori.

L’emozionalità della grandezza empatica, il flusso caloroso del transfert attore-spettatore.

In adorazione, lo celebrerò…

 

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