La figura del padre nel Cinema e nella (mia) vita

di Stefano Falotico

Frankenstein di Mary Shelley Branagh De Niro

C’è una scena, quella finale, del Frankenstein di Kenneth Branagh, da me fra l’altro rielaborato in un omonimo libro, che è a sua volta una versione a esso ispirato più che al romanzo celeberrimo di Mary Shelley, una scena che mi rimase immediatamente impressa fin dalla prima visione.

Il “monster” De Niro, la creatura “nata” dagli strani esperimenti del “folle” scienziato che, dopo la tragica morte della madre, morta di parto, diviene appunto il dottor Frankenstein, piange la scomparsa di suo padre… Frankenstein, un uomo divenuto dottore, appunto, non tanto per fini filantropici e curativi la sofferenza e le malattie fisiche dell’umanità, quanto piuttosto per una perversa forma di vendetta nei riguardi d’un Dio ingiusto che estrasse l’anima sua infantile, nell’infliggergli quell’incolmabile, dolorosissima, irreparabile perdita quando era troppo piccolo per poter sopportare la verità. La verità che la vita, prima o poi, finisce. Ancor più terribile da accettare perché un bambino, forse, non solo non è pronto a prender coscienza e confidenza proprio col concetto di morte, puro e incosciente qual è, ma neppur, figurarsi, a veder morire sua madre.

De Niro vede a sua volta morir suo padre. Un “padre” particolare, non biologico ma che l’ha generato nel suo laboratorio degli orrori…

Per tutto il film, De Niro, essendo stato creato mostro e non uomo (?), trovandosi a combattere un’umanità che, per la sua repellenza fisica da “elephant man”, lo emarginerà, lo caccerà e lo ridurrà all’inevitabile, rifugiante, immensa solitudine fra i “boschi” del suo perenne fuggitivo schivato, vilipeso, griderà nella sua anima la rabbia dell’esser stato “concepito” diverso. E per la sua alterità “congenita”… dunque maltrattato, impossibilitato ad avere un amore “normale”. Un “mostro” che per tutto il film inseguirà suo padre, l’uomo che lo creò non pensando però alle conseguenze del suo gesto. Lo stesso uomo però al quale, una volta davvero morto, verserà lacrime d’inestirpabile amarezza e cordoglio.

Perché era mio padre…

Be’, una scena commovente.

Di mio padre, posso dire che è un padre decisamente biologico. Ho citato questo film, dunque, soltanto perché è un esempio di “paternità” sui generis, anzi da degenerato. Ma “toccante”… parimenti all’affresco di Michelangelo nella Cappella Sistina che ritrae Dio a infonder la scintilla vitale al suo Adamo, “scena” citata da Branagh in forma “diversa”, ecco, ma chiaramente ispirata alla Genesi pittorica più famosa della Storia…

Colui che, invece, mi ha generato, è un padre lodabile, enormemente ammirevole.

Un padre che ha sempre saputo il mio fanatismo adolescenziale per De Niro. E ha sempre appoggiato le mie scelte, allineate a questa mia “idolatria” per Robert… tanto che era lui a comprarmi i VHS dei film interpretati dal “mostro”. Scusate, volevo dire dal nostro.

Nel Cinema, spesso vien trattata la figura della madre, fra rapporti castratori da complessi di Edipo, e in questo Woody Allen è uno “specialista”, basti pensare al suo episodio di New York Stories, ma invero non son invece tantissimi gli esempi di “pater familias”.

Una figura patriarcale, o meglio una dinastia “padrina”, che mi vien subito alla mente, è sempre firmata Francis Ford Coppola, che del Frankenstein di Branagh fu il produttore…

Quella, avete già capito, della saga The Godfather. Ma, anche in questo caso, rimaniamo in ambito di rapporti padre-figli alquanto anomali, appunto “mostruosi”. Non molto, diciamo, pedagoghi, eh eh. Già, tramandare quella “tradizione” di famiglia non è mai un insegnamento moralmente ineccepibile. Non credete?

Mio padre… di mio padre so tutto e so niente. So che svolse lavoro stimatissimo presso un’importante azienda della mia città, un impiego proprio “impiegatizio”. Ma del Fantozzi, nonostante la sua indole mansueta, ha sempre avuto ben poco in (luogo) comune…

Remissivo mai, “dimesso” semmai, non per timidezza o quella cazzata della debolezza che non fa bellezza del cazzo, ma per spiccata signorilità che ha sempre preferito passar sopra le trivialità di quel tipo “topesco” di società cinica, incitante alla “forza” squallidamente vi(ri)le dei “vin(cen)ti”. Un uomo buono ma non mangiatevelo così, come si suol dire. Un uomo “conformista” non per qualunquismo e facile adattamento finalizzato a portar a casa la pagnotta, un uomo (piut)tosto… educato al rispetto, a trasmettermi i “gioielli”, cioè non le “palle” dei coglioni che si credon “forti” se esibiscono mille donne e dollaroni come “valore maschio” dell’esser “machi”, bensì la poesia dell’anima.

Sì, se hai anima, il resto non tanto conta(nti)…

Esser contenti è esser nell’anima grandi.

Sì, mi ricordo che da piccolo origliavo mio padre coi vinili di Lucio Battisti e poi dolcemente gli chiedevo perché ascoltasse quella musica, sì, bella e lieta ma che, alle mie orecchie di bambino, suonava troppo autunnale e malinconica…

Lui mi prese in braccio e mi raccontò che, da giovane, nel suo paese natio, vestiva “tamarro”, oggi si direbbe così, indossava croci d’ottone al petto e, sull’anulare della mano sinistra, portava un anello a forma di teschio.

Piaceva anche alle donne. E, fra quelle donne, scelse mia madre.

Mi confidò, e io provai a capire con la mia anima da infante che però non tanto capiva, che crescendo, ecco, ogni uomo, e non i pagliacci, impara ad ammorbidirsi e si lascian stare le rivalità stolte, ottuse e ostinate da “duri”. Perché si capisce che la vita è una e poi c’è solo la morte. Sì, mio padre è sempre stato ateo anche se poi, durante le festività, andava a messa per “rit(ual)i” canonici… anzi, adesso che ricordo meglio, andava a messa solo a Natale. E, dopo la predica del parroco, lui sempre sorrideva, come dir, sotto i baffi, anche se mio padre si radeva la barba ogni mattina, che non credeva a una sola cazzata di quei bla, bla, bla ecumenici buoni(sti) soltanto in teoria. Una volta cresciuto, mi disse che quel parroco, sì, lui sapeva che faceva (la) “comunione” con suore troppo un(i)te alla sua ipocrisia da altari(ni).

Ecco, credo che sia per questo che mio padre è un grande padre.

Ha sempre conosciuto la verità e non ha mai dato retta alle ipocrisie.

 

Lascia un commento

Home Another bullshit night in suck city La figura del padre nel Cinema e nella (mia) vita
credit