“Cose nostre – Malavita”, recensione
La strada “criminosa” d’una non molto bianca, sbilenca (im)moralità “immune” con munizioni fucilanti a lancinante De Niro scorsesiano nell’amarcord rimembrante l’antologico goodfella epico
Introduzione virante a plumbeo, “biografico” ne(r)o
Innanzitutto, evidenzio ancora di rinomata stilografica mnemonica il mio sviscerato amore passionalissimo per Bob De Niro.
Di come, nei primi palpiti dell’adolescenza da me “deviata” nell’“anomalia” dostoevskijana d’un sentir diverso, “traviò” rifulgente il mio spettro visivo, incantandolo a cantilene incatenanti d’una briosa, luminescente al plenilunio onirico, (pro)pulsione esistenzialista sulle fratture suadenti di mio Cuore fenomenale, miscelato su incognita che si generò (s)g(retol)elante in misterico ignoto, e non violerò mai il segreto di tal inturgidirmi per sua venerazione adorante.
Dai vicoli “ciechi” di Mean Streets, quel furoreggiante Johnny Boy che saltellava “incosciente”, “maniscalco” d’una manovalanza subito d’“iniziato” da “bravo ragazzo” in erba e piromane dinamitardo dalle luccicanti esuberanze. Vivace, nervoso, adirato in volto, corteggiatore playboy impagabile del fottuto incular la vita, soprattutto la sua anima inappellabilmente condannata al buio eterno. Al “silenziatore” d’una morte annunciata, della tragedia paradisiaca, infernale tant’amata dal primo Martin in poi. “Casinò” acquiescente dell’Icaro aviatore che verrà schiantato dal Fato ineludibile. Un falò di vanità deflagrato ad autodistruzione del masochista raging bull, 15 minutes di “virtuale” celebrità periferica da re per una notte.
Il vampiro Travis Bickle, specchio dell’alienazione (dis)incarnata, incagnito ma “pacifico” sin a quando esploderà appunto letale. Ira di Dio flagellante a suo stesso angelo “tetro” e ultraterreno perché troppo vivo, magniloquenza dei dolori soffusi ad anime metropolitane inascoltate. Che fremon taciturne, d’occhi febbrili e “malati”, scarna e macilenta auto-radiografia del Paul Schrader “laconico” e ad agoni demoniaci.
Esorcista della propria vita, persistente ago masochista nei ventricoli “soffocanti”, claustrofobia “impaurita” dei tunnel lerci, lacere consunzioni d’una magrezza scolpita in viverla sotterranei, in abissali profondità “veggenti”, mesmerico “fantasma” languido, illuso, utopia romantica che idealizza una Donna dei sogni ma riprecipiterà accigliata per un onanismo strenuo sul Bob ischeletrito, divorato dinanzi alla sbranante, punitrice “realtà” del ver’orrore.
De Niro, genio virtuoso, inquieto camaleonte e quindi “macchina” perfetta “Terminator”.
Come se mai Robert placasse quell’esigenza spirituale, divina del mutar sempre faccia nella “galleria”. Simbiosi con Travis, you talking to me? sparato a suo sbeffeggiarci.
Adoro le sue iridi “corrucciate” e incastonate a pelle “ustionata” del classic neo untouchable, icona mistica del trascendere demoniaco su “buffonesco” e ilar volar sempre alto, se eccessivo è esagerato, se energizzato troppo si dimena gestualmente scalmanato, “prigionia” a doppio taglio mim(etic)o della permanente oscillazione craterica per generare altro attoriale nervo lavico (irre)quieto, inventivo e stracciante la “voluttà” estatica dell’essere carne d’attore assoluto, se “conciliato” porge il suo clown parodistico nell’ironia “ven(i)ale” fra stronzeggiar su battute strozzate d’eloquente “muto” che china solo la testa, se annuisce in tono Al Capone canzonatorio delle odi personali malinconiche o è mille intonazioni del (ri)flettersi dentro, attorno mille e più personaggi.
Adoro i suoi lineamenti senz’età, “giovanili” anche ora che son “senilmente” aggrottati in un sorriso bifronte al mito ch’è, sì, gli basta un (ac)cenno nell’illuminar le pupille “invecchiate” e squarcia le palpebre cinefile d’orizzonti nostri perdutamente affascinati dai mari schiumosi naviganti la memoria di Robert De Niro. E di chi se non Lui?
De Niro elegante ieri, grezzo, senza Tempo nell’“apnea” borderline di psicotici “brutti” ceff(on)i, pestaggio al suo corpo, di cui abusa per usar le interpretazioni a pelle istintiva.
Spaccata, martoriata, macellazione per (ri)crearsi “mostro” di Frankenstein.
Mai s’è calmato, sulla filmografia impressionante ha impresso colpi taglienti, “erronei”, un attore proprio errante ed ero(t)ico d’inimitabile personalità. Sbandato, traiettoria senza capo né coda, serio poi “comico”, commediante o figlio di puttana a marchetta dello svenduto più insopportabile. Quindi, da scopare. Da idolatrare!
Sghignazza nel motteggiar un mugugno ad angoli di labbra (s)piegate, “accartoccia” la barbetta da duro per “effeminarla” nella dolcezza da buon padre rassicurante, quindi sterza il pel innato, assottogliandolo da lupo irto con immancabile giubbotto, seducente a congenito esser di nuovo Vito Corleone. Malizioso e fascinoso. Non puoi resistergli.
Brandiano, recita spesso con lo Sguardo maiuscolo, istrione dell’espressione che non ha bisogno di parole d’aggiungere perché è tutto (non) detto…
Figlio di un’epoca Elia Kazan, ammodernato negli anni 70 d’avanguardia più avanti del “Cinema” vecchio-odierno. Cinema anestetizzato, “buono”, odioso e da paraculi.
De Niro è nero, è poliziesco, è il noir straordinario Ronin d’una argentata Nizza col poster sventolante del capolavoro di Frankenheimer a Cannes, ove la Costa Azzurra dei “ricchi” vien “impolverata” dalle polveri da sparo di mitragliatrici “spie” che (s)puntano fra inseguimenti automobilistici color BMW.
De Niro di altra carrozzeria, “arrugginito” in giubbotto “sporco”, non è una “figa(ta)” da Mercedes e cazzi falsi. Umorale incide, mira e assassina carismatico, variabilità “atmosferica” del suo impermeabile profumo lungo addio.
Non ha mai interpretato Marlowe? Invece sì, anche quando fa il gangster.
I suoi gangster sono infatti tutti “tristi”, disillusi, indagano “sonnecchianti” nella chimera che uno “score” rischiari l’amarezza. Neil McCauley di Heat è un Conte di Montecristo versione Melville. Credo di sì.
Può prendere l’aereo e “salpare” per un lido non più tormentato, invece è ossessionato dai conti in sospeso, appunto. Si lascia ammazzare apposta da Carlito/Pacino nei rovesci della medaglia.
Perdonate la mia schiettissima franchezza, ché divorai Bob in tempi non sospetti, quando m’affamavo scolpente a ebbrezze “nostre” sospiranti un’epoca forse smarrita per sempre, la mia adolescenza innervata a diamante “fosco” del respirarlo/a…
Ne riparleremo con più oculatezza quando avrò smaltito altro “denirare”, scusate volevo “incider(mi)” a coniar invece il mio delirare. Eh eh.
Malavita di Luc Besson, ebbene eccoci qua…
… nel “bel” mezzo del cammin “oscuro”…
Titoli di testa incorniciati già ad “adrenalina” della voce narrante di De Niro.
Arrocchito e malinconico “perso”, nostalgia quasi francese per una veloce torsione nella “dissolvenza” dell’ambientazione, la Normandia, infatti. I fatti son questi. Attenetevi e vi è andata pure grassa.
Ubicata a “magione protezione testimoni” d’una family di mafiosi.
Già indaffarati a disfar ancora i bagagli per trovar la “giusta” sistemazione o meglio collocazione (non) adatta al Mondo. “Relegati” in una villetta spettrale, memore del lor freakeggiar burtoniano, gli Addams devono abitare nella “normalità”. Sotto copertura s’ integreranno i nostri non tanto integerrimi, (cor)rotti eroi?
Una peripezia che scivola ritmata fra esplosioni improvvise, cambi di regia “frastornanti”, una tastiera che batte all’unisono della violenza “soffocata” d’un De Niro “pacioso” pronto nell’attimo fatale a torcerti i capelli e adirar le rughe in ringhio cannibalesco. Per poi farti il sorrisetto.
Infonde amor paterno da padrino (ir)redento, in remissione dei peccati dentro le memorie, mandibolari la sua anima (im)punita, per appunto (non) colpevolizzarsi. Se ne fotte!
E a canini, scusate accaniti, tifiamo per questo doppio Fred Blake/Manzoni appaiato a una splendida Michelle Pfeiffer, allietati da duetti “tagliati con l’accetta” con il grande Tommy Lee Jones, perennemente accondiscendente e “amicone” del gioco “pericoloso” e ficcante, illuminati da Dianna Agron, della quale vi rivelo che m’invaghii ai tempi delle medie.
Era bionda come Dianna e se possibile più figa. Ma non ebbi lo stesso culo di sverginarla come il nostro suo matematico. Lei è infatuata e rischierà il suicidio a(r)mante ma il bastardo prima la cucca, la palpa e sudato di “timidezza” se ne fionda beato pur “beota” per poi vile svignarsela da “separazione amichevole”, date le inconciliabili “differenze” e le estrazioni dinastiche. Uno stronzo che da me riceverebbe solo un’altra “racchettata” piazzata nei coglioni.
Omaggi spara(n)ti, Besson si rifà al suo stesso Cinema citante e sovreccitato in cambi di rotta “ammortizzati” fra un pianto sincero, momenti d’autentica commozione, suspense “funebre”, campanili gotici, ma la solitudine impera sovrana e non puoi fuggirla. Lenta svanisce per ripartire altrove, come ultima, opacissima inquadratura.
Ti salvi la pelle ancora, nostro Fred “canaglia”, e i “cattivi” son stati stesi e “disonorati” col tuo valore…
Il film di Besson, al solito da pochissimi già compreso, adocchia il genere a modo Luc e solo Besson. Assoldato a se stesso.
Un Cinema che solo Besson sa…
Il resto guardatevelo, godete a più non posso, una delle rare black comedy che non fa ridere ma sogghignar amaro, mette i brividi e vuole, dietro la camuffa della solita (in)utile trama, perturbare, bombardarci per sussurrarci: “Siamo tutti come Henry Hill”.
Chi è Henry Hill? Ma che c’entra Ray Liotta di Quei bravi ragazzi?
Fred/De Niro ricorda… e anche il produttore esecutivo Martin Scorsese.
Il resto è un bel colpo, una meraviglia visiva in Dianna e un De Niro che recita senza recitare. Lui è.
Il mio è un delirio?
E a te cosa frega del mio De Niro?
Allora, dammi Dianna.
(Stefano Falotico)
manzoni? mon dieu di un porcdieu
Eh già