La ballata di Buster Scruggs, recensione

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Ebbene, son tornati, targati Netflix, i terribili fratelli Coen. Ora, chiariamoci. Spesso fate confusione, eh eh. Joel è quello spilungone, lungagnone, sposato a Frances McDormand, Ethan è quello più bassino e dalla faccia meno arcigna.

Forse lo sapete benissimo ma è giusto sempre chiarirlo. Perché, quando nel Cinema, parliamo di fratelli, si tende a credere che essi siano due gemelli, semmai siamesi o eterozigoti. Invece, i Coen sono semplicemente due fratelli di sangue. Dall’anagrafe ben distinta.

Joel è quello maggiore, Ethan quello minore ma, pariteticamente, lavorano assieme perché, come capitato a chiunque, un bel giorno, chissà quanto oramai lontano, avranno cominciato a riflettere sul lavoro che avrebbero svolto “da grandi”, e decisero di affiliarsi, eh sì, affratellarsi anche professionalmente per dar vita a un duo epocale e fantasmagorico.

Spartendosi i meriti in maniera assolutamente, appunto, fraterna. Tant’è che, guardando i loro film, sempre da loro stessi sceneggiati, per noi spettatori è impossibile capire chi sia stato l’inventore di una tal idea, di una determinata ispirazione, o intuire se entrambi, in modo assolutamente, magicamente dicotomico, siano stati reciprocamente responsabili delle loro rocambolesche, assurde genialità.

Detto ciò, passiamo alla Ballata di Buster Sruggs. Progetto che inizialmente doveva essere suddiviso in una serie a episodi, in puro stile Netflix, e invece, già prima di venir presentato in Concorso all’ultimo Festival di Venezia, ha assunto, come sappiamo, la compatta, antologica consistenza cinematograficamente fisiognomica di una pellicola della durata di due ore e tredici minuti. Dall’idea originaria, cioè, di farne una serie episodica, si è passati a un film vero e proprio a episodi. Come andava di moda una volta, ad esempio, nella commedia all’italiana.

 Dunque, dopo Il grinta e anche Non è un paese per vecchi, i Coen tornano al western atipico. Sì, Non è un paese per vecchi è in verità un western camuffato da thriller on the road.

E, ancora una volta, i Coen si approcciano a questo genere, spruzzandoci sopra il loro macabro umorismo ebraico, yiddish, ammantando di sottile metafisica le storielle di cui si compone questa lor affascinante ma a mio avviso irrisolta e blanda antologia.

Il western lo puoi trattare in modi disparati. Ovviamente, vi è il western di John Ford ove, nelle sconfinate praterie e alle pendici della Monument Valley, il fiero, corpulento John Wayne combatteva gl’indiani, il western cioè classico e senza fronzoli, asciutto e magniloquente, americanissimo, ma abbiamo avuto anche il western revisionista e, oserei dire, neorealista di Kevin Costner, retorico a dismisura ma poeticamente ipnotico, il western crepuscolare, noir di Clint Eastwood, a sua volta debitore di quello spaghetti del mai dimenticato nostro Sergio Leone. A sua volta progenitore di tanti suoi derivativi epigoni e affini, ottimamente rifatto o scialbamente parodiato.

I Coen qui attingono a ogni mio menzionato, precedente illustre, mixando il tutto attraverso la loro comunque personalissima poetica, strizzando non di rado l’occhio proprio alla comicità latina “all’amatriciana”, guascona e ruspante di Leone. Addirittura ammiccando alla smargiasseria caciarona de Lo chiamavano Trinità perché soprattutto il picchiatello Buster Scruggs (Tim Blake Nelson) del primo episodio, che dà il titolo al film, ricorda parecchio quel malandrino, irresistibile figlio di puttana Terence Hill, un pagliaccio carismatico, arlecchinesco, sbruffone e irrimediabilmente anche un po’ simpaticamente coglione. E tal succitato episodio ha molto della manesca follia fanfarona e irriverente di Enzo Barboni, artisticamente noto come E.B. Clucher. Se non fosse che Scruggs si rivolge spesso alla camera come il mattoide Larry David dell’alleniano Basta che funzioni. Sì, in questa ballata vi è anche assai di Woody Allen. D’altronde, Allen è di origine ebrea come i Coen e inevitabilmente i Coen, buon sangue non mente, volontariamente o non, era ovvio che avessero appreso da Woody, riciclando alcune sue gag. Questo l’avremmo dovuto capire già con Barton Fink e dovevamo comprenderlo appieno con A Serious Man.

Eppure, nonostante gli ammiccamenti cinefili, la splendida composizione grafica delle sue studiate e pittoriche inquadrature, nonostante la viva policromia della fotografia di Bruno Delbonnel, per la prima volta qui cinematographer per i Coen a rimpiazzare l’indisponibile lor fido Roger Deakins, nonostante appunto la visionaria ascendenza fiabesca di Delbonnel stesso, autore peraltro delle luci e dei colori, manco a dirlo, de Il favoloso mondo di Amélie e degli ultimi film di Tim Burton, secondo me La ballata di Buster Scruggs segna un piccolo passo falso nella filmografia dei nostri fratelloni, in precedenza tanto infallibili.

Perché, sì, è visivamente molto seducente, ammalia, diverte, intrattiene, è delizioso e sapidamente squinternato ma sostanzialmente non emoziona e mi è apparso soltanto come un magistrale giochino velleitario e sciocchino di due registi un po’ oramai con la panza piena. Un pastiche alla fin fine indigesto tanto da irritarmi e lasciarmi profondamente inappagato.

Sì, dai Coen mi aspetto sempre qualcosa di eccezionale. E non posso accontentarmi dunque di un cinematografico gourmet tanto buono da gustare, sfiziosamente curato e friabile, godibilissimo quanto poco visceralmente appetitoso, in fondo impalpabile e stupidamente, molto buffamente carino.

L’aggettivo carino, affibbiato ai Coen, è offensivo.

I Coen nella loro carriera hanno vinto tutto.

Ma il Premio alla Migliore Sceneggiatura, assegnatoli alla 75.a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, è stato stavolta immeritato.

Comunque, ne La ballata di Buster Scruggs, i grandi momenti di Cinema non mancano. Su tutti la scena del gaglioffo rapinatore interpretato da James Franco che assiste, col cappio al collo, all’assalto di una tribù Comanche, non viene liberato dai pellerossa ma rischia di rimanere strozzato perché il suo cavallo mangia lentamente l’erbetta e, a piccoli passettini, procedendo in avanti, lo sta facendo scivolare dalla sella.

Sì, probabilmente è proprio il brevissimo episodio con Franco, il più corto di tutti, quello più esilarante e cinicamente strepitoso.

Gli altri, onestamente, al di là del loro già evidenziato, pregiato valore stilistico, sanno purtroppo di minestra riscaldata, civettuola e scemotta.

Forse l’intento dei Coen era proprio quello di realizzare un semplice, sperimentale, leggerissimo divertissement cinefilo e colto, ma personalmente li preferisco quando al sapore della leggerezza sanno unire la loro visione corrosiva e poeticamente crudele.

Insomma, li adoro quando sono, sì, svagati e favolistici, ma anche davvero graffianti e incisivi.

E La ballata di Buster Scruggs, ça va sans dire, non ha niente di realmente memorabile. A parte qualche svolazzo lirico e malinconico, come nel segmento Meal Ticket con Liam Neeson e Harry Melling.

Peccato. Se solo avessero azzardato di più… Invece che restare in superficie.

 

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Liam Neeson is Impresario in The Ballad of Buster Scruggs, a film by Joel and Ethan Coen.

Liam Neeson is Impresario in The Ballad of Buster Scruggs, a film by Joel and Ethan Coen.

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di Stefano Falotico

 

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