Loro 1, recensione di Anton Giulio Onofri

arton13361-23dbdIl 2.0 ha fatto piazza pulita del Postmoderno, ma non tutti sembrano essersene accorti. Eppure, abituati al passo che se una volta veniva misurato ogni 100 anni nel Ventesimo secolo ha assunto il ritmo più spedito delle decadi (se diciamo ‘nel Cinquecento’ o ‘nell’Ottocento’, diciamo invece ‘negli anni ‘40’, ‘negli anni ‘70’, e così via), da quando facebook, youtube, instagram, whatsapp sono diventati strumenti abituali delle nostre relazioni, più o meno reali, più o meno virtuali, profondamente mutato è pure il nostro modo di apprendere, giudicare, catalogare e distinguere l’intero sistema di dati con cui abbiamo a che fare quotidianamente, in un calderone di informazioni che a malapena riusciamo a gestire e a valutare con la necessaria riflessività. Nel calderone finiscono inevitabilmente anche i nostri ‘sentimenti’, quei moti dell’animo che determinano i nostri affetti e la nostra personale maniera di esprimerli e di accudirli, così come anche i nostri gusti in fatto di qualunque cosa, dal cibo alla letteratura, dalla moda all’arte, dalla musica al sesso. Noi italiani, a differenza degli altri terrestri, abbiamo vissuto questo processo di trasformazione lento ma denso e limpidamente percepibile – almeno per chi non ha rinunciato ad avere del mondo e di sé una consapevolezza utile, anzi necessaria a conservare dignità e lucido discernimento – in pieno Berlusconismo: cioè quell’epoca iniziata molto prima della ‘discesa in campo’ di Silvio Berlusconi nelle vittoriose (per lui) elezioni politiche del 1994: con tre reti televisive nazionali di sua proprietà, infatti, il Cavaliere era entrato già da 10 anni (l’acquisizione del terzo network Mediaset, Retequattro, avvenne esattamente nel 1984) nelle case della Penisola spargendo a piene mani i fondamenti di un’etica e di un’estetica nuove di zecca, a metà tra il riflusso e il Trash. Fu dunque naturale che buona parte di quegli italiani cresciuti o maturati guardando cartoni giapponesi, telenovelas sudamericane, sitcom USA e quiz plasticosi infarciti di spot pubblicitari e televendite di pentole e di materassi trasmessi 24 ore su 24, cadesse in massa nella trappola demagogica di quel populismo nascente che in quasi vent’anni ha radicalmente modificato nel mondo intero, ma anche e anzi soprattutto in patria, la percezione dell’Italia così come l’aveva conosciuta chi aveva almeno vent’anni in quegli ormai lontani e pastellati anni ’80. Berlusconi, destituito a forza nel 2011 per motivi che ognun sa e che non occorre certo esporre nuovamente, almeno in questa sede, è tornato (LUI è tornato…) alla ribalta nella recente tornata elettorale, raccogliendo un consenso ben lontano dai plebisciti di un tempo, ma comunque tanto patetico quanto sorprendente anche per chi, disgustato dagli effetti del morbo letale inseminato in quegli anni di fuffa e paillettes in 4:3 che indisturbato ha proseguito una venefica opera devastatrice di cervelli e coscienze, si attendeva l’attuale disastro finale. Ma con un tempismo per il cinema quasi sempre prevedibile, Berlusconi è tornato anche sul grande schermo con un film ‘monstre’ della durata di 4 ore scritto e diretto da chi aveva già serenamente affrontato – e splendidamente superato – la sfida di raccontare un altro (o forse è meglio dire L’altro) grande protagonista della storia italiana del dopoguerra, altrettanto determinante per il destino del Paese quanto il Cavaliere di Arcore: il Divo Giulio Andreotti. Proprio con quel film, esattamente 10 anni fa, lasciando che di diseredati e delinquenti si continuasse ad occupare il collega Matteo Garrone, Paolo Sorrentino impresse al suo cinema una virata di stile e contenuto inaugurando ufficialmente, con il culmine de La Grande Bellezza, un new age estetico che ha implacabilmente e finalmente archiviato il defunto, o quantomeno stantio e ormai sterile Postmoderno, upgradandolo in Postcontemporaneo.

Questa forse troppo lunga prolusione è tuttavia necessaria non solo per convincere della bontà e della qualità del cinema di Sorrentino da This must be the place in poi, che gli ha progressivamente alienato il gradimento dei cinefili duri e puri fino a il Divo suoi convinti e calorosi sostenitori, ma che gli ha procurato il consenso delle platee internazionali, un premio Oscar, e un potere ‘d’acquisto’ illimitato nel vivaio dei grandi attori del cinema mondiale, e nella scelta di storie e argomenti che altri registi potrebbero soltanto sognare a occhi aperti (si pensi a The Young Pope). Forte di questo potere planetario, Sorrentino ha trovato in esso la spinta indispensabile per poter osare l’inosabile, simile a quelle Star dell’arte contemporanea che si contano sulle dita di una mano sola, come Bill Viola, Maurizio Cattelan, Damien Hirst, Christo o Marina Abramovic, capaci di mobilitare masse considerevoli di pubblico e di denaro (e anche qui, come nel caso di certa critica cinematografica militante di cui sopra, molti critici d’arte storcono schizzinosamente il naso arroccandosi in un disprezzo che troppe volte sa di chiusura ideologica più che di sincero rifiuto critico) con gesti ed interventi artistici spettacolari, vistosi, eclatanti e la garanzia di una tanto ingente quanto meritata copertura mediatica. Il Postcontemporaneo è questo: trascendere il senso e il significato limitativo dell’opera d’arte come oggetto in sé, e comprendere nel suo valore anche la capacità di aver potuto ottenere i necessari permessi e arrivare a compiere qualcosa fino a poco prima considerato di impossibile realizzazione, creando intorno al processo di ideazione, creazione e gestazione dell’opera un’attesa e un’aspettativa che difficilmente andranno delusi. Discutibile? Certo che sì. Ma Postcontemporaneo vuol dire anche contemplare all’interno del senso stesso dell’operazione proprio il fatto che l’opera faccia discutere, che chiunque possa dimostrarne il valore assoluto così come la sua modestia o la sua inutilità. Come il Postmoderno compendiava, in nome dell’imminente Fine della Storia preconizzata da Fukuyama negli anni ’90, tutti gli stili del passato giustificandone la rivisitazione in chiave ottimistica ed esornativa per riempire il vuoto lasciato dall’assenza di un nuovo segno stilistico forte e definito in tutti gli ambiti della creatività così come era stato per i decenni (e prima ancora, dei secoli) precedenti, il Postcontemporaneo impone oggi ad ogni disciplina creativa di comprendere la crisi senza negarla, e fare della sua sterilità motivo di rilancio e rilettura, rimasticando e risputando, dunque senza mai digerirle, né mai vergognarsene, le proprie radici, perché, parafrasando una celebre sentenza de La Grande Bellezza, ‘le radici non sono importanti’, ed è con la loro malattia innata, con il loro fallimentare germoglio che dobbiamo fare i conti per trovare la chiave del Caos, dopo il saggio e consapevole addio definitivo ad ogni velleitaria ‘ricerca della felicità’.

Adottare Silvio Berlusconi, usandone a pretesto la vicenda umana e politica partendo dalla pausa tra i suoi (a tutt’oggi) penultimo e ultimo governo, come paradigma del nuovo manifesto cinematografico di una poetica così personale, stilisticamente così riconoscibile e così inimitabile, è la geniale idea di Paolo Sorrentino, autore del soggetto sceneggiato insieme al fedelissimo Umberto Contarello, alla base di LORO. Illustrare lo squallore, la vacuità, la meschinità, la volgarità di un’epopea che ha tragicamente coinvolto un intero Paese, culla di civiltà, bellezza e cultura cancellate, azzerate, ignorate, oscurate dal trionfo di una barbarie gaudente e corrotta penetrata in ogni strato di una società vittima di un genocidio che l’ha privata di tutti i propri riferimenti identitari… Illustrare tutto questo con un cinema che restituisca l’immaginario prodotto da questo mondo di mignotte, di papponi, di imbonitori, di potenti impotenti, di schiuma, di feccia, di immondizia nella “lucorosa” cornice di una Roma cupa come una fogna ma illuminata come il set di un malinconico film postfelliniano, di interni patrizi dove tra i broccati e le tele del ‘600 volano coca e mutandine, di cessi del Bagaglino, di piscine da spot immobiliare, di rave pagani coreografati come Baccanali per anziani guardoni; ecco, la postcontemporaneità di LORO sta esattamente in questo: intanto, di tutto quanto elencato qui sopra, essere una sorta di spelling grafico e plastico; poi, nel metterlo in scena senza denunciare o invitare ad indignarsi come si faceva nei film realizzati in epoche di ben altra coscienza civile, ma anzi mostrandolo, compiacendosi di vergognarsene. Lo stesso Toni Servillo sembra vergognarsi di indossare tutta quell’impalcatura di trucco che lo fa assomigliare più che al Cavaliere alla sua caricatura uscita dal pennino a China di un vignettista, o a un pupazzo del presepe napoletano a lui ispirato: la sua stessa vergogna ci rinfaccia la nostra di quando le cronache della televisione ci rinfacciavano, e ci rinfacciano ancora, l’immagine posticcia di un simile guitto avanspettacolare. Guai a confondere l’aria da baraccone fieristico che tira per tutta la prima parte (queste note si riferiscono alla visione di LORO 1, in attesa di vedere la parte 2 e poter giudicare il film nella sua interezza) con qualcos’altro, come per esempio un film ‘non riuscito’, ‘povero di idee e di immaginazione’, ‘poco grottesco’, ‘poco divertente’, o, peggio, ‘il solito Sorrentino, tutto figa e carrelli della mdp’. Guai. LORO, o almeno questa prima parte, ci restituisce la miseria di un personaggio (e del circo di altrettanti miserabili che gli ruotavano intorno) che ha incantato milioni di pecore con la sua tronfia insipienza, con lo squallore delle sue battute e delle sue barzellette, quelle sì ‘poco divertenti’: Silvio Berlusconi non è Shylock, non è Scrooge, non è l’Innominato: non ne avrà mai la statura (ecco, questa sì potrebbe avere l’abbozzata parvenza di una battuta divertente per davvero-…). Verso Berlusconi Sorrentino prova quel tipo di ‘simpatia’ che Lars von Trier, in una celebre e turbolenta conferenza stampa a un Festival di Cannes di qualche anno fa, confessò di provare per Adolf Hitler sul quale, disse, gli sarebbe piaciuto fare un film. Mai in nessun momento Sorrentino azzarda l’ipotesi di riscaldare con un po’ di ‘poesia’ il suo ciarlatano: la ricostruzione del suo personaggio protagonista è uno studio continuo e ininterrotto del ‘fenomeno’ Berlusconi, e mai, nel modo più assoluto, un ritratto che ostenti la presunzione di essere fedele, un’ode in sua lode, né un’invettiva; piuttosto, un insetto, un coleottero sotto l’osservazione di un entomologo che stia per infilzarlo con lo spillo.

C’è da chiedersi come un film così sottile e così ‘personale’ (ma non nel senso di Sorrentino e basta: ‘personale’ cioè di tutti noi italiani che abbiamo convissuto 40 anni con un simile gigione), verrà accolto dal pubblico di altre nazioni, dove Silvio è certamente conosciuto, ma dove probabilmente non si ha la corretta percezione dell’entità dei danni con cui ha affossato l’Italia. Intanto a Cannes LORO non è stato selezionato: quali che siano i motivi reali di una così vistosa esclusione, forte è il sospetto che gli stessi potentati di cui Berlusconi è un’emanazione abbiano preteso e ottenuto una risoluzione così punitiva, nel momento in cui in Italia l’esito delle elezioni lo contempla ancora come possibile voce in capitolo nella formazione di un nuovo governo. E interessante sarà registrare con quali forze ancora a sua disposizione riuscirà ad ostacolare, boicottare o danneggiare il film. Finché non la si estirpa del tutto, un’erba cattiva non cessa di propagare i suoi veleni ed infettare il teatro delle idee.

 

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