Vizio di forma, recensione

Vizio di forma

Madonna santissima, che film enorme che è Vizio di forma. Praticamente un détournement surrealista applicato al Cinema (sembra di stare nell’inconscio di qualcuno, non scherzo), che prende il romanzo di Thomas Pynchon come un venerabile oggetto di partenza da rispettare con la massima fedeltà (in quanto a spirito di fondo, grana d’epoca, cromie), ma allo stesso tempo da ricollocare dentro un affresco ancor più vicino a un incubo a occhi aperti: un tour de force visivo in cui ogni immagine potrebbe essere tanto reale quanto frutto di un trip o di un sortilegio del regista, che ci interroga costantemente sulla veridicità delle sue stesse immagini e spinge la riflessione sulla luce cinematografica al massimo della sua problematicità e densità. Paul Thomas Anderson il testo di Pynchon non lo distrugge ma lo smantella, lavorando su segmenti e micronarrazioni (“To best respect it is to sometimes dismantle it and tear it apart to make it a movie”, parole sue). E lo trasforma, di fatto, nel suo ennesimo, vertiginoso capolavoro su un’America avvolta in uno strato di nebbia, incapace di guardare dentro se stessa e di mettersi a fuoco, se non attraverso la mediazione delle sue ossessioni e allucinazioni; preda di un’invasata malinconia simile al tormento in cui “love”, paradossalmente, per una volta, suona meglio con “paranoia” e “trouble” che con “peace”. Letteralmente spaventoso, ma anche divertente fino alla morte, pieno di quella gioiosa, stropicciata smemoratezza che fa tanto seventies. Impossibile pensare ad altro, dopo averlo visto, per un bel po’ (o almeno da ieri sera)…

 

di Davide Eustachio Stanzione

 

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