Creed, recensione

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Ebbene, innanzitutto facciamo chiarezza su cos’è uno spinoff. Molti di voi già lo sapranno e quindi riterranno superflue le mie parole spiegative, altri sanno a grandi linee di cosa si tratta ma probabilmente non hanno chiaro il concetto. Genericamente, uno spin-off è un’opera derivata da quella principale, che spesso si articola a modo proprio, personale, affiliata a quella originaria, o presentando una storia parallela, che fa riferimento all’opera portante di origine per svilupparsi poi in maniera autonoma, conservando molte volte lo stile e i canovacci, le linee narrative dell’opera da cui deriva, quella di partenza che, talvolta involontariamente, dato il suo successo e la sua immediata riconoscibilità, ha indotto a creare appunto delle sorte di suoi figli, in questo caso cinematografici, tramandandone il “seme”, l’asse diciamo genetico.

Dunque, quale migliore esempio di Creed? Che deve la sua “nascita” alla saga (sì, qui si estende il discorso a tutta la filmografia “balboiana”) di Rocky, e ne mantiene per tutta la sua lunga durata quasi identicamente gli stilemi, i tratti distintivi, soprattutto del capostipite, il film che fece balzare agli onori della cronaca il suo assoluto protagonista, Sylvester Stallone, che oltre a interpretare la pellicola, oscarizzata e divenuta immediatamente un cult per intere generazioni, l’aveva anche prodotta e sceneggiata con un acume quasi prodigioso per come indovinò la formula vincente, quella che, nonostante le sue ingenuità e lo spirito naïf perfino quasi imbarazzante per la sua semplicità di “poetica da strada”,  commosse e appassionò appunto spettatori di ogni età, e che a distanza di quarant’anni da quando uscì, come vedremo, continua a mantenere il suo fascino, senza stancare mai, pur ripetendone, in maniera mutuata, la trama e le ambientazioni.

Ecco, dalla prime immagini, già movimentate, ci viene raccontata lapidariamente l’infanzia di Adonis, cresciuto tra riformatori, case famiglie e carcere minorile, poi preso sotto l’ala protettiva della madre, che lo ospita nella sua casa e gli dona, oltre all’affetto, i privilegi per poter emanciparsi dalla sua situazione difficile e dura, garantendogli una bella vita e soprattutto un’importante istruzione. Adonis vive ora nel lusso, in una villa gigantesca e lavora onorevolmente per una ricca società finanziaria. Ma Adonis chi è? Altri non è che il figlio “illegittimo” di Apollo Creed, avuto da una relazione extraconiugale tenuta sempre nascosta all’opinione pubblica. Ora, conoscete Apollo, no? Il grande pugile nero che diede a Rocky Balboa la grande chance di poterlo sfidare in un incontro storico, valido per il titolo dei pesi massimi. Nella prima pellicola, Apollo vinceva l’incontro, nel sequel perdeva all’ultimo secondo, nel terzo allenava Rocky affinché potesse riguadagnare il titolo e soprattutto recuperare la stima perduta, nel quarto abbandonava le scene, venendo ucciso in un match mortale contro il gigante russo Ivan Drago. Insomma, già lo sapete. D’altronde Rocky è quasi un nostro parente e “a menadito” non ci è sfuggito niente del suo percorso umano e cinematografico. Ma è necessario ribadirlo come promemoria… perché Creed, a questo punto, diventa metacinema, dilatazione nel tempo e nello spazio di quella storia, di quelle tante storie e sotto-trame, di quei luoghi, di quelle origini.

Adonis non è felice della sua vita. Ha apparentemente tutto, ma in cuor suo ha sempre vissuto nel ricordo di quel padre mitico che non hai mai conosciuto, perché è morto prima che nascesse. E nel suo sangue scorre lo stesso DNA, quello del guerriero da ring, del boxer nato per combattere…

Allorché, dopo alcuni incontri clandestini, da lui puntualmente vinti proprio in virtù della sua predisposizione “genetica” di essere destinato a divenire un pugilatore forte, irruento e “imbattibile” come il padre, decide di andare a Philadelphia, per essere allenato da Rocky Balboa in persona. Rocky lo ritroviamo laddove l’avevamo lasciato nell’ultimo film della saga, a gestire, dopo la morte del cognato e della moglie Adriana, il ristorante pittoresco intestato alla memoria della sua indimenticabile sposa defunta. I due fanno veloce conoscenza e negli occhi di Rocky, subito, scatta qualcosa, un’empatia emozionale, come se Adonis fosse uno di famiglia, d’altra parte. Ma è riluttante ad allenarlo. Solo dopo svariate circostanze, e dopo aver appurato, toccato con mano, potremmo dire, la rabbia positiva del ragazzo, decide di diventare il suo trainer.

Intanto, Adonis s’innamora di una cantante che vive nell’appartamento sotto al suo. Insomma, seppur aggiornata ai tempi nostri e inevitabilmente in alcuni punti differente, la storia è come quella del primo. La stessa Philadelphia coi suoi quartieri degradati e la povera gente, la stessa voglia di riscatto e determinazione, grinta della giovane promessa, la stessa storia d’amore, anche se narrata con toni, sì, delicati e pudici, ma meno romantici e più sbrigativi, ancora una volta un vecchio allenatore stanco e un po’ disilluso e un ragazzo in cerca della sua speranza. Lì era Mickey (il compianto Burgess Meredith), qui è Rocky stesso. E, alla fine, una grande, inaspettata opportunità di poter lottare per vincere il titolo mondiale, stavolta però dei pesi medio-massimi. Non sveleremo altro, abbiamo già rivelato e detto abbastanza.

Insomma, questo Creed diventa, a conti fatti, più una sorta di remake che uno spin-off. E Ryan Coogler, che sa che così andrà sul sicuro, senza rischiare troppo, è comunque bravo a ricreare e a trasmettere il trascinante, sempre efficace effetto nostalgia.

Insomma, un film che non è niente di trascendentale né particolarmente originale, anzi, tutt’altro, ma grazie alla mano ferma e sobria del regista, a quei tocchi inesorabili che lo riagganciano in maniera perfetta, vividamente “contagiosa” e combaciante all’originale e ai suoi seguiti, diviene un’altra storia piacevole, dall’ottimo ritmo e incalzante. Nulla di che, ripetiamo, forse esagerati i plausi della Critica americana all’epoca della sua uscita, quanto “eccessiva” la nomination all’Oscar come miglior attore non protagonista a Stallone, che andò vicinissimo alla statuetta e comunque vinse a mani basse il Golden Globe, ma si sa… Rocky è sempre Rocky, anche quando non è solo Rocky, potremmo dire. E allora va bene tutto.

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di Stefano Falotico

 

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