Mindhunter, recensione di Stefano Lo Verme

Tratta da Movieplayer.

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  Jonathan Groff interpreta il ruolo di Holden Ford, agente speciale dell’FBI che nel 1977 dà inizio a un rivoluzionario programma di ricerca sul comportamento criminale, in Mindhunter, l’acclamata serie di Joe Penhall: un prodotto atipico che può vantare un’eccellente scrittura e il contributo alla regia di David Fincher.

Psycho killer, qu’est-ce que c’est?

Se si considera il binomio formato da David Fincher e i serial killer, oltre al riferimento più immediato, ovvero il cult del 1995 Seven, è doveroso ricordare anche un film meno fortunato datato 2007, Zodiac. Incentrato sulla caccia al famigerato omicida seriale attivo nella San Francisco Bay Area fra gli anni Sessanta e Settanta, alla sua uscita Zodiac non è stato il grande successo che il tema e i nomi coinvolti lasciavano presagire: il pubblico, infatti, è rimasto in parte spiazzato da un thriller di oltre due ore e mezza in cui l’azione era praticamente inesistente.

Per quanto, a livello commerciale, non abbia ripagato gli sforzi produttivi, tuttavia Zodiac, oltre ad essere amatissimo dagli estimatori di Fincher, è anche un’opera che ha scardinato alcune convenzioni del proprio filone di appartenenza: il suo assunto, indubbiamente innovativo, è stato quello di costruire un thriller poliziesco dall’approccio rigorosissimo, del tutto incentrato sugli ‘investigatori’ e sui loro dilemmi personali. Una formula che, a dieci anni esatti di distanza, Fincher e il suo team di co-produttori hanno rielaborato e riproposto sul piccolo schermo nei dieci episodi di Mindhunter.

L’impero della mente

L’incipit del primo episodio non deve trarre in inganno lo spettatore: in una notte di fitta pioggia Holden Ford, un giovane negoziatore di ostaggi per l’FBI, è impegnato nel tentativo di placare uno squilibrato armato di pistola. È la prima sequenza di Mindhunter pervasa di una suspense tradizionale, nell’ottica del genere poliziesco, ma contrariamente alle possibili aspettative rimarrà anche l’ultima. Al creatore e showrunner Joe Penhall, drammaturgo inglese che per il cinema aveva sceneggiato due impegnative trasposizioni dalla grande narrativa contemporanea (L’amore fatale, dal romanzo di Ian McEwan, e The Road, da quello di Cormac McCarthy), basta una manciata di sequenze per mettere in chiaro la natura della serie targata Netflix: in Mindhunter la ‘caccia’ a cui allude il titolo si consumerà esclusivamente su un piano dialettico e psicologico.

Chi, ricordando Seven o Millennium – Uomini che odiano le donne, si attende brividi, adrenalina e colpi di scena, rischia di restare deluso: in Mindhunter la detection sulle orme di assassini seriali è appena una tangente in un intreccio fabbricato con tutt’altri presupposti e tutt’altri obiettivi. La serie di Penhall, semmai, può essere accostata per certi aspetti a Masters of Sex: pure in questo caso, infatti, il fulcro narrativo è costituito da un progetto scientifico potenzialmente rivoluzionario quanto, in misura esponenziale, rischioso e controverso. Assieme al più maturo collega Bill Tench, Holden riesce infatti ad avviare un programma volto allo studio e alla definizione di una normativa delle tipologie comportamentali dei serial killer: una ricerca condotta ponendosi faccia a faccia con psicopatici già assicurati alla giustizia, e provando ad esplorare gli insidiosi meandri di menti che hanno partorito le più bestiali atrocità.

Il “giovane Holden” e i suoi partner

È il bizzarro paradosso da cui scaturisce gran parte della forza drammatica di Mindhunter: da un lato l’esigenza di attenersi ad una precisione scientifica e a tutti gli scrupoli del caso; dall’altro la necessità, avvertita con particolare fervore da Holden, di abbandonare i lidi sicuri per avventurarsi nel territorio dell’ignoto. E cosa c’è di più ignoto del panorama che si cela nell’oscurità di una psiche affetta dal più tragico dei mali? Un contrasto ulteriormente accentuato dalla scelta del protagonista: Jonathan Groff, ex alunno canterino di Glee, con il suo viso e il suo portamento da perfetto bravo ragazzo, è quanto di più lontano si possa immaginare dall’archetipo noir del detective duro e tormentato. Da una puntata all’altra, però, lo vedremo addentrarsi sempre più a fondo nell’abisso di questa indagine, con una determinazione che a tratti sembra sfiorare l’ossessione, animato dalla consapevolezza del valore seminale di un progetto che mai nessuno aveva intrapreso prima di allora (la figura di Holden Ford è ispirata a quella di uno dei primissimi profiler dell’FBI, John E. Douglas).

Al fianco di Groff, in un meccanismo quasi da buddy movie, il caratterista Holt McCallany calza a meraviglia i panni del suo principale collaboratore, Bill Tench, il cui iniziale scetticismo e la solida prudenza faranno spazio ad un coinvolgimento sempre più ampio nell’impresa di Holden. A questa “strana coppia”, sulle cui interazioni gli autori basano alcuni dei dialoghi più riusciti della serie, si affiancherà poi anche una terza presenza: quella di Wendy Carr, psicologa interpretata da Anna Torv (attrice della serie Fringe), la cui professionalità fredda e impeccabile farà da contraltare all’istintività spesso avventata di Holden. In ambito privato, invece, il protagonista trova una sponda di costante confronto – e talvolta di conflitto – in un’altra figura accademica, la sua fidanzata Debbie Mitford (Hannah Gross), dottoranda presso l’Università della Virginia.

Imparare la lingua del Male

Mindhunter non manca inoltre di rievocare lo “spirito del tempo”, ovvero l’America della seconda metà degli anni Settanta: non attraverso pretestuosi rimandi alle vicende di quel periodo (anzi, la serie evita quasi del tutto riferimenti specifici alla storia o alla politica), ma restituendo alcuni elementi di un immaginario cristallizzato soprattutto mediante un certo cinema… un cinema al quale, non a caso, Fincher e Penhall rendono omaggio nell’episodio d’apertura, quando Holden illustra alcune peculiarità del rapporto fra negoziatore e criminale usando uno dei capolavori di Sidney Lumet, Quel pomeriggio di un giorno da cani. La fotografia, curata da Erik Messerschmidt, alterna l’atmosfera plumbea degli esterni alla penombra degli uffici e delle celle carcerarie, mentre la colonna sonora racchiude un autentico juke-box del pop e del rock dei Seventies: Toto, Don McLean, la Steve Miller Band, i Talking Heads (come non inserire le note della leggendaria Psycho Killer?), David Bowie, i Fleetwood Mac, Meat Loaf, The Alan Parsons Project, fino a quello struggente epilogo, l’improvvisa ‘implosione’ di Holden, sulla melodia di In the Light dei Led Zeppelin.

In fondo, Mindhunter si sofferma soprattutto su questo: l’eterna riflessione dell’essere umano sul mistero (insondabile?) del Male. Un Male che, contrariamente ai preconcetti vigenti all’epoca, non viene trattato come un corpo alieno rispetto all’uomo stesso, alla stregua di un fenomeno metafisico; al contrario, il Male è un avversario da fissare dritto negli occhi, con il quale iniziare a dialogare apprendendone innanzitutto il linguaggio. Il Male, in ultima istanza, è qualcosa da capire, riconoscendolo pertanto come una componente intrinseca alla specie umana: ed è tale assioma a rappresentare il vero ‘mostro’, l’unica, reale fonte di suspense all’interno di una serie decisamente complessa e sofisticata. E al termine del decimo episodio, quell’ultimo scambio di battute fra Holden e il gigantesco serial killer Edmund Kemper (Cameron Britton, superbo nella sua recitazione controllata e sotto le righe) annullerà ogni residuo di distanza fra i due uomini, l’agente dell’FBI e il maniaco pluriomicida. È davvero possibile guardare in faccia il Male senza restarne a nostra volta contagiati? Un interrogativo inquietante da conservare per la prossima stagione…

 

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