“Moonrise Kingdom”, recensione di Davide Stanzione

 

   L’ottavo film di Wes Anderson, presentato nei giorni scorsi in anteprima a Lucca e già film d’apertura dello scorso festival di Cannes, è un ulteriore tassello di un quadro d’autore che riscopriamo ogni volta sempre dolente e sempre originale, che non può non trovare la sua ragion d’essere nell’ostinata ma mai estenuata ripetizione di se stesso, di una maniera che non è mai calco pittorico, di un’estetica peculiare perfettamente riconoscibile ma che difficilmente riesce a stancare o a risultare addirittura satura. A prescindere che flirti col road movie o con la saga familiare, con la screanzata avventura acquatica o con la dolcissima ritrattistica di un goffo e dolce bestiario umano, l’incanto di Wes è sempre lo stesso, un sentiero periferico in cui perdersi ogni volta in modi uguali e diversi.

È la lieve commistione dei toni, il dramma di una malinconia in controluce che si congiunge con la comicità impacciata e involontaria di personaggi amabili: come il trucco sbavato di una tredicenne, come il costume da corvo un po’ fuori posto a una recita scolastica di una ragazzina che sta palesemente sbocciando come donna e che vediamo costretta in ambiti che ci appaiono un po’ forzati; come l’abbigliamento da Cachi Scout di un ragazzino ben lontano da una forma anche lontanamente accettabile di virilità.

Racconta di una fuga, Moonrise Kingdom, come ci ricorda l’immondo sottotitolo italiano. La fuga di due piccoli adulti (e dello stesso Wes) da un mondo di grandi, di borghesi piccoli piccoli un po’ conformisti e tanto ipocriti, il sogno paradossale di un amore fuori dal tempo e dalle regole. Anderson dà l’idea di interessarsi prettamente ai suoi due adolescenti eccentrici e privi di centro, alle loro fragili dubbiosità, a scambi di battute che rivelano un disagio generazionale che, a questo punto del suo Cinema, potrebbe anche sembrare autoreferenziale ma che non lo è. Di fatto è sostanza, è carne di un’estetica che, in quanto terribilmente e meravigliosamente  autoriale e autoritaria verso se stessa, non può che ripetersi, cercare nuove chiavi di lettura e aprire nuove porte rispetto a mondi già esplorati.

La dialettica dei primi piani incrociati tra Sam e Suzy fuggiaschi d’amore rimanda ovviamente a quella de I Tenenbaum, quella dei fratellastri Gwyneth Paltrow e Luke Wilson accomunati da un amore tanto inespresso quanto potenzialmente incestuoso e deleterio che non a caso viene solo vagamente sognato, tra una sigaretta segreta fumata di nascosto in bagno e dei propositi autolesionistici in un lavandino.
“Vorrei vivere in un film di Wes Anderson”, cantavano “I Cani” nel loro sorprendente album d’esordio di nome e di fatto.

“Inquadrature simmetriche e poi partono i Kinks. […] E i cattivi non sono cattivi davvero/ e i nemici non sono nemici davvero/ e anche i buoni non sono buoni davvero/ proprio come me e te…[…] Vorrei l’amore dei film di Wes Anderson, che è tutto tenerezza/ e finali agrodolci…”.

Neanche in Moonrise Kingdom abbiamo cattivi espressamente manifestati, ma solo ostilità vagheggiate, vedi l’assistente sociale di Tilda Swinton che se la prende col capo scout Edward Norton, adulto che fa il bambino in una divisa da cretino (mentre i bambini dal canto loro fanno i cretini in divise da adulti), e lo sceriffo Bruce Willis, o i genitori di Suzy dagli attriti non troppo mal celati, interpretati da Bill Murray e Frances McDormand, che si sussurrano nell’ombra l’intimità e la sincerità che avevano dimenticato e rimosso. Ritrovandola, forse, senza superpoteri improbabili come un binocolo per guardare più lontano ma con la semplice messa in gioco degli affetti, dei loro pensieri taciuti e non rimossi. L’amore (per così dire) maturo, insomma, mentre contemporaneamente  su una spiaggia si consuma quello di due bambini che scoprono il mondo, che mischiano palpatine, baci, sabbia e dei ti amo tenerissimi e ridicoli, ma di una verità sconcertante (che forse, è in fondo l’intima e lacerante verità propria di tutto ciò che è o appare ridicolo).

I bozzetti illustrativi di Wes lasciano come sempre il posto al brivido epidermico, con sincerità disarmante, mai artefatta, mai programmatica. Moonrise Kingdom è un film che se ne infischia di piacere a tutti, che ha la sua scena madre in un twist impacciato e frenetico sulle note di un romanticissimo brano francese. L’ennesimo film bello bello in modo assurdo di un giovane regista texano che continua a essere un pervicace alieno non conformato, non inquadrabile, meravigliosamente fuori posto e fuori dal mondo.

 

Il Cinema di Wes Anderson ha ormai raggiunto la statura emotiva e la definitiva grazia superiore di una lacrima che si congiunge a un sorriso: lo si può odiare per la sua fastidiosa inconsistenza, per la sua calligrafia (solo apparentemente) di facciata o amarlo per le sue atmosfere buffe e malinconiche. Essendo un Cinema di spleen salingeriano e reclusione/esclusione di anime elette, d’emarginati e sensibilità fortissime, è difficilissimo che incontri favori generalizzati, quasi impossibile che non desti perplessità. E, d’altro canto, è altrettanto improbabile nutrire nei suoi confronti sentimenti intermedi. Scinde i cinici dai sognatori, si potrebbe dire: un’affermazione che è senza dubbio una riduzione ingenua e semplicistica della realtà, ma che a pensarci bene non è poi così insulsa e forzata.

 

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