Il metodo Kominsky, recensione

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Ebbene, Il metodo Kominsky, la nuova, sorprendente serie Netflix della durata di otto episodi di circa trenta minuti l’uno, partorita dalla geniale mente di Chuck Lorre.

Con i due arzilli vecchietti premi Oscar Michael Douglas e Alan Arkin, qui in grandissimo spolvero attoriale.

Sandy Kominsky (Douglas) è un attempato ma brillante insegnante di recitazione ed è amico per la pelle, oramai da una vita, di Norman (Arkin), che ha appena perduto sua moglie dopo una lunga malattia.

Kominsky viene presto a conoscenza dell’affascinante, matura Lisa (Nancy Travis), una delle sue più fervide e convinte allieve, una con le palle, come si suol dire. Una donna diversa dalle altre, la donna che, dopo tre matrimoni fallimentari, potrebbe nuovamente far innamorare Kominsky, deluso, acciaccato, reduce da troppi superficiali flirt degli ultimi tempi con ragazze troppo giovani per lui.

E, fra una schermaglia, una ripicca, una battuta corrosiva e l’altra, fra caustiche riflessioni sull’inesorabile tempo che avanza, Kominsky e Norman continuano dolcemente a condividere le loro giornate, reggendosi il gioco a vicenda in quest’amabile nostra vita da palcoscenico, grazie alla verve graffiante della loro arrugginita eppur giammai doma, innata grinta che li contraddistingue.

Una serie televisiva incantevole, sostenuta da due attori in stato di grazia, ribadiamolo. Con un Douglas rugosissimo, oramai una maschera grinzosa e macilenta che dimostra ancora una volta però di essere un pezzo da novanta. Armonico, triste, inconsolabile, disgraziatamente buffo, elegantissimo e, nonostante tutto, affascinante come sempre, carismatico e dallo charme incontrastabile e pimpante da performer dall’enorme personalità. Sua indubbia, chiarissima caratteristica insindacabile. Un pregiato attore, un prosciugato ex sex symbol che sa ridere con molta autoironia sui suoi senili rincoglionimenti e ancora, alla faccia del tempo che passa, del cancro che lo martoriò qualche anno fa, brilla nell’inevitabile sopraggiungere malinconico, nel suo sguardo maggiormente vitreo e cristallizzato in una smorfia autocompiacente, di una lodabile, quasi commovente essenza vitale trasfusagli dall’alto dei suoi signorili settantaquattro anni imbattibili.

E un Arkin ovviamente padrone delle freddure più paradossali, scatologiche, trivialmente conviviali, da amicone buffone, un po’ cafone e un po’ volpone, un jolly che scherza cinicamente su tutto senza mai essere però volgare, e sbeffeggia, esorcizzandola, la paura tristissima e galoppante della morte (grandiosa la scena del funerale del secondo episodio).

Non batte ciglio anche nelle situazioni più imbarazzanti e tragicomiche, come si suol dire.

Un’accoppiata affiatatissima, davvero vincente.

E così, nella loro sintetica stringatezza, nella loro velocissima brevità, gli episodi scorrono via ch’è una bellezza, nell’alternarsi di registi specializzati in commedie, come Andy Tennant (Il cacciatore di Ex) e Donald Petrie (Due irresistibili brontoloni).

Una sitcom di gran gusto, lievissima, da rivedere ancora.

E il finale ci fa capire che probabilmente avremo presto una seconda stagione.

di Stefano Falotico

 

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