Racconti di Cinema: Distretto 13 – Le brigate della morte di John Carpenter

Distretto 13

E Carpenter firma quello che, dopo tanti ripensamenti e revisioni da parte della Critica, è oramai accertato che sia il suo primo, vero capolavoro, ovvero Distretto 13 – Le brigate della morte. Un film di una potenza visionaria e di una compattezza granitica da stremare e lasciarci storditi per l’eleganza con la quale è stato claustrofobicamente girato, ancora una volta un kammerspiel sui generis, come saranno poi anche La cosa o Il signore del male, ma perfino lo stesso Halloween. E irrompe il tema e lo stilema pressoché uniforme di molta della poetica carpenteriana.

L’asserragliamento di alcune persone, diverse fra loro per gusti, estrazione sociale e carattere, che giocoforza saranno costrette ad affiancarsi nella lotta per la vita, ad affiatarsi e a scendere amicalmente a patti per sventare, sventrare e combattere la minaccia mortale che incombe, oscura e profeticamente tagliente come una lama sottilissima di rasoio, come l’accecante, allucinante tensione che si respira in questo capodopera inconfutabile dalla secca, abrasiva durata di 1h e 31 min., morbidamente calibrati nella suspense lugubre di un eccitante cardiopalma visivo-emozionale.

Carpenter attinge a uno dei suoi must, un film che deve aver amato alla follia, Un dollaro d’onore (Rio Bravo) di Howard Hawks, ma più che eseguirne un rifacimento, lo parafrasa e lo trasla in un’ambientazione decadentistica ai confini di una cittadina, Anderson in California, tetramente aggomitolata in una cappa soffocante dalla glaciale atemporalità.

Sì, il film è del 1976 e la vicenda si svolge in quell’anno, ma pare di assistere a un’avventura fuori dallo spazio-tempo, in una zona sospesa nel rabbrividente buio dell’impalpabile asincronia trascendente.

Sei uomini di una gang, in un ghetto losangelino, vengono trucidati dalla polizia e i voodoo, i sicari di una brigata armata e folle, giurano vendetta agli sbirri. Come dei kamikaze senza paura di morire, accecati dalla bramosia vendicativa a zenit della loro pazza visione del mondo, si scaglieranno contro le forze dell’ordine, costi quel che costi. In una missione suicida e catartica. Spericolata da puri guerriglieri metropolitani, ancor prima dei warriors di Walter Hill. In una notte interminabile, livida e spettrale ove rifulgeranno messianici d’ira implacabile, a incarnazione quasi incorporea del loro odio inesorabilmente livoroso nei confronti del bieco, pusillanime ordine costituito, esaltati dalla lor cieca furia maestosa, divini fantasmi senza volto di un assedio imperituro, dopo aver depositato il loro straccio insanguinato, in segno di plateale e incontrovertibile sfida alla polizia, dinanzi all’entrata del tredicesimo distretto del posto.

In questo distretto, c’è un nero appena nominato Tenente, Ethan Bishop (Austin Stoker), incaricato quella notte di prendere il comando della stazione di polizia, prima che venga spostata in una zona meno isolata. Qui, al tredicesimo distretto, sosta un pullman diretto a Sonora, che sta deportando tre pericolosi criminali in una prigione di massima sicurezza. E il poliziotto che li scorta è obbligato a chiedere asilo, per quella notte, a Bishop, perché uno dei prigionieri versa in precarissime condizioni di salute e la polmonite, di cui è affetto, sta rischiando di ammazzarlo. E lui non può permettere che un detenuto, in sua custodia, muoia senza che possa ricevere assistenza medica, almeno fin quando sarà sotto la sua supervisione.

Fra i tre prigionieri, spicca Napoleone Wilson (Darwin Joston), un uomo condannato alla pena capitale.

Potrei stare a raccontarvi altro, del padre sotto shock, a cui hanno appena ucciso la sua bambina, in una scena che all’epoca fece molto scalpore per la sua crudezza e non fu censurata per miracolo, che stremato approda al distretto e chiede protezione, per sfuggire agli assassini di sua figlia che lo stanno inseguendo… e dirvi che Napoleone dimostrerà a tutti di essere un cattivo più buono dei buoni che tanto buoni non sono affatto, o perlomeno potrei pedantemente, didascalicamente sottolinearvi come la labilissima linea di demarcazione fra straight men e criminals diventi qui inesistente e indistinguibile, perché i buoni sono molto più furbescamente, cruentemente sanguinari dei cattivi, più di quanto il loro onesto mestiere incorruttibile lasci presagire e supporre. Ma non mi va di peccare di pleonastica, descrittiva, minuziosa pignoleria esegetica. È nelle virili, spassosissime schermaglie, nei siparietti dialogistici fra il tenente e Napoleone, fra Leigh (Laurie Zimmer) e Napoleone stesso, che il film gioca tutte le sue carte migliori. Perché, in una tale situazione di pericolo estremo, ove il distretto è stato preso infinitamente di mira dai brigatisti psicopatici, bisogna sopravvivere e abbandonare ogni vera, artefatta o falsa maschera che la società ci ha frettolosamente appioppato ed è necessario entrar in combutta l’uno con l’altro, azzerando le differenze etico-comportamentali che ci hanno, almeno esteriormente, reso quel che, erroneamente, superficialmente siamo agli occhi degli altri, per rimanere a far parte di questo sporco, ingiusto, cannibalesco mondo.

Carpenter è autore anche del montaggio, nascondendosi dietro lo pseudonimo di John T. Chance, ovvero il nome del personaggio di John Wayne in Un dollaro d’onore, e firma la celebre track sonora, diventata un classico intramontabile. In più, si concede un fugacissimo cammeo nella parte di uno degli assalitori del distretto a cui sparano mentre cerca di entrare da una finestra.

Anni fa, non so perché, accostavo questo film a Fog. E devo dire che, nelle mie strambe emozionalità adolescenziali, la mia mente non mi aveva affatto giocato brutti scherzi. E il parallelismo era ed è quanto mai calzante. Perché Distretto 13 è in fondo una storia di ectoplasmi e nosferatu, di zombi alla Romero, di morti giammai davvero morti che pare risuscitino e si rigenerino, spiriti imprendibili che danzano nella penombra della luna, quando la città è avvolta dalla notte più profonda e misterica.

Un impareggiabile capolavoro imitato e stra-copiato, che ha avuto un remake per la regia di Jean-François Richet, e in qualche maniera è stato futuristicamente rifatto dallo stesso Carpenter nel “newquel” Fantasmi da Marte.

Un film che alcuni considerano un caposaldo perfino di quel tipo di pellicole ad alto tasso scioccante e terrorizzante appartenenti al sottogenere Shoxploitation.

E che, invero, è talmente grande e stratificato che non puoi collocare in nessuna classificazione generica. È un metropolitano western, un thriller, un film fantascientifico. E quant’altro.

Forse solo immane Cinema altro.

 

 

di Stefano Falotico

 

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