La quarantena ci asfissiò ma io vidi i claustrofobici Sin City, Stardust e Mad Max: Fury Road

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Mad Max: Fury Road, recensione

Ebbene, a distanza da circa cinque anni esatti dalla sua uscita, avvenuta in Italia esattamente il 14 Maggio 2015, proveremo a soffermarci, con più obiettività, sull’iper-acclamato Mad Max: Fury Road di George Miller.

Regista ovviamente della saga omonima, inaugurata nel lontano 1979 col primo capitolo, da noi ribattezzato Interceptor, della trilogia interpretata da Mel Gibson. Che qui trova il suo prosieguo, dopo trent’anni dall’uscita (1985) dell’ultimo, potremmo dire, episodio, ovvero Mad Max – Oltre la sfera del tuono (Mad Max Beyond Thunderdome). Il personaggio oramai leggendario e iconico di Gibson viene rimpiazzato dal più giovane, corpulento e taurino Tom Hardy.

Ecco, se i succitati, precedenti capitoli furono, così come Mad Max: Fury Road, ottimamente accolti dalla Critica (anche se, a essere sinceri, il loro pieno apprezzamento fu riconosciuto un po’ tardivamente, sì, in là con gli anni rispetto alla sua release), essi non ricevettero però nessuna candidatura agli Oscar.

Soltanto Mad Max – Oltre la sfera del tuono, peraltro, vinse il Golden Globe per la Migliore Canzone originale, We Don’t Need Another Hero, scritta da Terry Britten e Graham Lyle. Ovviamente resa celebre della performance canora della mitica Tina Turner che, inoltre, nel film interpretò la celeberrima, inquietante Aunty Entity.

Mad Max: Fury Road, invece, ricevette un’accoglienza esaltante. Tant’è che, sui famosi aggregatori di medie recensorie, metacritic.com e Rotten Tomatoes, detiene tutt’ora votazioni altissime ed altissimamente entusiastiche. In più, Mad Max: Fury Road sbancò i botteghini e fu candidato alla bellezza di dieci Academy Awards, incluse le nomination per Miglior Film dell’anno e per la Miglior Regia. Incassando ben sei statuette dorate.

Anche se, va detto, le vinse quasi esclusivamente per le categorie tecniche.

Ora, dopo questo lungo preambolo, diciamo anche che Mad Max: Fury Road viene indiscutibilmente considerato quasi unanimemente un capolavoro. Non solo dai cultori di tale franchise storico.

Ecco, pur riconoscendone molti pregi, che vi citerò nelle righe seguenti, sono parimenti cosciente che m’attirerò molte antipatie e, probabilmente, se prestissimo leggerete la mia apodittica affermazione a riguardo del valore di questa pellicola, erroneamente considerata epocale ed opera capitale, unitamente agguerriti, accerchierete la mia casa, alla mia incolumità attenterete al fine di bruciarmi o linciarmi vivo nella maniera più disumana e bestiale. Provando in tutti i modi a decapitarmi.

Poiché, senz’alcuna vergogna e senza nessuno sprezzo del pericolo, impavidamente e con maggiore temerarietà di Tom Hardy stesso, il quale si esibisce in una prova recitativa che trasuda belluina forza grintosa, asserisco che Mad Max: Fury Road sia uno dei film più sopravvalutati del mondo. E a conti fatti, come si suol dire, decisamente non sia un granché. Anzi, non per fare programmaticamente il bastian contrario o per assumere un’iconoclastica posa snobistica, aggiungo perfino che Mad Max: Fury Road sia veramente brutto. A tratti inguardabile, soporifero, insomma di una noia mortale. Un film puerile, un pedestre spettacolone senza capo né coda terribilmente pasticciato, grossolano, in una parola una vaccata.

Prendendo in prestito l’arcinota iperbole di Paolo Villaggio ne Il secondo tragico Fantozzi, riguardante La corazzata Potemkin, sì, Mad Max: Fury Road è una cagata pazzesca!

Ora, forse sto esagerando e, con tutta probabilità, anche Paolo Mereghetti fu clamorosamente eccessivo nell’affibbiargli una sola, misera stelletta e mezzo nel suo famigerato Dizionario dei film, elevandolo solo leggermente nell’ultima edizione della sua stessa “Bibbia” cinefila, del suo mastodontico, prosopopeico vademecum da “critico dei critici”, portando le stellette a due.

A mo’ di contentino per non inimicarsi nessuno, cioè alzando impercettibilmente il suo voto da pagella scolastica per simpatia verso chi lo reputa oramai, per l’appunto, un caposaldo intoccabile del genere catastrofico-distopico e post-atomico.

Mereghetti, da sue lapidarie, mai smentite, testuali parole del suo editoriale del Corriere della Sera, lo definì soltanto… un eterno divertimento per bambini… ma divertimento non ce n’è neanche un po’. Il film continua imperterrito a vedere macchinette che saltano in aria, persone che si fracassano, gente che digrigna i denti e che respira, facendo strani rumori. No, non è questo il Mad Max che mi piaceva e sicuramente non è questo il Cinema che mi piace e mi diverte.

Può dispiacervi parecchio e Mereghetti non è di sicuro un personaggio simpaticissimo.

In tal caso, però, non ha tutti i torti. Anzi…

Mad Max: Fury Road non è certamente un videogame della Playstation in celluloide ma non è neppure questo meraviglioso filmone per cui tutti i cosiddetti avanguardistici cinefili delle filosofie postmoderniste più fintamente trasgressive, eh già, difendono a spada tratta, magnificandolo oltre ogni buon senso. Forse sono persone affette da sovreccitate smanie nei riguardi dei nuovi, facinorosi culti tribali di natura borderline più millenaristica.

Suvvia, plachiamo subito i facili entusiasmi, conteniamo immediatamente quest’esaltazione malata e distorta.  Mad Max: Fury Road è sostanzialmente un filmetto. Né più né meno. Sì, ben poca cosa, soprattutto se paragonato ai più raffinati e, questi sì, innovativi e fantastici suoi eccezionali antesignani squisitamente deliranti e ipnoticamente mirabolanti.

Trama, ridotta all’osso, scarna e piena di personaggi mangiati vivi nel deserto del proprio miserabile destino da derelitti spellati da un clima più arido d’una sceneggiatura asciuttissima:

In una remota wasteland, cioè una terra desolata e al contempo, di traduzione italiana sui generis, una terra più desertica della Monument Valley dei western di John Ford, Max Rockatansky (Hardy) vaga infelicemente animalesco da una parte all’altra, gironzolando follemente senza meta, infilandosi fra una spelonca e l’altra, furtivamente insinuandosi e addentrandosi tra grotte rupestri assai tenebrose, fuggendo alla cattura di temibili mostri umanoidi, ridotti loro stessi, per l’appunto, pelle e ossa. Alla fine della sua disperata fuga, rimane penzolante sull’orlo di un sabbioso, sdrucciolevole dirupo.

Al che, dopo questo frenetico incipit vorticoso, partono i titoli di testa su musica rocciosa, granitica come Tom Hardy e veniamo, subito dopo, immersi nuovamente nell’azione colma di scemenze vigorose.

Il perfido e tirannico Immortan Joe (interpretato, sotto un trucco spaventoso ed orripilante da Hugh Keays-Byrne, nientepopodimeno che Toecutter d’Interceptor) controlla sadicamente la Cittadella. Fa sì che la povera gente, denutrita, quasi integralmente denudata e deperita, lo veneri come un dio e ossequi ogni sua malvagia, criminosa direttiva imperiosa, idolatrando anche la sua prediletta pupilla, l’Imperatrice Furiosa (Charlize Theron).

Metaforicamente, la gente si abbevera alla fonte della sua pazza, ingannevole saggezza poiché Immortan Joe ha il controllo degli acquedotti e senza il suo permesso, dunque, la gente non può rinfrescarsi le labbra. Di conseguenza, morendo dissetata.

In questo scenario da clima torridamente equatoriale ove il sole incalzante divampa scottante a ogni ora del giorno, provocando sulle epidermidi umane delle bruciature sempre più devastanti, procede la vicenda di questo film così tanto visivamente scoppiettante quanto, onestamente, poco appassionante.

Cosicché Max, continua per 2h abbondanti a scappare dai Signori della Guerra, vale a dire i servi quassi zombi dall’aspetto putrescente al servizio del malefico Immortan Joe, alleandosi con Furiosa per fare piazza pulita di tutti i cattivoni odiosi.

Sì, la trama è solamente questa ed è davvero un’inezia portentosa.

Un impari sciocchezza grottesca ove George Miller, un tempo director impareggiabile, per distrarci dal suo stile e dalla sua poetica, qui, inconcludenti, si avvale di una satura fotografia eccessivamente policromatica di John Seale, essiccando ogni buon proposito contenutistico a favore invece di una spasmodica azione interminabile che, come detto, incendia e quindi velocissimamente spegne ogni pazienza dello spettatore più intelligente e smaliziato dopo solo mezz’ora di un film, ripeto, sovrastimato oltre ogni decoro possibile e immaginabile.

Appiattendo l’enorme, suggestivo suo immaginario visionario in un guazzabuglio tanto esteticamente affascinante quanto, alla fine dei conti, del tutto vuoto e inconsistente.

Per correttezza, comunque, va detta un’ultima cosa:

forse, non saranno attendibili le stellette del Mereghetti così come la mia recensione è probabile che sia un po’ provocatoria ma chi scrisse l’articolo sottostante merita che gli si cucia la bocca alla pari di Tom Hardy in quest’immagine oramai entrata nella Storia:

https://it.videogamer.com/2015/05/22/mad-max-fury-road-e-un-videogioco-e-annoia-se-mereghetti-ha-ragione/

Eh sì, avete capito? Mad Max: Fury Road è “un videogioco e annoia?” Se Mereghetti ha ragione.

Se Mereghetti avesse (avuto) ragione forse sarebbe stato un italiano meno barbarico?

Concludo così…

Mereghetti, data la sua età non propriamente floridissima di primavere da giovanissimo, deve aver perso qualche colpo, inevitabilmente. Va altresì aggiunto che questa nuova “leva” di critici dovrebbe tirarsela assai meno, finendola di fare gli smanettoni.

Ok, boomer?

Stardust, recensionestardust

Ebbene, oggi recensiamo Stardust. Sublime fantasy altamente romantico e, sotto ogni punto di vista, strepitosamente fantastico. Una miscela ottimamente congegnata che vola intrepidamente alata sulle cadenze avventurose d’una sognante levità mirabolante e deliziosa.

Seconda, inaspettatamente stupefacente opera di Matthew Vaughn (Kick-Ass, X-Men – L’inizio, Kingsman), qui al suo esordio hollywoodiano per la Paramount Pictures, dopo l’apprezzato The Pusher con Daniel Craig, Stardust uscì sui nostri schermi nell’Ottobre del 2007 ma, soltanto quest’anno, è finalmente disponibile in una pregiata, italiana edizione in Blu-ray contenente esclusivi contenuti speciali per collezionisti di razza e immancabili affezionati alla Settima Arte più delicatamente sofisticata.

Liberamente adattato dall’omonima novella illustrata di Neil Gaiman da parte dello stesso Vaughn e Jane Goldman, Stardust dura due ore e sette minuti e ricevette una buona accoglienza da parte di Critica e pubblico. Su Rotten Tomatoes, per esempio, famoso sito aggregatore di medie recensorie, a tutt’oggi può vantare il 76% di critiche estremamente lusinghiere.

Stando agli standard attuali, Stardust non costò neanche tanto, vale a dire soltanto 70 milioni di dollari. Sì, soltanto, poiché si tratta di una cifra relativamente esigua e non certamente astronomica se paragonata a film di questo tipo, ripetiamo, tutt’ora in voga. Gli incassi inoltre, sebbene non esaltanti, ricoprirono ampiamente le spese e Stardust, per molte settimane, primeggiò al box office in Inghilterra e in Irlanda. Piazzandosi in vetta come imbattibile campione del botteghino britannico.

Altrove, invece, riscosse assai meno successo.

Addirittura, da noi fu perlopiù ampiamente snobbato e non poco trascurato perfino dall’intellighenzia critica.

L’unico a rimanerne ben impressionato fu Paolo Mereghetti che, nel suo celeberrimo Dizionario dei film, lo definì «una straordinaria cavalcata sulle ali dell’immaginazione». Mentre, nel suo editoriale del Corriere della Sera, scrisse testualmente quanto segue: c’è ancora un pubblico disposto a dar credito a un film di questo tipo? Istintivamente direi di no: per troppo tempo l’industria cinematografica, con Hollywood in testa, ha appiattito l’immaginario giovanile dentro a schemi previsti e prevedibili, dove la fantasia era una specie di optional da dimenticare. Meglio investire in costosissimi effetti speciali o moltiplicare all’infinito la velocità del montaggio piuttosto che sforzarsi di coltivare l’immaginazione e la libertà creativa. Col risultato che oggi buona parte del pubblico è più reattiva a certi cast altisonanti e a certi effetti destabilizzanti (violenza, adrenalina e sangue su tutto) che alle sollecitazioni della creatività, come è invece la strada che cerca di percorrere Stardust. Resta solo la speranza che, tra film popcorn e fiction televisive, il «fanciullino» che ognuno si porta dentro non sia ancora del tutto anestetizzato.

Sì, parole assolutamente condivisibili poiché Stardust è un grande film. Così come, d’altronde, lo è Hugo Cabret di Scorsese. E se i cosiddetti adulti, probabilmente mal cresciuti e “disidratati” per colpa del piattume delle loro grigie vite metodicamente, quotidianamente, competitivamente ripetitive, asfissianti, morbose e noiose, non vorranno apprezzarlo, sicuramente rigetteranno, così facendo, la loro anima più gustosamente onirica e fantasiosa, avendo capziosamente abdicato a stili e dettami di vita falsamente morigerati e dunque miserrimi, terribilmente sganciati dal purissimo, vivido, lucente sogno innervato di dolce e pugnace venustà fulgida e cristallinamente roboante.

Il Cinema, infatti, è sogno, è poesia in immagini.

Se dimentichiamo questo semplicissimo assunto, automaticamente disconosciamo noi stessi, ripudiando la nostra arcana anima ardimentosamente squillante, spegnendola nell’inaridimento e nel più bieco cinismo deprimente.

Anche se forse non siamo più né bambini né adolescenti, reconditamente dalle nostre profondità primigenie, ancora non del tutto oscuratesi nel vacuo, borghese intristimento, è necessario che disseppelliamo e innalziamo coraggiosamente gli stupendi, liberi sogni colorati, commuovendoci nuovamente dinanzi alla beltà serena di stellati firmamenti e di arcobaleni magicamente pigmentati di dolce e romantica, battesimale armonia luccicante.

Trama:

Nell’Inghilterra del 1800, cioè in piena epoca vittoriana, abita Tristan (Charlie Cox), modesto garzone figlio di un uomo, Dunstan Thorn (Ben Barnes da giovane, Nathaniel Parker da adulto), il quale fu l’unico che, impavidamente, riuscì a entrare a Stormhold, eludendo la sorveglianza di un saggio vegliardo (David Kelly) atto a presiederne il muro di cinta. Tristan, pur di conquistare la sua amata Victoria (Sienna Miller), promette a costei di regalarle una stella, forse in carne e ossa, Yvaine (Claire Danes). Yvaine, però, è già promessa sposa all’avido, azzimato signorotto belloccio e mascalzone di nome Humphrey (Henry Cavill). Malgrado ciò, Tristan s’imbarcherà, con tanto di veliero volante, lungo una landa pullulata da fattucchiere doppiogiochiste e principi malvagi, incontrando ambigui capitani di ciurme ridicolmente piratesche, sfidando perfino sé stesso pur di conquistare il cuore della sua bella.

Che dire? Stardust è magia adamantina, un film che riesuma il migliore Cinema degli anni ottanta dei fantasy avventurosi e inventivamente creativi. Fregiandosi di un cast a dir poco impressionante ove, ai già succitati Cox, Miller, Danes, Kelly, Barnes e Cavill (questi ultimi in due brevissimi cammei di lusso), svettano le prove di una Michelle Pfeiffer straordinaria in versione stregonesca (memore forse, nella sua recitativa variazione sul tema, della sua performance ne Le streghe di Eastwick), un memorabile e gigantesco Robert De Niro nelle farsesche, esilaranti ed esuberanti vesti di Captain Shakespeare, un ghignante e perfido Mark Strong as Principe Septimus, Jason Flemyng, Kate Magowan, Rupert Everett, Ricky Gervais, Peter O’Toole, la piccolissima partecipazione del regista Dexter Fletcher e la voce narrante, nell’edizione originale, di Ian McKellen.

Curiosità: Charlie Cox, come sappiamo, è diventato Daredevil nell’omonima serie tv targata Netflix.

Mentre Ben Barnes è stato il villain Billy Russo nel “gemellare” The Punisher con Jon Bernthal.

sin city carla gugino

Sin City, recensione

Oggi, recensiamo Sin City.

Film di due ore e quattro minuti del 2005.

Sin City è tratto dall’omonimo graphic novel di Frank Miller. Che, oltre ad essere autore di tale trasposizione cinematografica, assieme a Robert Rodriguez n’è stato regista. Con la partecipazione straordinaria di Quentin Tarantino, accreditato come guest star director.

A tutt’oggi, sul sito aggregatore di medie recensorie metacritic.com, conserva un’ottima votazione, ovvero il 74% di pareri estremamente positivi e, ai tempi della sua uscita, infatti, oltre ad essere apprezzato dalla Critica, malgrado non avesse totalizzato incassi stratosferici, piacque generalmente molto al pubblico. Rivelandosi una perfetta, suadente e fascinosa miscela di live action e animazione grafica fantasiosamente ben concepita e di sicuro, ammaliante impatto visivo.

Copia-incolliamo qui l’assai sintetica ma pertinente trama inserita su IMDb che, nella sua assoluta brevità, senza troppi fronzoli e pedanti descrizioni minuziose e superflue in barboso stile Wikipedia, riproduce esattamente in nuce il fulcro della vicenda narrata, anzi, delle microstorie intersecate fra loro in modo morbidamente avvolgente e ipnotico.

Sin City, difatti, pur essendo stato girato prevalentemente in un b/n, potremmo dire, bizzarro e spettrale, irresistibilmente accattivante, contiene molte sequenze ove la fotografia, peraltro firmata dallo stesso Rodriguez, cangia in una sfumata policromia seduttivamente fosca e cristallina, ammantando la pellicola, con questa magica malia tenebrosamente atmosferica, d’incantevoli suggestioni torbide e lugubri assolutamente in linea col tetro e al contempo luminescente clima che ci viene malinconicamente profuso.

Un film, potremmo dire, di natura claustrofobica, immerso in ambientazioni melmose, fra interni di case fatiscenti, periferie degradate, quartieri lerci e malfamati e bar ove pullulano, ubriachi, strafatti perdenti amabili e simpaticissimi contrabbandieri della propria anima bruciata o soltanto nei propri cuori scheggiata.

A movie that explores the dark and miserable town, Basin City, and tells the story of three different people, all caught up in violent corruption.

Ecco allora che, a prescindere dal prologo, intitolato Il cliente ha sempre ragione, entriamo nel vivo dell’azione. In medias res arabesca di storie in formato matriosca che, nel secondo capitolo del film, Sin City: Una dama per cui uccidere, assumeranno una definitiva coagulazione filmica. Perciò, partiamo subito con Quel bastardo giallo. Ovvero la triste ma intrepida peripezia del coriaceo, misterioso poliziotto John Hartigan (un Bruce Willis dall’espressione eternamente accigliata e impassibilmente torva ma al contempo dolce da duro innamorato dal cuore tenero che, grazie a un gioco di occhiate carismatiche d’annata, vale tutto il prezzo del biglietto e dunque della sua magnifica performance di strepitosa sordina). Il quale salva una bambina di nome Nancy (Makenzie Vega da piccola, Jessica Alba da grande) dalle grinfie di un maniaco pedofilo, Roark Junior (Nick Stahl).

Hartigan, malgrado il suo prode gesto salvifico da uomo figlio di un’era dimenticata e sentimentalmente nobile, viene ingiustamente arrestato e sbattuto in gattabuia per circa un decennio. Una volta scontata la sua pena, incontra nuovamente Nancy che, nel frattempo, è diventata una bellissima ragazza assai sexy che si esibisce in un night club frequentato perlopiù da bavosi fuori di testa.

Nancy è da sempre innamorata del suo salvatore e anche Hartigan, nonostante la grande differenza d’età che lo separa da Nancy, è atavicamente attratto da lei poiché onestamente, essendo costei la personificazione di una Lolita irresistibile, incarna ogni recondita, maschile fantasia proibita.

Cosicché, sebbene Hartigan sia l’emblema del macho man che non deve chiedere mai, alla fine si scioglie piacevolmente e, cullato dai caldi e lievi baci di Nancy, viene avvolto fra le sue gambe dietro le tendine di un nero appartamento ficcato nella notte più svenevolmente, focosamente ardimentosa.

Mentre il pazzo scatenato non è ancora stato fermato e riesce, poco dopo, a prendere in ostaggio la povera Nancy per seviziarla immondamente.

Come andrà a finire?

Dopo il durissimo, appena citato episodio del tosto ma delicatissimo Hartigan e della sensualissima Nancy, neanche a farlo apposta, abbiamo l’episodio chiamato Un duro addio.

Ove il super freak e disgraziato mai visto dal viso assai sfregiato di nome Marv (un debordante Mickey Rourke in parte come non mai), terminato di avere una notte di sesso selvaggio con l’unica donna che l’abbia mai amato, cioè Goldie (Jaime King), scopre che lei è stata barbaramente trucidata. Al che Marv, costernato e distrutto dal dolore, grida al cielo, immediatamente, atroce vendetta. Fra le umide, puzzolenti e sporche strade della corrotta Basin City, dopo aver incontrato Lucille (una Carla Gugino che si esibisce in un memorabile, plateale, stupendo topless da incorniciare nel quale si mostra generosamente in tutta la sua vellutata avvenenza superba) che, per l’appunto, inutilmente prova a dissuaderlo dal vendicarsi, a dispetto di tutti i buoni consigli elargitigli, Marv si getta a capofitto fra i vicoli ciechi e olezzanti di questa metropoli di luridi bastardi. Ovviamente, in cerca del colpevole e dei complici da punire severamente, in maniera ferina e cruenta oltre ogni dire. Entrando in contatto con gli avanzi più miserabili della città, gettandosi a capofitto, fra bevute, risse e pugni senz’esclusione di colpi, nel vivido cuore pulsante della sua stessa rabbia da irruento, bestiale loser in cerca di giustizia. Lanciandosi spericolato nei meandri, potremmo metaforicamente dire, d’una labirintica, sanguinaria revenge tonitruante che profumerà forse d’autoassolutoria catarsi struggente e si tingerà di cremisi sfumature emozionali, come per il precedente episodio, ancora una volta poderosamente e commoventemente romantiche.

Infine, Un’abbuffata di morte: la poco di buono Shellie (Brittany Murphy) viene tormentata dal suo ex, lo sbruffone e zotico, corpulento Jackie Boy (un Benicio Del Toro ispiratissimo) che, coi suoi maneschi scagnozzi, fa irruzione in casa della ragazza. Shellie però non è sola, bensì si trova in compagnia del suo attuale boyfriend Dwight (Clive Owen). Un uomo affascinante ma terribilmente stronzo.

E ci fermiamo qui per non rovinarvi le sorprese. Diciamo soltanto che la piccola ma mirabolante, allucinatoria scena lisergica fra Dwight e Jackie Boy, girata in macchina, è ad opera di Quentin Tarantino.

Che dire di più? Sin City, a distanza di quindici anni dalla sua uscita, conserva intatto il suo enorme perché. Insomma, un film che sa, eccome, il fatto suo. Girato da dio e recitato, possibilmente, ancora meglio. Un film che, nonostante la notevole durata, non annoia quasi mai e si lascia vedere tutto d’un fiato.

L’unica critica vera che possiamo muovergli contro sono le voci narranti. Sicuramente troppo insistite e forse non poco eccessive in alcuni punti.

Ma è un dettaglio, comunque, piuttosto trascurabile.sin city donna uccidere

Sin City: Una donna per cui uccidere, recensione

Oggi, a distanza di sei anni dalla sua uscita nelle sale italiane, avvenuta il 2 Ottobre del 2014, recensiamo Sin City – Una donna per cui uccidere (Sin City: A Dame to Kill For).

Seguito del fortunato e acclamato Sin City, n’è anche il prequel.  Ovviamente, come il precedente, è diretto da Robert Rodriguez (Dal tramonto all’albaMachete) in concomitanza con Frank Miller, autore del celeberrimo graphic novel omonimo.

Stavolta, la trasposizione cinematografica n’è un adattamento parzialmente originale poiché, constando di quattro episodi, solamente due di essi sono stati ricavati dalla succitata serie fumettistica. Gli altri due, invece, sono stati originalmente creati ex novo.

I personaggi, inoltre, raddoppiano. Se nel primo, infatti, la vicenda verteva principalmente su tre personaggi, qui ne abbiamo esattamente il doppio, cioè sei. Sin City – Una donna per cui uccidere dura un’ora e quarantadue minuti.

Possiamo, brevemente, sintetizzare la trama in questi termini:

l’avvenente e da tutti i gonzi della città del peccato assai bramata spogliarellista di nome Nancy (Jessica Alba) intrattiene, coi suoi balli sensuali, gli avventori di uno squallido night club malfamato, frequentato perlopiù da ubriaconi malfidati.

Nancy, nonostante si esibisca in danze peccaminose e piccanti, mostrandosi conturbante e ammaliando la sporca clientela con le sue provocanti mosse feline molto arrapanti, non riesce a dimenticare il suo defunto amante, Hartigan (Bruce Willis che ricompare, fantasmatico, in un’apparizione lugubre durante una plumbea notte densa del suo vivissimo ectoplasma tenebroso, memore del suo macho duro dal cuore tenero e di lei, perfino dall’oltretomba, infinitamente innamorato).

Nel frattempo, Nancy viene protetta dal gigantesco Marv (Mickey Rourke), un debosciato dal viso sfregiato e deforme che, fra risse, bevute e medicinali inghiottiti per tentare di sanare il suo cervello malandato, si trascina stancamente, eppur sempre combattivo e col fisico prestantemente taurino, in tale cupo e lercio sottobosco di guerci e prostitute di basso bordo. Un covo luciferino di gente arida di sentimenti e priva di nobili intenzioni. Insomma, gente miserabilmente meschina.

Ecco che nel locale giunge anche un azzimato e ambizioso giovincello sbruffone, Johnny (Joseph Gordon-Levitt). Il quale, mosso da una bramosa cupidigia, sfida incoscientemente a carte il perfido e sadico senatore corrotto sino al midollo, l’avido e truffaldino, malavitoso e potentissimo senatore Roark (Powers Boothe). Lo batte, umiliandolo dinanzi ai suoi bravi. Scatenando in Roark una cattivissima ira vendicatrice.

Nel bar di questa nerissima metropoli assai sudaticcia, fa capolino anche il disilluso Dwight (Josh Brolin, che rimpiazza Clive Owen). Il quale viene ancora una volta fatalmente adescato dalla sua odiatissima e al contempo eternamente amata Ava Lord (Eva Green), l’irresistibilmente fascinosa dama letalmente tentatrice e maliziosamente un po’ meretrice che dà il sottotitolo al film.

Come andrà a finire?

Sin City – Una donna per cui uccidere, ai tempi della sua release, fu meno apprezzato del film precedente. Incassando assai meno rispetto, per l’appunto, al capostipite e deludendo buona parte della Critica che accusò il film di essere soporifero e troppo pedante nelle sue prolisse digressioni con le sue esageratamente insistite voci fuori campo. Voci off che furono comunque il marchio di fabbrica vincente del primo capitolo.

Come appena detto, gli incassi delusero le aspettative tanto da indurre i produttori a dover rinunziare a un potenziale, ulteriore seguito.

Peraltro oramai impossibile, anzi, impensabile a meno che i diritti di queste due trasposizioni, detenute dall’ex padrone della Miramax, il disgraziato Harvey Weinstein, non vengano acquistate da qualcun altro, semmai un azzardato benefattore. Ipotesi alquanto remota e poco realistica, a essere sinceri.

Sin City – Una donna per cui uccidere, a nostro avviso, si lascia vedere invece piacevolmente poiché ancora una volta Rodriguez ci stupì con la sua calibrata e morbida mistura di live action e riprese avvolgenti coagulate a un bianco e nero nuovamente sorprendente. Vitreo e struggente.

Non è all’altezza del primo ma Sin City – Una donna per cui uccidere ha comunque i suoi suggestivi, notevoli momenti da ricordare.

Nel cast anche Rosario Dawson e un appesantito Ray Liotta. Cammeo di Lady Gaga.

di Stefano Falotico

 

 

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