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BUSSANO ALLA PORTA (Knock at the Cabin), recensione

Ebbene, essendo in tal sede, stavolta, sganciato da vincoli editoriali, posso scrivere di questo film in totale libertà senz’attenermi dunque a esigenze standard in chiave SEO. Anche se debbo confessarvi la verità, cari invidiosi e maligni, solitamente mi attengo sol a me stesso, recensendo secondo il mio unico stile peculiare. Apprezzato o ingiuriato, ridondante e/o eccessivo, odiato che sia, mal oliato, illeggibile o piacevole da leggere, non è la mia una scrittura leggera. Ah ah.

Andiamo avanti!Knock at the Cabin poster

Finalmente, a scoppio ritardato, come si suol dire, essendo io peraltro un conclamato ritardat(ari)o, appunto, no, scusate, forse semplicemente uno poco inizialmente interessato a tal film di M. Night Shyamalan, vidi tale suo nuovo opus. Da molti osannato, incensato, glorificato, forse sopravvalutato e fin troppo ingiustificatamente magnificato. Eh già, oltremodo. Poiché, a conti fatti, mi ha deluso, perlomeno parzialmente. Sì, è “carino”, si lascia vedere volentieri ma sostanzialmente non è un granché, eh eh. Shyamalan ha fatto decisamente (di) meglio anche se, in buona fede, credo nell’Altissimo? No, penso fermamente che non realizzerà mai un capolavoro in quanto, pur riconoscendogli di essere resuscitato da cineasta redivivo dopo essersi, professionalmente, seppellito vivo, in seguito ad alcuni suoi kolossal mal riusciti e conseguenti sonori flop colossali, sono convinto che il suo Cinema non ascenderà mai in paradiso e non andrà al di là… d’una certa mediocrità. Perdonatemi affinché possa io ricevere la salvazione eterna, no, padrone dell’universo, Padreterno, no, pardon, mi spiego meglio affinché possiate concedermi una cristiana, miei poveri cristi, assoluzione, voi, fedelissimi, sì, aficionados inossidabili del regista di E venne il giorno per cui reputate Shyamalan un dio.

Ora, a parte gli scherzi (da prete?), tal Knock at the Cabin (questo il suo titolo originale), sceneggiato, come consuetudine, dallo stesso Shyamalan, stavolta assieme a Steve Desmond & Michael Sherman, è il libero adattamento del romanzo di Paul G. Tremblay, intitolato The Cabin at the End of the World e da noi edito col “title”, eh eh, La casa alla fine del mondo.

Per quanto concerne la trama cinematografica, beccatevi questo link da Wikipedia e, dato, ripeto, che ivi non debbo usare parole mie, leggetevela, se volete, in tutta la sua interezza. Se incorrerete in qualche spoiler, altresì sappiate che possedete il libero arbitrio. Dunque, non accusatemi di essere Satana se ciò qui vi dico… il personaggio di Jonathan Groff, alla fine, si suicida:

https://it.wikipedia.org/wiki/Bussano_alla_porta

D’altronde, Keyser Söze, alias Kevin Spacey de I soliti sospetti, è il diavolo e io non sono un santo, ah ah.

Mentre Shyamalan la dovrebbe finire di realizzare film col climaxtwist finale da paraculo che, spacciandosi per geniale, sceglie, così facendo, paradossalmente le strade più scontate e (b)anali.

Dave Bautista sorprende ma so da tempo immemorabile che era bravo. A differenza di voi, miscredenti e come San Tommaso. Groff è altrettanto ottimo e, parimenti a quanto appena sopra dettovi, anche questo sapevo dopo averlo visto in Mindhunter. Stesso discorso dicasi per Eric Bana. Ah no, perdonatemi ancora. Volevo dire e scrivere Ben Aldridge, cioè il fratello zotico, no, Falotico, no, monozigotico, omozigoto, di Ettore in Troy. Non capisco però perché Bana e Aldridge non portino lo stesso cognome. Ah, ora capisco. Il primo, cioè Eric, è muscoloso come Brad Pitt/Achilles (latinizzato e in english) mentre il secondo ha, come “figo”, no, figurativamente parlando, più talloni di Achille. Essendo fisicamente un po’ meno dotato. Comunque, la formula di Shyamalan è sempre la stessa e la CGI degli aerei che si schiantano al suolo, purtroppo, pessima. Ma sorvoliamo…

La migliore del cast è la bimba Kristen Cui. Nikki Amuka-Bird assomiglia alla pallavolista, dapprima ritiratasi e ora ritornata anche in Nazionale, Paola Egonu, mentre Rupert Grint è antipatico e non ha molta recitativa grinta.

(from left) Andrew (Ben Aldridge), Wen (Kristen Cui), Eric (Jonathan Groff) and Leonard (Dave Bautista) in Knock at the Cabin, directed by M. Night Shyamalan.

(from left) Andrew (Ben Aldridge), Wen (Kristen Cui), Eric (Jonathan Groff) and Leonard (Dave Bautista) in Knock at the Cabin, directed by M. Night Shyamalan.

di Stefano Falotico

 

LA PROMESSA (The Pledge), recensione

Ebbene, oggi disamineremo il bellissimo ed inquietante La promessa (The Pledge).La promessa posterThe Pledge Nicholson Nicholson La promessa

La promessa, pellicola del 2001, della consistente ma avvincente durata di due ore e quattro minuti netti, opus n. 3 (perlomeno in termini prettamente inerenti un lungometraggio per il grande schermo) di Sean Penn regista (Una vita in fuga), dopo il magnifico Lupo solitario e l’altrettanto notevole, sebbene assai sottovalutato ai tempi della sua uscita, Tre giorni per la verità. Tale film da noi preso in questione, liberamente adattato da Jerzy & Mary Olson-Kromolowski a partire dal celeberrimo romanzo omonimo di Friedrich Dürrenmatt, vede come protagonista principale uno strepitoso Jack Nicholson, qui alla sua seconda prova attoriale, dopo il succitato e appena sopra menzionatovi film, per la direzione del suo amico Penn. La promessa rimane, a tutt’oggi, a nostro avviso, la migliore opera in assoluto nel cineastico carnet filmografico del discontinuo e altalenante, eppur sempre interessante, Penn in veste di regista. Non siamo, peraltro, i soli a reputarlo il film più riuscito di Penn director. Infatti, è pressoché parere unanime, avvalorato inoltre dall’ottima media lusinghiera attestata dal sito aggregatore di opinioni recensorie, metacritic.com, equivalente al più che soddisfacente 71% di pareri positivi, a pensarla in questo modo.

Trama, brevemente enunciatavi per non sciuparvi le sorprese se siete fra coloro che non hanno mai visto questo film:

Il coriaceo e arrugginito, invecchiato e stanco, eppur al contempo ancora lucido e molto intuitivo poliziotto Jack Black (Nicholson), in quel delle aspre e brulle montagne nevose del Nevada, sta indagando in merito a un misterioso, brutale assassino di una bambina. Dapprima, la polizia del luogo sospetta di Toby Jay Wadenah (Benicio Del Toro), pellerossa menomato che, colto dal panico, accerchiato psicologicamente dai duri e inquisitivi interrogatori impietosi degli sbirri, finisce con l’autoaccusarsi, poi tragicamente suicidandosi. Jack fu l’unico dei poliziotti a pensare, fin dapprincipio, che Toby non fosse il responsabile del barbaro massacro compiuto ai danni della povera infante. Ma non fu ascoltato dai suoi colleghi, innanzitutto dal suo capo. Convinto che l’omicida vero, probabilmente seriale, sia ancora a piede libero, sicuro che il mostro colpirà ancora terribilmente, forse immantinente, se ne mette sulle tracce. Girovagando col suo fuoristrada e giungendo a un’amena località ove conosce la barista Lori (Robin Wright, all’epoca moglie di Penn), avvenente e matura, sebbene molto più giovane di lui e con una figlia pressoché della stessa età della bimba uccisa sopra dettavi. Jack e Lori s’innamorano l’uno dell’altro. Jack, ripetiamo, fidandosi del suo fiuto, a suo avviso infallibile, agendo cocciutamente di testa propria, forse userà però la figlia di Lori a mo’ di esca per acchiappare il serial killer che, secondo lui, indisturbato e impunito, s’aggira da quelle parti. Come andrà a finire, in maniera terribile e scioccante? Il killer sarà catturato oppure accadrà qualcosa d’agghiacciante e nefasto? Qualcosa andrà storto e qualcuno andrà incontro, irreversibilmente, al più totale impazzimento devastante per colpa d’una mossa tanto rischiosa e coraggiosa quanto letale?

Teso, perturbante, un indimenticabile pugno allo stomaco, raschiante, metaforicamente, le nostre viscere emotive più profonde in maniera lancinante e struggente, La promessa è feroce e stupendo, la sua macabra e allo stesso tempo romantica vicenda cupa ci appassiona e tiene col fiato sospeso dal primo all’ultimissimo minuto, immergendoci fra le nere spirali d’una detection abissale, specialmente sul versante puramente angosciante. Penn dirige con rara sobrietà, perdendosi soltanto, qua e là, in svolazzi registici troppo melodrammatici e caricati d’eccessiva enfasi non sempre ben bilanciata.

Cast straordinario ove, se il titano Nicholson giganteggia da par suo, non da meno gli sono gli altri numerosi interpreti che vanno da Patricia Clarkson ad Aaron Eckhart e Tom Noonan, da Helen Mirren a Dale Dickey (Wash Me in the River), dal memorabile e commovente cammeo di Mickey Rourke a Sam Shepard, dal compianto Harry Dean Stanton a Vanessa Redgrave.

Fotografia impeccabile di Chris Menges e belle musiche di Klaus Badelt & Hans Zimmer.

THE PLEDGE, Benicio Del Toro, 2001. ©Warner Brothers

THE PLEDGE, Benicio Del Toro, 2001. ©Warner Brothers

Rourke The Pledge NicholsonThePledge Robin Wright The Pledge

di Stefano Falotico

 

IL MOMENTO DI UCCIDERE (A Time to Kill), recensione

Original Cinema Quad Poster - Movie Film Posters

Original Cinema Quad Poster – Movie Film Posters

Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, salteremo indietro nel tempo, giungendo ai nineties, cioè a metà anni novanta, recensendo Il momento di uccidere (A Time to Kill), opus firmato dal compianto Joel Schumacher (Ragazzi perduti, 8MM).Ashley Judd Time to Kill l jackson mcconaughey

Film del ’96 della corposa, forse prolissa ed eccessiva, durata di due ore e ventisei minuti precisi, Il momento di uccidere fu sceneggiato dal premio Oscar Akiva Goldsman (A Beautiful Mind), già in precedenza collaboratore e screenwriter per Schumacher. Che, sommariamente e con non poche licenze, adattò per il grande schermo un famoso e apprezzato libro del maestro per antonomasia dei legal thriller, ovvero John Grisham. Che, con la sua omonima novella, peraltro, esordì in campo letterario.

Schumacher, dopo Il cliente, anche quest’ultimo tratto da un libro del celeberrimo e appena succitato esperto di aule di tribunale in ambito soprattutto “editoriale”, già numerosissime volte trasposto per svariate e altrettanto celebri riduzioni cinematografiche (L’uomo della pioggia, Il socio, La giuria), dunque si cimentò nuovamente con una contorta e leguleia vicenda processuale ad alto tasso adrenalinico, ripiena di spiazzanti ed emozionanti colpi di scena inaspettati, vividamente intrisa di forte pathos e suspense in abbondanza, perfino ricolma d’estenuante retorica esagerata e di pesante didascalismo manicheo ai limiti del presentabile, così come, d’altronde e pertinentemente, enunceremo e più avanti spiegheremo, fornendovene maggiori e più certosini dettagli recensori ed esegetici delineativi, speriamo, con meticolosità inappuntabile. Detto ciò, altresì premettiamo che Il momento di uccidere, sebbene all’epoca fu perlopiù ampiamente stroncato da molta intellighenzia critica, soprattutto nostrana, non è disprezzabile come i più dissero e, pur di certo non brillando in originalità e gravemente difettando sotto molti aspetti, specialmente per quanto concerne la sua scrittura, sovente prevedibile e schematica, rivisto oggi, con più oculatezza e misuratezza, possiede parimenti molti momenti apprezzabili e decisamente degni di nota.

Trascrivendovi, sottostante, la sinossi da IMDb, in tal caso corretta e non necessitante d’ulteriori spiegazioni superflue, eccovene giustappunto la sintetizzata e riportata trama:

A Canton, un impavido giovane avvocato e il suo assistente difendono un uomo di colore accusato di aver ucciso due uomini bianchi che hanno stuprato sua figlia di dieci anni, incitando alla violenza e alla rivincita del Ku Klux Klan.

L’uomo nero si chiama Carl Lee Hailey e, a prescindere dall’opinabile valore qualitativo di tal pellicola ivi disaminata, è interpretato con indubbia bravura dal solito eccellente Samuel L. Jackson che, per questa sua accalorata interpretazione assai sentita, fu giustamente candidato ai Golden Globes come miglior attore non protagonista, mentre il suo avvocato difensore, giovane, ambizioso e coriaceo, volitivo, spregiudicato e inarrendevole, è incarnato con altrettanta vigoria recitativa da un ottimo Matthew McConaughey. Il quale, sebbene a volte incerto, ancora un po’ acerbo, dunque qua e là imbambolato e leggermente spaesato, impacciato all’inizio, impomatato e incravattato, spesso esibente compiaciute pose da piacione, impeccabilmente fotogenico, sfodera al contempo una sorprendente grinta, in molti frangenti, appassionata e trascinante.

Non da meno, rispetto ai due citati interpreti principali, è il ricchissimo parterre attoriale perfettamente diretto e orchestrato da Schumacher, fra cui spicca, come consuetudine, un viscido Kevin Spacey, la bella Sandra Bullock nei panni della studentessa che aiuta il character di McConaughey nelle indagini, l’apparizione folgorante di Ashley Judd, Octavia Spencer, Oliver Platt (antica conoscenza di Schumacher dai tempi di Linea mortale), Charles S. Dutton, Brenda Fricker, Patrick McGoohan, Chris Cooper, e la ben assortita accoppiata padre e figlio, costituita da Donald e Kiefer Sutherland (habitué ed ex carissimo amico e attore tra i preferiti di Schumacher), stavolta schierata su fronti opposti.

Confezione, come si suol dire, di lusso e perfetta sul piano formale, con egregia fotografia di Peter Menzies Jr., musiche, un po’ pompose, di Elliot Goldenthal per un film accusato, come spesso avvenne per le pellicole schumacheriane, di giustizialismo dei più ipocritamente ambigui e malsanamente reazionari.kiefersutherlandtimetokillTime to Kill Donad Sutherland McConaughey

A ben vedere, però, trascurandone l’impianto, in effetti e come già dettovi, insopportabilmente retorico in troppi passaggi, compreso il climax finale che ovviamente non vi sveleremo se siete fra coloro che non hanno ancora mai visto questo film, Il momento di uccidere, pur ascrivendosi fra le pellicole hollywoodiane dal canovaccio abbastanza scontato, pur essendo costruito secondo il classico stilema “mainstream” dei più abusati e convenzionali (gli statunitensi definiscono film così con l’espressione formulaic), malgrado molte battute e botte e risposte telefonate, avvince ed emoziona, tenendoci col fiato sospeso dal primo all’ultimissimo minuto.

Merito d’una regia estremamente professionale e accorta che, pur non essendo trascendentale e, ripetiamo, non mostrandoci nulla di particolarmente originale e/o innovativo, con apprezzabile mestiere consolidato sa reggere il ritmo narrativo con cineastica esperienza, se non impari, perlomeno non trascurabile.

Allorché, Paolo Mereghetti, nel suo Dizionario dei film, definì banalmente Il momento di uccidere un mega-polpettone amatoriale forcaiolo, superficialmente snobbando la prova di McConaughey, descrivendola in questi sbrigativi termini poco lusinghieri, ovvero un protagonista preoccupato solamente di assomigliare ora a Paul Newman ora a Marlon Brando, per cui lo liquidò e classificò come attore mediocre, Mereghetti fu precipitoso oltremodo e in maniera poco avveduta. Infatti, il tempo, tanto inesorabilmente impietoso quanto meno affrettatamente sentenzioso di Mereghetti e più equo, fortunatamente generoso e rivelatorio, come sappiamo, decretò l’oramai inappellabile verdetto finale secondo cui, il bistrattato e per troppo tempo ingiustamente sottovalutato McConaughey, dopo le sue strepitose performance superlative, specialmente in Dallas Buyers Club & True Detective, non doveva e non può mai più essere preso sotto gamba in maniera così ingrata e stoltamente disarmante.

Infine, per concludere, aggiungiamo la seguente curiosità, crediamo, molto interessante: l’attore Anthony Heald, dopo essere stato lo psichiatra Dr. Frederick Chilton ne Il silenzio degli innocenti, qui interpreta un similare ruolo pressoché uguale, cioè il direttore psichiatrico di un manicomio chiamato a testimoniare alla sbarra in merito a una presunta e forse erronea, mal diagnosticata infermità mentale…Samuel L Jackson TimeKill A Time to KillMcConaughey Bullock

di Stefano Falotico

 

VOGLIA di VINCERE (Teen Wolf), recensione

Ebbene oggi, per il nostro consueto, ci auguriamo vivamente apprezzato appuntamento coi Racconti di Cinema, brevemente disamineremo un film ai più misconosciuto, soprattutto alle nuove generazioni, ovvero Voglia di vincere (Teen Wolf), teen movie, cioè una commedia adatta specialmente a un pubblico adolescenziale.Teen Wolf J Fox

Pellicola dell’85, diretta da Rod Daniel, dalla forte matrice peculiarmente horror e citazionistica, mescolamento farsesco e commistione di generi dei più svariati.

A tratti, perfino un’arguta, sebbene innocua e futile, sapida, brillante miscela di racconto di formazione e fantastico all’insegna della giovanile ribellione sui generis per fuggire dalla forca caudina e dalle tristi tenaglie tediose, schiavizzanti del mondo adulto, sovente opprimente e soffocante i più vividi aneliti libertari.

Ne è interprete principale un quasi irriconoscibile Michael J. Fox che girò tale Voglia di vincere poco prima di essere impegnato sul set del film che gli avrebbe dato l’eterna notorietà mondiale, ovvero Ritorno al futuro.

Voglia di vincere, della veloce e spassosa durata di novantuno minuti netti, sceneggiato dal duo formato da Joseph Loeb III & Matthew Weisman.

Eccone sinteticamente la trama, da noi enunciatavi nei suoi tratti più salienti ed emblematici:

Il collegiale e mingherlino Marty Howard (J. Fox), spesso bullizzato dai suoi compagni di liceo per via della sua timidezza patologica, della sua imbranataggine e della sua gracilità fisica quasi debilitante, durante una sera di plenilunio, si trasforma spaventosamente in un licantropo. Già qualche giorno prima di tal avvenuta sua agghiacciante e incredibile metamorfosi scioccante, cominciò a maturare contezza d’inquietanti avvisaglie, poiché il suo corpo diede inspiegabili segnali di ciò che, come sopra dettovi, in esso avvenne poi in tutta la sua mostruosa interezza più elettrizzante…

Al che, dapprima terrificato, tenta in ogni modo di celare questo suo intimo e inconfessabile, macabro e orrifico segreto allucinante. Quindi, inesorabilmente viene scoperto dal padre di nome Harold (James Hampton). Il quale, con sommo stupore di Marty, confidenzialmente lo approccia, confidandogli che anche lui è affetto dall’inestirpabile, forse però prodigioso ed estremamente, paradossalmente benevolo e proficuo, morbo della licantropia più incurabile. Marty, infatti, anziché soffrire di questo suo “dono” dal carattere ereditario, all’apparenza aberrante, ne gioverà enormemente. In quanto diverrà un “mostro” di bravura del basket e un idolo emanante a pelle sex appeal bestiale, assurgendo prestissimo al ruolo, di certo non gradito, anzi, godibilissimo, di ragazzo più figo e corteggiato del luogo in virtù del suo animalesco ed irresistibile fascino bellissimo e belluino… Marty è però sol innamorato di Boof (Susan Ursitti)?

Film stupido e dall’intreccio tanto prevedibile quanto risibile, eppur, come già detto, divertente, che saccheggia a man bassa sia il mito della famiglia Talbot e dunque di Wolfman, che Frankenstein, Voglia di vincere, qua e là addirittura avvince. Sebbene, naturalmente, a dispetto d’Un Lupo mannaro americano a Londra di John Landis, uscito soltanto qualche anno prima e preso, in tal caso, sicuramente come modello d’ispirazione, n’è una scialba e decisamente poco riuscita imitazione che, a conti fatti, non funziona né come comedy né come film dell’orrore.

Michael J. Fox, però, è straordinariamente simpatico e bravo, malgrado per metà del film reciti coperto da un pesante trucco. Ed è grazie infatti alla sua energia interpretativa e alla sua scoppiettante verve carismaticamente contagiosa da precoce attore versatile che Voglia di vincere merita, tutto sommato, di essere citato, a prescindere dalla sua scarsa qualità, all’interno delle innumerevoli pellicole dedicate al mito dell’uomo lupo.Voglia di vincere Voglia di vincere teen wolf Michael J. Fox Teen Wolf TeenWolf JFox

di Stefano Falotico

 

ABOUT my FATHER, Trailer with Sebastian Maniscalco & Robert De Niro

About my Father Poster

Sinossi originale:

The hottest comic in America, Sebastian Maniscalco joins forces with legendary Italian-American and two-time Oscar® winner, Robert De Niro (Best Actor, Raging Bull, 1980), in the new comedy ABOUT MY FATHER. The film centers around Sebastian (Maniscalco) who is encouraged by his fiancée (Leslie Bibb) to bring his immigrant, hairdresser father, Salvo (De Niro), to a weekend get-together with her super-rich and exceedingly eccentric family (Kim Cattrall, Anders Holm, Brett Dier, David Rasche). The weekend develops into what can only be described as a culture clash, leaving Sebastian and Salvo to discover that the great thing about family is everything about family. ABOUT MY FATHER is directed by Laura Terruso and written by Austen Earl & Sebastian Maniscalco.

 

LA ZONA MORTA (The Dead Zone), recensione

dead zone walken

Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento con gli immancabili Racconti di Cinema, disamineremo uno dei grandi e imprescindibili opuses di David Cronenberg (Scanners, Crimes of the Future), cioè La zona morta (The Dead Zone).

Cronenberg, per i suoi aficionados, denominato Cronny. RegWalken Dead Zone

ista incommensurabile a cui, peraltro, senza falsa e inutile modestia, l’autore di tale recensione dedicò un importante saggio monografico dalla natura estremamente poetica e peculiare. Ma non spostiamo l’attenzione, utilizzando il plurale maiestatico, su scritti personali omaggianti il director di tanti capolavori inarrivabili, malgrado controversi e non unanimemente per tutti i gusti, ben intendiamoci. Torniamo al seguente, nelle righe seguenti, recensito e sanamente osannato, La zona morta. Film dell’83, della corposa ed avvincente, inquietante e perturbante durata di un’ora e quarantatré min. netti, La zona morta è un imprescindibile caposaldo all’interno del geniale e variegato excursus filmografico cronenberghiano ma, parimenti, rappresenta un unicum abbastanza anomalo e, a prima vista, superficiale, dissociato dalla sua filosofica poetica, spesso più soggettiva e legata al suo sguardo autoriale non a tutti immediatamente decriptabile. Sebbene superlativo, infatti, La zona morta è, perlomeno all’apparenza, uno dei film meno personali del regista de Il pasto nudo. In quanto, a prescindere dal suo altissimo valore qualitativo indiscutibile, peraltro giustamente attestato dalla lusinghiera media recensoria, riscontrata a tutt’oggi, sul famoso sito di critiche, metacritic.com., equivalente al più che soddisfacente e ottimo 69% di opinioni largamente positive, si differenzia profondamente da altre opere di Cronenberg, sovente contorte e narrativamente più bislacche ed ermetiche, per via della sua struttura assai classica e più facilmente comprensibile per chiunque. Magistralmente e sapientemente sceneggiato, con acutezza e leggerissime licenze poetiche e tematiche, dal valente e lungimirante Jeffrey Boam (Indiana Jones e l’ultima crociata, Salto nel buio) che liberamente adattò una celebre ed omonima novella di Stephen King, al quale fu proposto all’inizio di adattare lui lo stesso lo script, La zona morta è un commovente ed emotivamente straziante psicodramma toccante, con echi fortemente paranormali, ancestrali ed orrifici, indimenticabile e potente. Stando alla fin tropo concisa, assurdamente sbrigativa e decisamente poco esaustiva, immensamente approssimativa sinossi rilasciata da IMDb, La zona morta presenta questa scarnissima trama: Sottostante, testualmente riportatavi ma, rimarchiamo, veramente troppo esigua e fortemente generica: Un uomo si risveglia da un coma per scoprire di avere una capacità psichica.

L’uomo suddetto, docente di lettere, si chiama Johnny Smith ed è incarnato da un magnetico e strepitoso Christopher Walken in uno dei suoi ruoli più grandiosamente memorabili ed ipnotici. Johnny è promesso sposo alla sua eterna ed amatissima fidanzata Sarah (Brooke Adams). Dopo averla accompagnata a casa, di ritorno in macchina in direzione della sua abitazione, in una serata rigidamente invernale, viene tragicamente investito da un camion. Johnny cade in coma per lunghissimo tempo, per l’esattezza dieci anni. Improvvisamente, se ne ridesta ma, al suo inaspettato e miracoloso risveglio, s’accorge di possedere una particolare e soprattutto paranormale facoltà psichica tanto prodigiosa quanto per lui dolorosa. In quanto, gli basta entrar in fisico contatto col prossimo per leggerne il futuro. Nel frattempo, Sarah si è sposata e, di conseguenza, la vita affettiva di Johnny è stata frantumata. Johnny, affrantone, per di più trattato da fenomeno da baraccone ed emarginato dalla sua comunità a causa del suo dono tanto sorprendente quanto per gli altri inquietante, aiuta la polizia del luogo, in virtù della sua preveggenza, a scoprire un pericoloso omicida seriale. Dopo di che, Johnny conosce l’ambizioso candidato al Senato di nome Greg Stillson (un Martin Sheen sibillino e mefistofelico), futuro Presidente degli Stati Uniti d’America. Johnny, sempre grazie al suo intuito fenomenale e alle sue straordinarie capacità da chiaroveggente, prevede che Greg, una volta divenuto l’uomo più potente del mondo, scatenerà una mostruosa guerra nucleare. E ne interverrà al più presto per impedire che l’orrendo, da lui visualizzato futuro nefasto, assuma reale concretezza terrificante.

Teso, avvincente, tristissimo e al contempo bellissimo, struggente e girato maestosamente da un Cronenberg delicatissimo e acuto che, accantonando momentaneamente i suoi consueti pindarici voli stilistici e il più sperimentale, truculento e sanguinario body horror, del quale è uno dei massimi esponenti e inconfutabili padri fondatori e/o ricreatori, filma una storia agghiacciante con misuratezza mirabile.

La zona morta è un romantico e glaciale film drammatico mascherato da vicenda dell’orrore sui generis, è uno spettrale ed angosciante thriller dell’anima camuffato da allucinatoria detection persino fantascientifica e surreale.

Walken & Sheen, entrambi superbi, gareggiano in bravura, cesellando perfettamente due personaggi psicologicamente antitetici, son cioè l’uno la nemesi dell’altro, eppur allo stesso tempo “disturbati”, sebbene per ragioni diametralmente opposte.

Suggestiva e impeccabile fotografia di Mark Irwin e musiche, in tal caso rarissimo, non composte dall’inseparabile habitué di Cronny, ovvero Howard Shore, bensì realizzate da Michael Kamen.Zona morta Chris Walken The Dead Zone

di Stefano Falotico

 

NEXT, recensione

Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, come consuetudine, torneremo indietro nel tempo, però non spingendoci troppo in là. Poiché il film da noi preso in esame quest’oggi sarà Next del 2007, firmato dal valente eppur altalenante Lee Tamahori. Per tale occasione forse non pienamente convincente ma allo stesso tempo, qua e là, registicamente soddisfacente.Julianne Moore Nic Cage Next Next NicolasCage Cage Biel Next Tamahori Next Nic Cage Biel

In quanto Next, adrenalinico action della scorrevole, a tratti piacevole durata di un’ora e trentasei minuti scarsi, inclusi i lunghi titoli di coda, diverte e, per via del suo assunto fantascientifico e paranormale che nelle seguenti righe enucleeremo e meglio enunceremo, di certo intriga, sebbene nel suo risultato complessivo si dimostri alquanto insufficiente.

Sceneggiato dal trio formato da Gary Goldman, Jonathan Hensleigh (The Punisher con Tom Jane e John Travolta da non confondere con l’omonima serie tv Marvel targata Netflix con Jon Bernthal, Armageddon & The Rock di Michael Bay, Die Hard – Duri a morire) e Paul Benbaum che, per il loro script, si sono molto liberamente ispirati al racconto di science fiction ad opera di Philip K. Dick, intitolato Non saremo noi (The Golden Man), eccone la trama, testualmente riportatavi, in modo stringato, da Google…

«A un mago di Las Vegas, che ha abilità da chiaroveggente, viene richiesto dagli agenti dell’FBI di impiegare le sue capacità per contrastare un attacco terroristico nucleare pochi minuti prima che abbia luogo».Next Nicolas Cage NicolasCageNext

Il mago (o presunto tale?) in questione si chiama Cris Johnson, il cui soprannome è Frank Cadillac ed è incarnato da un Nicolas Cage tanto capelluto e magro in viso, smunto e vellutatamente levigato quanto insospettabilmente bravo per il ruolo ivi assegnatogli poiché, in virtù della sua conclamata e proverbiale, puntuale recitazione strampalata, istrionicamente temperata eppur fortemente flamboyant, risulta perfetto e in linea, giustappunto, col character descrittovi, da lui impersonato con godibile follia attoriale che non guasta. Il suo Johnson, dalle movenze robotiche, muscoloso e, fieramente, sovente a torso nudo tornito, terribilmente somigliante a un androide con un discutibile parrucchino corvino, è infatti il classico personaggio à la Cage, insuperabile per l’appunto per queste parti “cibernetiche”. Il suo muoversi a scatti, spesso totalmente fuori sincrono, espressivamente, rispetto ai contingenti avvenimenti mostratici, non poco ricorda l’alienato Jeff Bridges di Starman.

Un Nic Cage qui affiancato da una splendida Julianne Moore e da una altrettanto avvenente Jessica Biel però troppo imbambolata, impacciata e utilizzata solamente per la sua esplosiva e folgorante fotogenia adamantina e irresistibile ma penosamente accessoria, quindi superflua al di là del bel vedere.

Il regista di Once Were Warriors e de L’urlo dell’odio non firma, con questo Next, il suo film migliore ma si limita a un patinato e commerciale prodotto di puro intrattenimento senza troppe pretese ed approfondimenti psicologici che, invece, avrebbero enormemente giovato per instillare corposa introspezione, totalmente assente, purtroppo, alla complessa materia trattata che meritava decisamente più ampio spazio.

Ciononostante, Next, nel suo insieme, funziona e si lascia vedere volentieri, malgrado l’uso abborracciato e pedestre d’una pacchiana computer graphics davvero posticcia e visibilmente artefatta.

Funzionale e spesso magistrale fotografia, di contraltare, dell’ottimo David Tattersall (Con Air, The Majestic, Il miglio verde) e impeccabile montaggio dell’esperto Christian Wagner, ex habitué del compianto Tony Scott (The Fan, Man on Fire – Il fuoco della vendetta).

Nel cast anche lo scomparso, mitico tenente Colombo, alias Peter Falk.Lee Tamahori Next JulianneMooreNicolasCageJulianne Moore Next

di Stefano Falotico

 

SORVEGLIATO SPECIALE (Lock Up), recensione

Ebbene oggi, per il nostro consueto appuntamento coi Racconti di Cinema, ci fionderemo indietro nel tempo, più precisamente sul finire degli anni ottanta, brevemente, speriamo altresì esaustivamente, disaminandovi Sorvegliato speciale (Lock Up).

Sylvester Stallone, Donald Sutherland, John Amos, Sonny Landham, Tom Sizemore

Sylvester Stallone, Donald Sutherland, John Amos, Sonny Landham, Tom Sizemore

Diretto da John Flynn (Brainscan – Il gioco della morte) e interpretato, in un granitico e mastodontico tour de force e one man show assoluto, da un Sylvester Stallone in gran forma sia fisica che attoriale, Sorvegliato speciale è un film dell’adrenalinica e robusta, muscolosa in senso toutcourt, durata di centoquindici minuti netti, probabilmente alle nuove generazioni misconosciuto. In questi termini, infatti, potrà apparirvi questo titolo se appartenete a un’epoca disgiunta mnemonicamente dall’89, anno esatto in cui questa pellicola debuttò nelle sale mondiali. In seguito al recentissimo successo, a nostro avviso assai meritato, della serie tv Tulsa King che ha visto Sly primeggiare e giganteggiare di gran “comeback”, così come direbbero gli americani, cioè di smagliante ritorno sulla scena, qual occasione migliore per rispolverare Sorvegliato speciale?

Un film, giustappunto, un po’ ingiustamente dimenticato e perfino dagli aficionados più incalliti di Stallone accantonato e financo snobbato. Di certo, sia chiaro, non un capolavoro eppur a ben vedere e rivederlo, un film che incassò abbastanza e che, al di là del suo canovaccio rozzo e dozzinale, aggiungiamo, inoltre, convenzionalmente in linea con la tipologia classica dei film à la Stallone di allora, tralasciandone i molti aspetti difettosi e i suoi limiti evidenti da “banale” prodotto di consumo, di contraltare, si distingue per la sua autentica durezza e per molte scene girate egregiamente e suscitanti, onestamente, momenti davvero commoventi.

Da una buona sceneggiatura firmata dal terzetto composto da Henry Rosenbaum, Richard Smith & Jeb Stuart, autori anche del soggetto originale, di Sorvegliato speciale, sottostante, trascriveremo testualmente, per semplice convenienza, la trama che appare su Google, in quanto ci pare tanto pertinente quanto estremamente sintetica, non necessitante d’aggiunte superflue a rischio spoiler. Ci limiteremo sol ad apporne i nomi dei rispettivi interpreti, relativi ai propri personaggi incarnati, fra parentesi:Stallone sorvegliato speciale

«Il quarantenne Frank Leone (Stallone), detenuto modello appena tornato da una licenza premio trascorsa con la fidanzata Melissa (la compianta e qui molto bella Darlanne Fluegel, C’era una volta in America), è ormai prossimo alla scarcerazione definitiva, quando viene prelevato di notte dalla sua cella e trasferito in un’altra prigione, assai più dura e diretta dallo spietato Warden Drumgoole (Donald Sutherland). Costui lo odia e fa di tutto per rendergli la vita impossibile».

Compatto, tosto ed emozionante eppur disorganico nella sua amalgama spesso troppo retorica e melodrammatica, però con uno Stallone, ribadiamo, perfettamente calatosi nel ruolo con enorme e sentito vigore, Sorvegliato speciale non brilla certamente per originalità poiché è abbondantemente ripieno, fin alla nausea, d’abusati ed insopportabili, triti e ritriti luoghi comuni da Cinema carcerario di serie vagamente b.

Ma, nella sua complessità, funziona e non raramente tocca sensibili corde emotive che spezzano il cuore. Merito, innanzitutto d’un grintoso Stallone, della musica di Bill Conti (Rocky), d’un cast di contorno di prima scelta ove, se il character di Sutherland è tagliato con l’accetta e poco credibile, gli altri attori e comprimari, fra cui Tom Sizemore, Sonny Landham, John Amos, Larry Romano, Jordan Lund e Frank McRae, sono psicologicamente ben delineati e molto adatti per le parti lor assegnate.

Azzeccate inoltre le claustrofobiche e tetre scenografie di Bill Kenney.

Sorvegliato speciale, un film forse non indimenticabile ma appassionante, un film che merita più d’una visione e, col passare del tempo, ha acquisito più valore, meritandosi inoltre un posto d’onore nella carriera del grande e indomabile, sempiterno Stallone.Sly Lock Up John Amos sorvegliatospeciale donald sutherland sorvegliato speciale Lock Up Stallone FluegelStallone sorvegliato speciale Lock Up

Sly Sorvegliato Stallone speciale

di Stefano Falotico

 

STRESS DA VAMPIRO (Vampire’s Kiss), recensione

Ebbene, oggi per il nostro consueto, speriamo apprezzato, appuntamento coi Racconti di Cinema, stringatamente ma esaustivamente, disamineremo un film dell’88, ovvero Stress da vampiro (Vampire’s Kiss), erroneamente annoverato e accreditato, invece, su Wikipedia, come facente parte dell’annata 1989.

Original Cinema Quad Poster - Movie Film Posters

Original Cinema Quad Poster – Movie Film Posters

All’epoca vietato, perlomeno per ciò che concernette il mercato statunitense, ai minori di 14 anni per via d’alcune scene vagamente scabrose e dell’utilizzo d’un linguaggio assai esplicito e, diciamo, eufemisticamente colorito, cioè ripieno di forte turpiloquio e d’espressioni volgari, Stress da vampiro fu diretto da Robert Bierman e sceneggiato da nientepopodimeno che il writer dello splendido e inarrivabile Fuori orario di Martin Scorsese, ovvero Joseph Minion. Già questo basterebbe per smentire lapidariamente la bassissima, irrispettosa e molto ingiusta, complessiva valutazione decisamente insufficiente riscontrata, sul sito aggregatore di medie recensorie, metacritic.com, equivalente allo scarsissimo 30% di opinioni positive, di tale pellicola da noi ivi presa in questione, in quanto invero trattasi d’un film giustamente di culto, come si suol dire. Stress da vampiro dura un’ora e quarantatré minuti netti e folli, grottescamente spassosi e geniali ed è sorretto soprattutto da un’interpretazione memorabile d’un incontenibile, pittoresco e strepitoso Nicolas Cage al top del suo voluto istrionismo sopra le righe e della sua tipica recitazione scalmanata che gli americani definirebbero (in) “overacting”. Ora, se volessimo attenerci alla trama riferitaci da IMDb, sottostante eccola qua:

Dopo un incontro con un vampiro, un dirigente editoriale pensa di stare per trasformarsi in uno di loro.

Jennifer Beals stress vampiro

Tralasciando l’approssimativa e totalmente sballata sinossi fin troppo concisa e imprecisa succitata e integralmente trascrittavi, subito precisiamo, perdonateci per il gioco di parole, che il fantomatico e presunto vampiro, anzi, sopra detta vampira, altri non è che invece una normalissima, sebbene bellissima e avvenente oltre ogni dire, donna sensuale, incarnata dalla mitica Jennifer Beals (Flashdance).

Dunque, usando parole nostre, sintetizzeremo la trama di Stress da vampiro in questi termini…

Uno yuppie di belle speranze, Peter Loew (Cage) incontra in discoteca la misteriosa e, ribadiamo, sexy Rachel (Beals) e ne finisce a letto, consumandone una divorante e caliente notte di passione sfrenata e sessualmente tanto eccitante e vorace quanto inquietante. Sì, perché al suo risveglio, colto da un’incredibile e irrazionale paranoia allucinante, crede di aver giaciuto carnalmente con una non morta, con una Nosferatu in gonnella, pensando pazzamente di essere stato da lei morsicato e contagiato, scambiando un semplice succhiotto per un’azzannatura, giustappunto, vampiresca. Al che, improvvisamente, assolutamente convinto ridicolmente di essersi trasformato e incarnato in un figlio ed epigono sui generis, più che altro decerebrato e degenerato, di Dracula, comincia ad assumere comportamenti strani, per non dire da pazzoide alienato e da demente dissennato. Divenendo fortemente aggressivo nei riguardi, specialmente, dell’affascinante, carina e gentilissima sua segretaria Alva Restrepo (Maria Conchita Alonso), vagando per le strade desolate di New York a notte inoltrata e sostenendo in maniera ininterrotta, con esiti tragicomici, colloqui da squilibrato con la sua personale psichiatra, la sin troppo paziente dottoressa Glaser (Elizabeth Ashley).beals cage vampire kiss

VAMPIRE'S KISS, Nicolas Cage, Jennifer Beals, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE’S KISS, Nicolas Cage, Jennifer Beals, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE'S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE’S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE'S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE’S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

Celebre particolarmente per la divertente ma fastidiosa scena in cui Nic Cage mangia davvero uno scarafaggio vivo, Stress da vampiro è, rimarchiamolo, un imprescindibile cult movie, peraltro lodato giustamente dallo stesso Paolo Mereghetti nel suo famoso Dizionario…

Poiché, nella sua scombiccherata eppur al contempo gustosamente miscelata sarabanda di assurdità micidiali e irresistibili, assurge perfettamente a metafora rilevante del confusionario periodo appartenente al cosiddetto edonismo reaganiano per cui l’ambizioso ma fuori di testa personaggio di Peter è archetipico e grandiosamente simbolico d’una irrequietezza psico-sociale riscontrabile a cavallo della fine degli eighties.

Magnifica fotografia di Stefan Czapsky (Edward mani di forbice).Alonso Cage stress da vampiro

VAMPIRE'S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE’S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE'S KISS, Maria Conchita Alonzo, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE’S KISS, Maria Conchita Alonzo, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE'S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

VAMPIRE’S KISS, Nicolas Cage, 1989, (c) Hemdale Film Corp.

Cage Ashley Vampire Kiss

di Stefano Falotico

 

STANNO TUTTI BENE (Everybody’s Fine), recensione

Kirk Jones De Niro Everybody Fine

Ebbene oggi, per il nostro consueto, ci auguriamo apprezzato, appuntamento coi Racconti di Cinema, salteremo leggermente indietro nel tempo ma soltanto poco più d’una decade or sono, ivi trattandovi, in maniera concisa e assai stringata, però speriamo esaustiva e precisa, d’un film del 2009, ovverosia Stanno tutti bene (Everybody’s Fine), remake statunitense di uno dei film più bistrattati e ignorati, chissà se a ragione o meno, di Giuseppe Tornatore, cioè l’omonima pellicola del ‘90 col compianto Marcello Mastroianni e la sempre bellissima, radiosa e fotogenica, molto sottovalutata Valeria Cavalli.De Niro Barrymore Everybody Fine

Stanno tutti bene, vale a dire naturalmente il rifacimento dell’opus di Tornatore (Nuovo Cinema Paradiso), è una co-produzione d’oltreoceano e italiana, finanziata da Vittorio Cecchi Gori, distribuita all’epoca, per il mercato mondiale, e patrocinata dall’ex Miramax di proprietà di Harvey Weinstein, scritta e diretta dal britannico Kirk Jones (Svegliati Ned, Nanny McPhee – Tata Matilda) che, per l’occasione, poté usufruire, per il ruolo principale, della partecipazione di Robert De Niro (The Irishman) che ereditò il ruolo che fu del nostro Mastroianni.

Stanno tutti bene è un film della durata piuttosto breve, perlomeno per quanto concerne gli standard hollywoodiani, di novantanove minuti emozionalmente corposi, sebbene forse fastidiosamente retorici e intrisi d’una stucchevole morale dolciastra sin troppo ruffiana e consolatoria.

In tale Stanno tutti bene, rispetto all’originale, potremmo dire, nostrano, l’ambientazione cambia ma la trama, a grandi linee, ricalca abbastanza fedelmente quella appartenente all’opera del regista de La leggenda del pianista sull’oceano e di Malèna. La seguente, sottostante trascrittavi testualmente dalla sinossi di IMDb che, oltre a risultare in tal caso pertinente e sinteticamente chiara, inquadra e fotografa, senza panegirici inutili e descrizioni superflue che rivelerebbero gli snodi dell’intreccio espostoci, la vicenda narratavi:

Un vedovo ha capito che il suo unico legame con la sua famiglia è stato solo attraverso sua moglie, in un improvviso viaggio in macchina per ricongiungersi con ciascuno dei suoi figli.

De Niro Stanno tutti bene De Niro stannotuttibene Beckinsale De Niro Stanno tutti bene

Il vedovo in questione si chiama Frank Goode e, come sopra dettovi, è incarnato da Robert De Niro, mentre i suoi figli sono rispettivamente interpretati da Sam Rockwell, Drew Barrymore e la splendida Kate Beckinsale.

Viaggio on the road nostalgico, senile e forse melenso, romanticamente innestato sulla delicata e lieve, carezzevole colonna sonora di Dario Marianelli con l’aggiuntivo e ulteriore innesto d’una dolce e bella canzone ballata di Paul McCartney, intitolata (I Want To) Come Home, candidata ai Golden Globes, e richiami, forse involontari ed esiti decisamente meno soddisfacenti, a Una storia vera di David Lynch, Stanno tutti bene, qua e là, risulta autentico e financo struggente, e l’efficace, suggestiva fotografia, dai toni chiaroscurali, di Henry Braham, dona toni melanconici e fascinosi alle immagini. Però, nel suo complesso, ribadiamo, si rivela piacevole ma insufficiente.

De Niro, il quale, in modo un po’ inspiegabile e sorprendente, a quanto pare, va molto orgoglioso di questo film e della sua performance, infonde al suo personaggio una notevole carica melodrammatica che in alcuni momenti risulta commovente e sentita. Al contempo, di contraltare, è troppo imbambolato per colpa d’una regia piatta che lo imbriglia in un personaggio patetico e monocorde.

Nel cast, anche Damian Young e Melissa Leo, già vista assieme a De Niro in Righteous Kill – Sfida senza regole.

Dunque, a conti fatti, come si suol dire, Stanno tutti bene è un film guardabile e discreto ma “americanizza”, in maniera artefatta con ancora più melassa di fondo, la già controversa e probabilmente mediocre pellicola di Tornatore, che fu sceneggiata da Tonino Guerra e Massimo De Rita.rockwell stannotuttibene StannotuttibeneDeNiro

di Stefano Falotico

 
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