Le vite proprie, pie, o non vi(t)e

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Molti rimangono sconvolti dal “fallo” sesquipedale secondo cui, nonostante la mia età e una sopraggiunta iper coscienza, dovuta a molte letture “svolte” e patimenti inflittimi, dovuti, cercati, sul mio sentiero incappatimi, non abbia una cosiddetta “vita mia”. Nel senso che, come Bukowski, se non saltuariamente, non concepisco il lavoro e non mi attengo a qualsivoglia dettame sociale, vivendo di regole personali, di una disciplina ronin di adiacenza alla chete e poi alla frenetica tempesta, sebbene abbia acquietato molti di questi slanci rabbiosi, incanalandoli in una moderata compostezza che fa spavento. No, credo di essere una delle persone, poche a dire il vero e poco porche, molto di generosità parco, ove non fumo le canne, che non ha un’attività “produttiva” per la collettività. Rimango sempre stupefatto dai tanti che hanno intrapreso la “strada” di ragioneria, o peggio d’ingegneria, e mi stupisco dei tanti “costruttori” di questo mondo. Gente che vuole sempre questo maledetto “progresso” e forse non ha mai imparato la lezione zen(it) del vivere. Dunque, per molti sono morto, ma mai invece come in questi attimi faccio dell’insopportata solitudine da parte degli altri un motivo di fiera dignità. Poiché ho addomesticato quelle ire che tengono “vive” le persone che si cibano di chiacchiere, sempre sul pezzo, soprattutto di merda, e annacquano, a mio avviso, in una zona, questa sì, già giacente da tempo nelle profondità dell’idiozia. Eppur rido, facendo della poesia un vanto, anche un vaniloquio che sa di me stesso. Cari ossessionati dalla vita “propria”, rendete la vostra vi(t)a un capolavoro, invece che (in)seguire le assurdità farlocche del chiasso e del caos.

di Stefano Falotico

 

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