La grande bellezza secondo me

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Svegliarsi dopo una festa altisonante, o meglio frequentata da ricchi (ba)lordi in pausa eccitata/nte del logo della Martini.
Spadroneggiar di oratoria e sopraffina dialettica scaltra da Jep Gambardella/Servillo, servito e riverito da un ipercinetico Sorrentino mai domo con la macchina da presa, fra zoom avanti-indietro, dilatazioni di dolly e giraffe riprese, diciamo, a squarciagola dello stupor nostro esterrefatto, non si sa se infastidito da tanta lentezza prodigiosa, da albe squinternate immerse nel falò della Luna vicina al faro, da elicotteri e fenicotteri danzanti sopra una terrezza che affaccia sul Colosseo, oppure colossalmente ingannati da carne al fuoco esagerata della critica alla borghesia alta, dunque bassissima, romana, compresa la regina Ferilli, baronessa delle cafone prima di sformarsi come la pavona, tronfia, decaduta Grandi Serena, in parto gemellato con lo sfatto, antipatico, distrutto Verdone Carlo.
La grande bellezza, fellinianamente smisurato e (im)pari, si destreggia così, sinistramente perfido di arguzia e furbizia manieristica un tantino (dis)gustosa.
Placida e turbolenta, turbata e non acchetata, si (ri)posa Roma, città di sante, cardinali ed esorcisti, di portieri di notte con la chiave dei migliori palazzi monumentali, di starlette magroline e stronzissime, di giramondo alla Jed dal fascino culturale indubbio, gobbo e con lo spiccato-spacc(i)ato senso di acchiappo per donne già rugose, in là con età e anagrafe non più giovanile, attempate, seducenti signore di lusso e lussuria alla Ferrari Isabella, ammodernate di antico sex appeal nauseante.
Antiche, la Via Appia, i pioppi, i c(ipr)essi, i viali e il raccordo anulare, Antonello Venditti stempiato con la parrucca, la fauna decadente di una metropoli sulle sue ceneri imperiali (de)ceduta.
Ed è poesia, forse un magico ricordo, la prima (s)volta non si scorda mai nel cinereo cor e mare.

Il resto è chiacchiericcio.

di Stefano Falotico

 

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